- Il ministero della Transizione ecologica gestisce la fetta più importante del Pnrr e al momento è nel caos: la differenza tra un ministero funzionale e uno disfunzionale è uno degli snodi che possono far deragliare il Piano.
- Il punto più delicato è l’assistenza tecnica: gli enti locali (che avranno un terzo dei fondi) hanno bisogno di un flusso continuo di supporto che il ministero di Roberto Cingolani non è ancora in grado di offrire, anche per la sua caotica riorganizzazione.
- Cingolani ha messo il ministero al lavoro sul Piano della transizione ecologica, il "piano dei piani”, ma ancora non sappiamo cosa ha funzionato dei piani precedenti. C’è un problema di monitoraggio mai risolto: continuiamo a scrivere nuovi piani senza mai occuparci dell’impatto di quelli precedenti.
Chi le sta vivendo dall’interno definisce «elettriche» e «snervanti» queste giornate dentro al ministero della Transizione ecologica. La riorganizzazione dopo la nascita del nuovo soggetto dentro lo scheletro del vecchio ministero dell’Ambiente va avanti da quasi un anno e non è ancora completa.
Il caos è aggravato dalla scarsa familiarità con la macchina amministrativa del ministro, Roberto Cingolani, e dal suo approccio muscolare, che sta creando malumori e ostilità in un palazzo fondamentale per il successo dell’azione di governo.
Il Mite è il collo di bottiglia per l’attuazione del Pnrr, gestisce la fetta più grande e delicata. La differenza tra un ministero funzionale e uno disfunzionale è uno degli snodi che possono far deragliare il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Dove sono i direttori?
La situazione è questa: non si conoscono ancora i nomi dei nuovi direttori generali (a parte Paolo D’Aprile, proveniente da McKinsey, per il Pnrr) e l’inviato per il clima promesso per settembre ancora non c’è, ma sappiamo che sarà Alessandro Modiano, in un ruolo però disegnato per essere depotenziato rispetto a un omologo come John Kerry negli Stati Uniti, per non fare ombra all’attivismo internazionale del ministro.
Sul più prosaico e meno stimolante livello italiano la struttura non riesce a fornire assistenza agli enti locali impegnati nei bandi per i fondi europei, da mesi si aspetta l’entrata in azione della super commissione Via che dovrebbe snellire gli investimenti sulle rinnovabili, che invece rimangono fermi per conflitti con altri ministeri o ritardi nell’adozione delle direttive europee.
La fondamentale direttiva Red II del 2018 è stata approvata dal Consiglio dei ministri con mesi di ritardo rispetto alla tabella di marcia e con almeno 4GW di rinnovabili ferme in attesa: ora potrebbe volerci un anno per individuare le aree idonee.
Il concorso per rafforzare la staff ministeriale ha trovato meno della metà delle figure richieste, anche perché le posizioni sono giudicate poco attrattive sul mercato e c’è la concorrenza del settore privato.
Nel frattempo il capo dell’ufficio legislativo, Claudio Contessa, si è dimesso in piena Cop26 e non è ancora stato sostituito. Il tutto mentre sta per partire un’altra partita delicatissima, quella del negoziato con l’Europa per il piano Fit for 55, trattativa che il ministro conduce con comunicati e interviste, nei quali ci si assegna eccezioni che la Commissione è ancora lontana dal concedere, come quella per i furgoni e veicoli commerciali leggeri con motore termico – che l’Italia vuole nel 2040 e non nel 2035 – o l’esenzione per le auto di lusso, per coprire il cronico ritardo dell’industria italiana sull’elettrico.
Gli enti locali smarriti
Il primo effetto di questo caos è che gli enti locali non riescono ad avere un punto di riferimento chiaro in un processo di cambiamento e di spesa che è ben al di sopra delle loro capacità.
Un terzo dei fondi sarà gestito dai territori. Secondo Svimez, l’Associazione per lo sviluppo industriale del mezzogiorno, nel prossimo triennio 20 miliardi del Pnrr dovranno essere spesi dalle regioni e dai comuni del sud.
