- I nostri antenati avevano un cervello più grande del nostro. Alcune migliaia di anni fa, infatti, proprio quando iniziavano a emergere le prime civiltà complesse conosciute i cervelli umani incominciarono a ridursi di dimensione.
- E così, in un recente lavoro, gli scienziati hanno cercato ispirazione da una fonte improbabile: a prima vista il cervello delle formiche potrebbe sembrare incredibilmente diverso dal nostro ma alcune società di formiche condividono singolari somiglianze con le nostre.
- Una piccola pietra chiamata Ipazia è arrivata dallo spazio molto probabilmente a cavallo di una cometa e caduta sulla Terra nel deserto egiziano nel 1906. Una ricerca, pubblicata su Icarus, sostiene che l’oggetto potrebbe essere ciò che rimane dell’esplosione di una supernova di tipo Ia, uno dei fenomeni più energetici dell’Universo.
I nostri antenati avevano un cervello più grande del nostro. Quando ciò venne scoperto fu sconcertante. Alcune migliaia di anni fa, infatti, proprio quando iniziavano a emergere le prime civiltà complesse conosciute – che permisero un forte scambio interculturale tra gli uomini – i cervelli umani incominciarono a ridursi di dimensione.
«Il volume perso, in media, sarebbe più o meno equivalente a quello di quattro palline da ping pong», afferma Jeremy DeSilva, antropologo al Dartmouth College negli Stati Uniti. E secondo un’analisi dei fossili cranici, condotto dallo stesso DeSilva l’anno scorso, il restringimento è iniziato circa 3mila anni fa.
Ebbene, se ciò è avvenuto è davvero strano. Basta una semplice analisi della storia dell’uomo per rendercene conto: l’agricoltura è emersa tra 10mila e 5mila anni fa, anche se ci sono alcune prove che dimostrano che la coltivazione delle piante potrebbe essere iniziata già 23mila anni fa. Presto poi segue la nascita di civiltà ricche di forme architettoniche complesse, a cui segue la nascita delle “macchine”. E poi ecco la prima scrittura apparsa più o meno nello stesso periodo.
Perché allora, durante questa epoca di straordinario sviluppo tecnologico, il cervello umano ha iniziato a diminuire di dimensioni? È una domanda che lascia attoniti anche i ricercatori. La scoperta solleva questioni su ciò che le dimensioni di un cervello rivelano davvero, sull’intelligenza di un animale, o sulle capacità cognitive in generale.
È noto che molte specie viventi hanno cervelli di dimensioni molto più grandi del nostro e tuttavia la loro intelligenza, per quanto ne sappiamo, è molto diversa e forse inferiore. La relazione tra il volume del cervello e il modo in cui gli umani agiscono non è perciò così semplice da definire. Quel che è certo è che non è possibile affermare che più è grande il cervello e più aumenta l’intelligenza di una specie.
Ci sono anche altri fattori da tenere in considerazione. E fino a oggi non c’erano elementi che spiegassero cosa spinge i cervelli a diventare più grandi o più piccoli nel tempo in una determinata specie. DeSilva e altri colleghi hanno dimostrato che le dimensioni del corpo umano sono diminuite nel tempo, ma non è stato sufficiente a spiegare la riduzione del volume del nostro cervello. La risposta alla domanda sul perché questo cambiamento sia avvenuto, dunque, è ancora sospesa.
Una fonte atipica
E così, in un recente lavoro, gli scienziati hanno cercato ispirazione da una fonte improbabile: l’umile formica. A prima vista il cervello delle formiche potrebbe sembrare incredibilmente diverso dal nostro. Ha un volume di circa un decimo di millimetro cubo – o un terzo delle dimensioni di un granello di sale – e contiene solo 250mila neuroni. Il cervello umano ne ha circa 86 miliardi. Ma alcune società di formiche condividono singolari somiglianze con le nostre.
