- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter ambientale di Domani.
- Questa settimana parliamo di limiti e pregi dell’attivismo performativo, del punto di non ritorno in Artico, dell’allarme siccità dell’Onu e della regina dell’avorio in Tanzania.
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Il paracadutista, le «scenette» e la narrativa sul clima
Probabilmente questa settimana non ha dato un grande contributo il paracadutista di Greenpeace che durante una partita dell'Europeo di calcio si è lanciato sullo stadio di Monaco, ha sbagliato l'atterraggio e ha ferito diverse persone. Greenpeace Germania si è scusata con le persone coinvolte nell'evento, alla fine non si è parlato del contenuto della protesta (il cui messaggio era «Kick out oil») ma si è innescata una conversazione su quanto siano ancora utili queste azioni eclatanti. Per esempio, Francesco Costa nel suo podcast mattutino del Post Morning è partito dall'episodio per chiedersi se questo tipo di «attivismo performativo» ambientalista abbia ancora senso per parlare di clima, soprattutto quando implica la creazione di scenette e la costruzioni di «pupazzoni», come durante il G7 in Cornovaglia.
Quindi parliamone: a che serve?
Al di là dell'episodio sfortunato e sbagliato di Monaco di Baviera, secondo me è una domanda che vale la pena porsi: le proteste colorate e di forte impatto visivo sono destinate ormai a diventare note di colore per illustrare articoli che parlano di altro? Ho provato a chiedere a Greenpeace Italia con quale logica vengano oggi costruite queste proteste, ma l'organizzazione ha preferito non parlarne, perché sono ancora tutti scossi dall'incidente.
Ho mandato però una mail a Yves Plourde, che è un professore associato all'Università di Montréal, in Canada, ed è un esperto sul percorso di Greenpeace dagli inizi a oggi. Ciclicamente, mi ha spiegato Plourde, ci sono stati episodi in cui qualcosa è andato storto durante proteste eclatanti e il messaggio si è ritorto contro di esse. «C’è sempre una sottile linea tra legittimità e illegittimità, se qualcosa va storto passi da spettacolare a incosciente». Perché farle, allora? «Ormai per un’organizzazione così grande questi eventi sono forse il 5 per cento dell’attività ma rimangono al cuore della sua filosofia. Il gruppo dei fondatori era fatto da giornalisti e la visione originaria viene dalle teorie di Marshall McLuhan sul mezzo e il messaggio. L’obiettivo comunicativo primario è ancora veicolare immagini nella conversazione».
Come ogni immagine, a volte queste vengono bene e altre meno bene, soprattutto se uno stunt va storto. C’è da dire che nel dna originario di Greenpeace c’è anche il prendersi dei rischi e dimostrare il proprio punto attraverso quei rischi. In fondo la prima azione fu navigare nell'area di un test nucleare in Alaska. «Con i social media questo lavoro è diventato insieme più facile e più difficile», spiega Plourde, «le immagini viaggiano più libere, senza bisogno dei media tradizionali, ma c’è anche più competizione con tonnellate di messaggi di altro tipo».
Ho chiesto qualcosa in più anche a Carlotta Muston, attivista italiana di una organizzazione molto più giovane di Greenpeace, più radicale sia sui contenuti che sulla forma del messaggio: Extinction Rebellion, diventata famosa nel Regno Unito per la visionarietà delle proteste e per i blocchi di traffico e stazioni per sensibilizzare sulla crisi climatica.
Gli automobilisti escono più consapevoli dopo aver passato qualche ora chiusi in auto ad aspettare la fine del blocco? Di sicuro non tutti, ma non è questo il punto, spiega Muston. «La nostra generazione si è dovuta confrontare col fatto che il tipo di manifestazione con la quale siamo cresciuti, il corteo tradizionale, non porta né cambiamento né empowerment. Dopo il corteo ti senti ancora più sola, per noi le azioni devono essere trasformative per chi le compie, devono farti recuperare il potere che senti di non avere. Lo scopo è riprendersi lo spazio pubblico».
Sulle «scenette» Extinction Rebellion ha costruito buona parte del suo messaggio, anche in Italia. Abbiamo visto singole persone sedute da sole in mezzo al traffico, la sfilata delle anime estinte, la meditazione con attiviste e attivisti seduti per terra con un filo rosso legato alla gola.