Le amministrazioni non sono in grado di maneggiare temi come energia ed efficienza senza un flusso continuo di assistenza tecnica da parte del ministero, ancora tutto da mettere in piedi.
Gli enti locali non hanno il personale per farlo da soli (anche a causa dei vincoli di bilancio e del blocco del turnover) e devono riuscire a spendere, rendicontando e collaudando, entro il 2026 quello che non hanno saputo spendere in cinquant’anni, spesso affrontando volumi e progetti cinque volte più grandi della scala alla quale operano abitualmente.
Senza un ministero della Transizione ecologica strutturato gli enti locali rischiano di perdere un treno dopo l’altro. Anche a causa di questo prolungato processo di riorganizzazione, la struttura con la quale il ministero si rivolge all’esterno è farraginosa e non offre canali univoci e certi a chi ha bisogno di sostegno.
Non c’è un protocollo unico su come ottenere assistenza, si procede in ordine sparso, spesso sfruttando canali personali per capire i bandi e cercare gli strumenti tecnici per metterli a terra. Anche dal ministero confermano che a seconda del progetto, della missione e del bando ci sono soggetti diversi a cui rivolgersi, tra la segreteria tecnica, Invitalia e Sogesid, la società di consulenza in house del ministero.
Tra gli aspetti sui quali c’è poca chiarezza c’è anche l’interpretazione di un principio fondamentale del Next Generation Eu, che riguarda ogni misura, non solo quelle ecologiche: il Dns, Do not significant harm, la certezza di non danneggiare l'ambiente che deve orientare ogni euro investito.
Il governo non ha ancora chiarito come e con quanta rigidità verrà applicata questa regola. È in arrivo, almeno in regioni e province, la carica dei mille professionisti ed esperti del relativo concorso, ma chi conosce la materia e la macchina spiega che questa è una goccia nel mare.
Insomma, a oggi non un euro è stato speso e tutto il processo di investimento in transizione ecologica potrebbe incagliarsi senza un ministero in grado di rispondere bene, con chiarezza e presto alle domande del territorio.
In questo scenario rischiano di aumentare le diseguaglianze tra nord e sud. Chi ha la forza e la struttura per spendere lo farà, gli altri rimarranno indietro.
Il monitoraggio inesistente
Il secondo grande problema è il quadro generale, che Cingolani ha solo ereditato, di una struttura che è stata storicamente più abituata a pianificare che a monitorare l’impatto dei propri piani.
Sappiamo per esempio che il Pniec – Piano nazionale integrato per l’energia e il clima – deve essere aggiornato alla luce dei nuovi obiettivi europei di taglio delle emissioni del 55 per cento al 2030, ma non sappiamo ancora cosa ha funzionato e cosa no del Pniec nel frattempo diventato obsoleto, che ai tempi era già un libro dei sogni.
Non sappiamo a che punto della curva ci troviamo su tutti gli aspetti decisivi della transizione ecologica, soggetti diversi misurano impatti diversi (Ispra le emissioni, Gse le rinnovabili) ma non c’è un report integrato da offrire agli enti locali e al parlamento, che è sempre più tagliato fuori dalla discussione.
La decisione di Cingolani è stata affrontare questa giungla dei piani obbligatori, inattuati e non misurati, sull’energia, le rinnovabili, il clima, l’adattamento e la qualità dell’aria, mettendo il ministero al lavoro su un altro piano, il Piano sulla transizione ecologica, un testo di 161 pagine prodotto da otto gruppi di lavoro che il ministro ha definito il «piano dei piani».
La sua approvazione sarà molto spendibile a un livello politico e mediatico, ma rischia di essere contemporaneamente una sottrazione di risorse già molto limitate e l’ennesima distrazione dentro un processo che – prima ancora di essere efficace o non efficace – sta diventando sempre più disordinato e disfunzionale.
© Riproduzione riservata