È sorprendente, ad esempio, che ci siano specie di formiche che praticano una forma di agricoltura che produce distese di funghi all’interno dei loro nidi, portando foglie e altro materiale dall’esterno. Quando DeSilva ha confrontato le dimensioni del cervello di varie specie di formiche, ha scoperto che quelle appartenenti a società più complesse erano più grandi, tranne per chi aveva sviluppato la propensione all’allevamento dei funghi, cioè a “fare agricoltura”.
Ciò suggerisce che, almeno per le formiche, avere un cervello più grande è importante per dare vita a una grande società. Ma mostra inoltre che sistemi sociali più complessi, con una divisione del lavoro più sviluppata, potrebbero al contrario indurre il cervello dei singoli individui a rimpicciolirsi. E potrebbe essere dovuto al fatto che le capacità cognitive vengono suddivise e distribuite tra molti membri del gruppo, che hanno perciò vari ruoli da svolgere. In altre parole: l’intelligenza diventa collettiva.
«E se ciò fosse accaduto anche negli umani?» si chiede DeSilva. «E se, negli esseri umani, avessimo raggiunto una soglia di dimensione della popolazione, una soglia in cui gli individui condividessero informazioni ed esternalizzassero informazioni nel cervello degli altri?»
Un’altra ipotesi è che anche l’emergere della scrittura, avvenuta circa 2mila anni prima della riduzione delle dimensioni del cervello umano, abbia avuto un effetto. La scrittura è uno dei pochi elementi che dal punto di vista biologico ci distingue da tutte le altre specie. DeSilva si chiede se «l’esternalizzazione delle informazioni per iscritto e la capacità di comunicare idee accedendo a informazioni che sono al di fuori del proprio cervello» possa aver influenzato il volume dell’organo.
Lo stesso DeSilva è il primo a sottolineare che le molte differenze tra il cervello delle formiche e quello umano richiedono cautela nel tracciare parallelismi troppo frettolosi. Ma può essere un utile punto di partenza per studiare cosa abbia causato la notevole e relativamente recente riduzione del volume del cervello umano.
La pietra arrivata da una stella
Una piccola pietra chiamata Ipazia, arrivata dallo spazio molto probabilmente a cavallo di una cometa e caduta sulla Terra nel deserto egiziano nel 1906, ha raccontato a un gruppo di scienziati, che sono riusciti a “interrogare” i minerali e gli atomi di cui è composta, una storia davvero eccezionale.
I risultati di questa ricerca, pubblicata su Icarus, sostengono che l’oggetto potrebbe essere ciò che rimane dell’esplosione di una supernova di tipo Ia, uno dei fenomeni più energetici dell’Universo. Se la scoperta dovesse essere confermata, saremo certi di avere tra le mani la prova inconfutabile di quel che rimane di un’esplosione di una stella.
Lo studio è stato realizzato da un gruppo di ricercatori, tra i quali Jan Kramers, Georgy Belyanin e Hartmut Winkler dell’Università di Johannesburg, che dal 2013 lavora attorno alla roccia. Una composizione chimica molto particolare ha richiesto anni di ricerche e confronti per arrivare a formulare un’ipotesi così unica circa la sua nascita.
La nascita di Ipazia inizia con una stella gigante rossa la quale collassò in una nana bianca, una stella di piccole dimensioni, con bassa luminosità tendente al bianco. È il risultato finale di un’evoluzione tipica di alcune stelle. ll collasso sarebbe avvenuto all’interno di una gigantesca nuvola di polvere, che dagli astronomi viene chiamata “nebulosa”. Quella nana bianca però viveva con un’altra stella in un sistema definito “binario” e si “nutriva” dell’altra stella attraendo verso sé del materiale. Ad un certo punto la nana bianca “affamata” è esplosa come una supernova di tipo Ia all’interno della nuvola di polvere.
Dopo il raffreddamento, gli atomi di gas rimasti della supernova Ia hanno iniziato ad attaccarsi alle particelle della nuvola di polvere dando origine a oggetti solidi. Spiega Kramers: «In un certo senso potremmo dire, abbiamo “catturato” un’esplosione di supernova Ia “sul fatto”, perché gli atomi di gas dell’esplosione sono stati catturati nella nuvola di polvere circostante, che alla fine ha formato il corpo genitore di Ipazia».
