- Confindustria e sempre più politici (da Calenda alla destra) chiedono una sospensione del meccanismo ETS, il sistema che in Europa impone un prezzo alle emissioni di CO2 di energia e industria.
- Sospendere l’ETS avrebbe un effetto limitato sui costi delle bollette, ma priverebbe la politica climatica dell’Unione di un tassello fondamentale, senza il quale è impossibile decarbonizzare e azzerare le emissioni al 2050.
- Il vero passaggio non populista non è sospendere l’ETS ma far si che i suoi fondi vadano nella direzione di una transizione giusta. Solo il 36 per cento di queste risorse in Italia viene investito in politiche climatiche.
Durante una crisi energetica come questa, l’Ets, cioè il sistema che regola lo scambio di quote e permessi per le emissioni di gas serra, ha proprio il physique du rôle ideale del capro espiatorio. È uno strumento europeo, quindi permette di additare una Commissione insensibile ai bisogni di cittadini e imprese. Inoltre impone costi immediati per raggiungere un risultato collettivo a lungo termine come la decarbonizzazione.
Infine ha un funzionamento non particolarmente intuitivo, nel quale l’unica cosa che si capisce a un primo sguardo è il prezzo della CO2 per tonnellata che le aziende interessate devono sostenere. È per questi motivi che il fronte dei nemici dell’Ets è così nutrito: in Italia parlano di sospenderlo Carlo Calenda e il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, così come a turno esponenti di tutti i partiti della destra.
Anche la Polonia ha chiesto alla Commissione di sospenderlo. È stata il primo paese dell’Unione a fare questo passo, potrebbe essere seguita dalla Repubblica Ceca.
Obiettivi sulle emissioni a rischio
Il problema è che senza questo tassello tutti gli obiettivi di riduzione delle emissioni rischiano di venire meno. Lo spiega Massimo Tavoni, docente al Politecnico di Milano ed esperto di economia dei cambiamenti climatici: «L’Ets è il pilastro della politica climatica dell’Unione, è il più grande mercato per le emissioni al mondo, è necessario per dare un segnale di prezzo e indirizzare la transizione».
Chi si mette contro il pagamento delle quote di emissioni si mette inevitabilmente anche contro il Green Deal.
L’Emission Trading System dell’Unione europea è in vigore dal 2005 ed è basato su un meccanismo “cap and trade”.
L’Ets impone a undicimila imprese del settore energetico e industriale di rispettare quote decrescenti di emissioni (“cap”). Chi supera la quantità di emissioni concesse dal sistema deve comprare le quote in un mercato regolato dalle leggi di domanda e offerta (“trade”).
A molte aziende oggi le quote sono per altro concesse a titolo gratuito: sono le imprese che competono sui mercati internazionali, contro rivali di paesi dove il meccanismo non esiste. Le agevolazioni sono accettate per evitare la concorrenza sleale di chi opera in paesi dove le emissioni non si pagano.
Quanto si paga
I prezzi sul mercato Ets sono stati a lungo bassi e stabili, ma sono schizzati in alto durante l’attuale crisi. Fino al 2018 le quote costavano regolarmente meno di 10 euro per tonnellata di CO2 emessa, poi in pochi mesi sono schizzate fino a quasi 100 euro. Attualmente il costo europeo del carbonio si è assestato intorno a 70 euro.
«L’Ets nasce dall’esigenza di far pagare di più chi inquina di più», spiega Tavoni. «Non è una tassa ma un modo per fissare un prezzo alla CO2. Quando sale così tanto, gli operatori del settore fossile si innervosiscono e spingono per sospenderlo. Ma è utile ricordare che – pure quando è alto – il costo delle emissioni in Europa è comunque più basso del loro costo sociale ed ecologico sulla collettività».
Una ricerca pubblicata nel 2022 su Nature ha calcolato in 185 dollari (circa 182 euro) il costo dei danni alla società provocato a ogni incremento di una tonnellata di CO2 emessa nell’atmosfera.