Ma funziona? «Certo che funziona, possono anche parlare male di noi, ma qualcuno si porrà delle domande sulla crisi ecologica. La scenografia è una speranza di risonanza mediatica, spezzare la bolla in cui crediamo che vada tutto bene». Uno dei principi di Extinction Rebellion è il visioning, la visualizzazione, il tipo di obiettivo che è stato anche alla base del «Mount Rushmore» della plastica al G7. Buono per illustrare i giornali, sicuro, ma anche per dire delle cose. «Abbiamo gruppi di lavoro dedicati solo a questo: costruire narrative, creare nuovi concetti e nuove metafore, di cui il movimento globale per il clima ha un bisogno vitale. Alla fine di ogni azione facciamo un debriefing, per ragionare su cosa è andato bene e cosa no, stiamo tutti imparando nel processo di attivare le persone su questa cosa complessa e difficile da vedere come la crisi climatica».
Non credo ci sia una risposta definitiva, il lavoro delle organizzazioni più grandi è ormai soprattutto produrre informazione e condurre trattative dietro le quinte, ma tutte, da quelle più giovani e fluide a quelle storiche, avranno sempre il problema di farci visualizzare il messaggio che è alla base di tutto. Attraverso questo articolato processo di visualizzazione, la conversazione e la percezione di ognuno di noi è cambiata. È difficile pesare quanto sia evoluta per gli effetti della crisi che diventano più visibili, grazie ai media tradizionali (improbabile) o alla politica che ha deciso di farne una priorità (questo è forse più effetto che causa), ma sicuramente la costruzione di narrative visive pubbliche ha avuto il suo peso.
La mina sotto l'Artico
La notizia più importante di questa settimana ha finito con l'essere quasi del tutto ignorata, come se fosse troppo grande per essere assunta tutta insieme. La più grande spedizione scientifica mai fatta in Artico è tornata a casa con delle cose da raccontarci. Si chiama Mosaic, è partita a bordo della rompighiaccio Polarstern nel 2019 con 300 scienziati da 20 paesi diversi, sono rimasti per più di un anno nell'oceano artico a raccogliere informazioni: il loro lavoro sarà forse il più grande avanzamento scientifico nella ricerca sugli effetti della crisi climatica al Polo Nord. Le informazioni raccolte serviranno anche a costruire modelli di previsione su come saranno ondate di calore ed eventi estremi tra 20, 50 o 100 anni.
C'è stata una prima presentazione dei risultati a Berlino e Markus Rex, il capo della spedizione, ha detto dritto per dritto (a proposito di messaggi shock): «La scomparsa del ghiaccio estivo nell'Artico è una delle mine nel campo minato, uno di quei tipping point che inneschiamo quando spingiamo il riscaldamento troppo oltre». Rex, che è un fisico dell'Alfred Wegener Institute for Polar and Marine Research, ha aggiunto: «Ci si può sostanzialmente chiedere oggi se non abbiamo già messo il piede sulla mina e innescato l'inizio dell'esplosione».
Rex ha evidentemente scelto le parole con cura, per avere un effetto sull'opinione pubblica più che sul dibattito scientifico, perché dati e campioni raccolti dalla spedizione saranno analizzati nel corso di anni. Però c’era da dire qualcosa subito, e il prestigioso climatologo si è preso il ruolo dello scienziato che nei film prova ad avvertire cittadini e politici di una imminente catastrofe. Di solito non viene ascoltato e anche in questo caso la settimana è andata avanti occupandoci di altro.
Tornando ai risultati preliminari: il ghiaccio estivo è oggi esteso la metà ed è spesso la metà di quello che era decenni fa, le temperature sono 10°C più alte di quelle registrate dalla spedizione Fram negli anni Ottanta. È un circolo vizioso, quello del ghiaccio: quando è di meno, l'oceano artico assorbe più calore d'estate e questo rende più lenta la formazione di altro ghiaccio d'inverno, e così via. Un altro membro della spedizione, Stefanie Arndt, ha detto che questa potrebbe essere l'ultima generazione a vedere il giacchio formarsi d'estate in Artico.
A questo punto è utile intendersi su cosa sia un tipping point, la mina sulla quale potremmo aver già messo il piede secondo Markus Rex: è un punto di non ritorno del sistema, oltre il quale il cambiamento climatico che abbiamo innescato diventa irreversibile, proprio come quando una persona mette un piede su una mina e non c’è verso che si salvi, la mina non è ancora esplosa ma si può sapere con certezza che lo farà.
Ci sono diversi tipping point identificati dagli scienziati sul sistema fisico e sugli ecosistemi, uno di questi riguarda proprio l'Artico. Già a due gradi, secondo l’IPCC (l’organismo Onu sui cambiamenti climatici), potremmo innescare diversi punti di non ritorno, siamo in margine «too close for comfort», troppo rischioso per stare tranquilli. È per questo che nel 2018, tre anni dopo l'accordo di Parigi, lo stesso IPCC aveva stabilito in 1,5°C la linea da non superare: è la soglia bassa della forchetta stabilita dalla comunità internazionale a Parigi, quando ci si era globalmente impegnati a mantenere l'aumento delle temperature ben sotto i 2°C e possibilmente entro 1,5°C.
