La destra italiana, o almeno quella al governo, non ha una politica ambientale. Questa è una cattiva notizia per tutti, elettori di destra e no, perché in settori come quello ambientale i danni causati dall’assenza di politiche sono anche più gravi di quelli derivanti da politiche insufficienti.
Ogni illusione sulla possibilità di un ambientalismo di destra svanisce con gli emendamenti al decreto Asset presentati dal governo e approvati in questi giorni. A trent’anni dalla tragedia del Vajont, l’Italia ha un governo che brancola nel buio sulle politiche ambientali.
Gli emendamenti intervengono in aree specifiche: i primi due (di cui si è già data notizia qui) depenalizzano la caccia agli uccelli con munizioni al piombo nelle aree umide e rendono meno vincolanti i pareri dell’Ispra sui calendari venatori stabiliti dalle regioni, gli altri annullano alcuni dei vincoli al taglio di alberi prima affidati alle sovrintendenze al paesaggio. Questi emendamenti derivano in maniera ovvia dall’obiettivo di favorire gli interessi dei cacciatori, degli armieri, dell’industria del legno.
Una scelta di campo
Si tratta di interessi legittimi, ma minoritari. Inoltre, questo modo di procedere esprime una scelta di campo precisa: per esempio, nel caso del taglio degli alberi, si suggerisce che la bellezza dei paesaggi non possa vincolare l’attività economica (contraddicendo la tutela del paesaggio stabilita nell’articolo 9 della Costituzione), mentre nel caso degli emendamenti sulla caccia si assume che il divertimento di esseri umani valga di più del dolore degli uccelli o del rischio di estinzione di certe specie.
La vera notizia non sono questi emendamenti, ma il modo di pensare che li ispira. Ciò che importa sono piccoli gruppi della società che possono portare voti, l’ossequio a tradizioni residuali e minoritarie, i vantaggi di piccoli settori industriali conservatori e a scarsa innovazione (l’industria del legno vale di più dell’industria del turismo paesaggistico o dell’indotto che può gravitare attorno ai parchi naturali?). In questa ideologia, il paesaggio non è un bene da difendere, le specie animali non sono un tesoro da preservare. Questa ideologia non è neanche di destra: il paesaggio della Patria e le foreste italiane potrebbero essere un vessillo di ambientalisti di destra, le specie animali autoctone anche.
Un ambientalismo di destra
Su queste colonne, Lorenzo Castellani ha indicato gli obiettivi di un possibile ambientalismo di destra: ridurre il dissesto idro-geologico con riforme strutturali, introdurre nuovi mercati green, anche tramite incentivi. Gli aveva risposto Francesco Giubilei, rilanciando e proponendo un ambientalismo di destra che avrebbe dovuto puntare alla difesa dei ceti più colpiti dai costi della transizione ecologica, a conciliare esseri umani e natura e a difendere le tradizioni.
Delle tradizioni evidentemente non fanno parte quelle che hanno portato i nostri antenati a piantare i boschi italiani (che non sono certo tutti primordiali), o quelle letterarie e figurative che rappresentano la bellezza del creato e delle creature. E tutto questo di fronte a un Papa che nella Laudate Deum prende posizione contro il negazionismo, a favore della scienza e a difesa degli attivisti climatici e di chi muore sul lavoro per cause climatiche.
La destra italiana
La destra italiana, o almeno quella al governo, non ha una politica ambientale. Questa è una cattiva notizia per tutti, elettori di destra e no, perché in settori come quello ambientale i danni causati dall’assenza di politiche sono anche più gravi di quelli derivanti da politiche insufficienti.
Se ci fosse veramente in Italia una cultura di destra capace di riflessione, e non solo un’assemblaggio male assortito di piccoli interessi economici orfani della capacità di attrazione di Silvio Berlusconi, sarebbe ora di vedere sulle piazze non solo i giovani dei Fridays for Future, ma anche i giovani che leggono le descrizioni della lussureggiante natura della contea degli Hobbit. Ma temo che anche loro siano destinati a rimanere delusi dal governo che dovrebbe rappresentarli.
In una stazione di servizio sull’autostrada, il 9 ottobre del 1997, capitai per caso su Vajont di Marco Paolini. Rimasi incollato al tavolo, con il collo alzato verso la televisione su in alto, su uno scaffale, il panino scadente sul piatto. Il Vajont è l’emblema delle sciagure che possono derivare dall’assenza di politiche ambientali, dalla politica che si asserve agli interessi particolari. Fra trent’anni, forse, si racconterà la crisi climatica di queste estati e questi autunni: le morti sul lavoro per il caldo, le trombe d’aria, le alluvioni. Ma i nostri figli avrebbero fatto volentieri a meno di questi racconti.
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