L’enorme “bolla” di questo mix di atomi di polvere e gas di supernova non ha mai interagito con altre nubi di polvere. Questo processo è probabilmente avvenuto in una parte esterna fredda e tranquilla del nostro sistema solare, senza interagire con esso. A un certo punto, la roccia madre di Ipazia inizia ad avvicinarsi alla Terra fino a precipitarvi. Il calore dell’ingresso nell’atmosfera terrestre, combinato con la pressione dell’impatto nel grande mare di sabbia nel sud-ovest dell’Egitto, ha creato microdiamanti e ha frantumato la roccia madre.
«Se questa ipotesi è corretta - continua Kramers -, Ipazia sarebbe la prima prova tangibile sulla Terra di un’esplosione di tipo Ia di una supernova. I resti di quell’esplosione si sono incorporati nel sistema solare senza mischiarsi con esso. Ma ciò andrebbe contro la visione convenzionale secondo cui la polvere da cui si è formato il nostro sistema solare era completamente omogenea». Per ricostruire la sequenza temporale su come potrebbe essersi formata Ipazia, i ricercatori hanno utilizzato diverse tecniche di analisi.
Nel 2013, uno studio sugli isotopi (atomi con stesso numero di protoni, ma diverso numero di neutroni) dell’argon ha dimostrato che la roccia non si è formata sulla Terra. Doveva essere extraterrestre. Uno studio del 2015 sui gas nobili (gas come l’elio) nel frammento ha indicato che potrebbe non provenire da nessun tipo noto di meteorite o cometa. Nel 2018 il team di Kramers ha pubblicato varie analisi, tra cui la scoperta di un minerale, il “fosfuro di nichel”, non trovato in precedenza in nessun oggetto del nostro sistema solare.
A quel punto Ipazia si stava rivelando difficile da analizzare ulteriormente. I metalli in traccia, che Kramers e Belyanin stavano cercando, non potevano davvero essere “visti in dettaglio” con la strumentazione che possedevano. Avevano bisogno di uno strumento più potente che non distruggesse il minuscolo campione, ma che permettesse ulteriori analisi. Fu allora che Kramers ritornò ad analizzare un set di dati che Belyanin aveva ottenuto alcuni anni prima.
Nel 2015, infatti, Belyanin aveva condotto una serie di analisi su un raggio di protoni presso gli iThemba Labs nel Somerset West. A quel tempo, il dottor Wojciech Przybylowicz utilizzava una macchina da tre milioni di Volt per analizzare il contenuto degli atomi. «Con quella macchina abbiamo identificato 15 diversi elementi in Ipazia con precisione e accuratezza molto maggiori. Questo ci ha fornito gli “ingredienti” chimici di cui avevamo bisogno, in modo che Jan potesse iniziare il processo successivo di analisi», afferma Belyanin.
Il primo importante indizio dalle analisi del fascio di protoni è stato il livello sorprendentemente basso di silicio presente in Ipazia. Il silicio, insieme al cromo e al manganese, era meno dell’1 per cento, un valore troppo basso per qualcosa che si è formato all’interno del nostro sistema solare. Inoltre, l’alto contenuto di ferro, di zolfo, di fosforo, di rame e di vanadio erano anomali.
Aggiunge Kramers: «In tal modo avevamo la certezza che quella pietra non apparteneva al nostro sistema solare, primitivo o evoluto. Anche gli oggetti nella cintura degli asteroidi e le meteore non corrispondono alle caratteristiche di Ipazia. Quindi abbiamo guardato fuori dal sistema solare». A questo punto i ricercatori hanno seguito varie ipotesi via via scartate fino ad arrivare a quella dell’esplosione di una supernova di tipo Ia, che al momento sembra essere la più coerente con tutti i dati a disposizione.
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