Un articolo pubblicato su Nature nel novembre 2019 diceva che i tipping point sono troppo rischiosi per scommetterci contro. Sul collasso dei ghiacci scriveva che servono nuovi dati per capire quanto siamo vicini a quel punto. La spedizione Mosaic è tornata con quei dati e le prime informazioni sono, appunto, preoccupanti.
Caldo e (poca) acqua
Carlotta Muston mi ha anche raccontato come una delle iniziative di Extinction Rebellion riguardi dei momenti di mitigazione dell’ansia, e questo è un tema che andrà prima o poi affrontato: il legame tra le preoccupazioni individuali che molti stanno avendo per il futuro ecologico e la salute mentale. C’è come una frattura tra chi vede tutto (e si preoccupa molto) e chi ancora non vede niente. Mi viene in mente il tema dell’ansia climatica perché questa è stata una settimana di segnali allarmanti. Nessuno vuole contribuire ad aumentare l’ansia generale, ma bisogna parlarne, con sobrietà e brevemente, citando altri due rapporti nuovi.
Il primo è uno studio Onu che fa il punto sulla siccità globale, «La prossima pandemia», come ha spiegato Mami Mizutori, rappresentante per la riduzione dei rischi da disastri. «La maggior parte del mondo vivrà nei prossimi anni in una situazione di stress idrico». Si calcola che un miliardo e mezzo di persone ne siano state affette nell’ultimo secolo, che i danni economici (probabilmente sottostimati) ammontano a 124 miliardi di dollari. È un problema che riguarda anche il cosiddetto mondo sviluppato: l’Europa mediterranea, l’Australia e l’ovest degli Stati Uniti, dove si preparano a un’estate preoccupante. Dopo l’anno dei «megafire» che sono entrati fin dentro la campagna elettorale, sta arrivando quello della «megadrought», la prima crisi ecologica sulla traiettoria del presidente Joe Biden.
Il secondo viene dalla Nasa e dalla National Oceanic and Atmospheric Administration americana, che hanno portato avanti uno studio sul disequilibrio energetico della Terra tra il 2005 e il 2019. Il tema è quanta energia radioattiva solare viene assorbita e quanta viene rimandata nello spazio. Al momento ne tratteniamo più di quanta ne mandiamo fuori, questo sbilanciamento è raddoppiato negli anni che sono stati analizzati dalla ricerca e questo non va benissimo, perché porta la temperatura della Terra ad aumentare. Da cosa dipende? Secondo gli studiosi da un misto di variabili indipendenti del clima (come una fase di riscaldamento dell'Oceano pacifico) e dall’attività dell'uomo, cioè dalle emissioni di gas a effetto serra. In ogni caso il fenomeno è stato definito «allarmante» e «senza precedenti».
La regina dell'avorio
Servono buone notizie prima di salutarci? Probabilmente servono.
La Tanzania era un tempo considerata uno dei posti più pericolosi al mondo per essere un elefante, ma qualcosa è cambiato negli ultimi anni: le operazioni anti bracconieri sono diventate serie ed estese, hanno portato a migliaia di arresti e soprattutto hanno fatto aumentare la popolazione degli elefanti, che è cresciuta da 43mila a 60mila esemplari.
Diverse organizzazioni criminali legate al traffico dell’avorio sono state smantellate, una storia in particolare ha colpito l'immaginazione, quella di una donna cinese chiamata Yang Fenglan e soprannominata «regina dell’avorio». Quasi una storia da film: Fenglan ha 70 anni, vive in Tanzania dagli anni Settanta, parla benissimo lo swahili e all’inizio faceva la traduttrice. Era diventata poi segretaria generale del China-Africa Business Council locale e da anni possiede anche il miglior ristorante cinese di Dar es Salaam. Contemporaneamente, secondo i giudici Fenglan era parte attiva di quello sterminio di elefanti su scala industriale che per decenni ha colpito la Tanzania, attraverso un cartello fatto di bracconieri locali e una rete internazionale per smerciare l’avorio. È stata condannata a quindici anni di carcere, un caso che è anche diventato un problema diplomatico per le relazioni tra Cina e Tanzania.
Siamo arrivati alla fine, se avete notizie, segnalazioni, scenette di sensibilizzazione da proporre o indirizzi di ristoranti cinesi a Dar es Salaam non implicati nel traffico di avorio, fatemi sapere.
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Buon sabato, a presto!
Ferdinando Cotugno
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