L’impennata dell’Ets è stata effettivamente uno dei fattori dell’aumento del costo dell’energia, ma non nella misura che sostengono i suoi detrattori. Il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans aveva stimato che meno di un quinto dell’aumento dei prezzi era dovuto alla volatilità del mercato Ets.
La presidente Ursula von der Leyen è stata poi più precisa: la stima del contributo delle quote per le emissioni all’aumento dei prezzi è del 6 per cento: il restante 94 per cento dipende da altri fattori, che portano alla disfunzionalità del mercato del gas. Vero: con l’inflazione così alta, anche un piccolo contributo può essere deleterio e avere un impatto, ma non è sospendendo l’Ets che si cambia il destino dei mercati energetici dell’Europa.
«L’unico effetto sarebbe eliminare l’elemento strutturale della politica europea che più indirizza la transizione verso le fonti rinnovabili di energia, dando un prezzo aggiuntivo alle fonti fossili», spiega Matteo Leonardi, direttore esecutivo del centro studi Ecco Climate. Una sospensione del meccanismo Ets ridurrebbe di pochissimo il costo dell’energia, in compenso sarebbe una mazzata per la lotta ai cambiamenti climatici.
Il meccanismo Cbam
Il danno di una eventuale sospensione dell’Ets diventa più chiaro se allarghiamo l’inquadratura, dal presente al futuro e dall’Europa al mondo. Tra gli obiettivi climaticamente più ambiziosi dell’Unione europea c’è l’introduzione di un altro meccanismo, chiamato Cbam, Carbon Border Adjustment Mechanism, quello citato dal segretario del Pd Enrico Letta nel suo confronto con la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni.
In sostanza, il Cbam è un dazio per l’importazione di carbonio imposto ai prodotti industriali che arrivano nel mercato europeo da paesi in cui non c’è un prezzo alle emissioni. È un meccanismo per eliminare l’effetto concorrenza sleale sulla CO2 e imporre la leadership europea sulla decarbonizzazione di grandi produttori internazionali come la Cina.
Il Cbam fa parte del negoziato sul pacchetto Fit for 55 ed è l’arma definitiva messa in campo della Commissione per proteggere le imprese europee e trainare la decarbonizzazione su scala globale (l’unica che conta davvero). «Se venisse sospeso il mercato interno Ets, non potremmo pensare di imporre questo dazio all’esterno», spiega Leonardi.
«Gli altri paesi direbbero: mi vuoi imporre un dazio su qualcosa che al tuo interno metti e togli a tuo piacimento? La nostra credibilità sarebbe bruciata».
L’Ets cambierà nei prossimi anni. Diminuiranno le quote gratuite, in parallelo all’adozione del Cbam, quindi settori energivori che oggi possono inquinare liberamente non potranno più farlo. Inoltre, il mercato – che oggi copre solo energia e industria – si allargherà fino a comprendere trasporti marittimi, aviazione e riscaldamento degli edifici.
Si capisce da qui perché è un negoziato tra i più delicati del pacchetto Fit for 55, dove conterà molto l’impostazione del nuovo governo italiano. Infine c’è il problema di come vengono usati dai paesi i proventi di questo mercato: formalmente (ma senza obblighi) almeno il 50 per cento dei ricavi deve andare alla transizione ecologica, ma la percentuale reale varia da paese a paese.
La Germania dedica il 100 per cento delle entrate Ets a un fondo per il clima, la Francia il 91 per cento alla decarbonizzazione degli edifici, in Italia la destinazione varia di anno in anno ma la quota è solo del 36 per cento. Il resto finisce anche in sussidi fossili. «I proventi dovrebbero essere usati per le imprese in difficoltà, per la transizione e le persone rese vulnerabili dalla crisi», conclude Tavoni.
Se si volesse mettere mano al sistema Ets in maniera non populista, la soluzione da valutare sarebbe questa: non sospenderlo, ma assicurarsi che i fondi vengano usati nell’ottica di una transizione giusta.
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