Lo chiamavano Taiga King, il re della Taiga. Alexander Pudovkin è un magnate del legname, oggi è in carcere con l’accusa di corruzione, tangenti in cambio di sussidi statali e gigantesche concessioni forestali. La sua è una storia enorme, è passata quasi inosservata in Europa ed è perfetta per illustrare due cose. La prima è l’impatto globale del traffico illegale di legname, la seconda è la sua invisibilità nel dibattito e nell’opinione pubblica.

La ong Earthsight ha pubblicato a fine 2020 un rapporto sull’intricata filiera del diboscamento in Siberia, che ha portato 100mila tonnellate di legname tagliato fuori da ogni legge dalla taiga, terra di linci, lupi e orsi, ai negozi di bricolage e agli interni degli yacht d’Europa. Un meccanismo che ha fatto girare 870 milioni di euro e che ha sfruttato tutte falle possibili nei controlli e nelle leggi internazionali, dando vita a diverse rotte criminali: la maggior parte del materiale era diretto in Cina, in Europa arrivava attraverso il porto di Kiel, in Germania.

Fino alle nostre case

«Il problema della leggi europee è che una volta superati i controlli doganali ed entrato nell’Unione, il legname illegale diventa legale, non c’è più niente che possa fermarlo», spiega Saskia Ozinga, fondatrice di Fern, una delle associazioni che si battono contro i reati forestali nel mondo. Ignari consumatori di catene come Mr Bricolage, Castorama, Leroy Merlin hanno acquistato prodotti che si trovavano al termine di una lunga catena commerciale fatta di tangenti, devastazione ecologica, intermediari opachi e riciclaggio, al cui estremo opposto c’era il Re disboscatore della Taiga.

L’operazione legata a Pudovkin era gigantesca, eppure è poco più di una piccola frazione in un mercato criminale che per fatturato fa del traffico illegale di legname il principale eco-reato al mondo. Secondo le stime di un rapporto congiunto dell’Un Environment Programme e di Interpol, il business può arrivare a far girare 150 miliardi di dollari all’anno. Le rotte sono in continuo movimento, ma le principali possono essere disegnate così: dal Sud-est asiatico (Indonesia, Myanmar, Vietnam), dall’Africa occidentale (soprattutto Camerun e Ghana), dall’Europa orientale e dalla Russia verso le industrie della trasformazione in Europa, Nord America, Cina.

Un’altra indagine di Earthsight aveva svelato una connessione tra i tagli fuorilegge in Ucraina e i mobili venduti nei negozi Ikea. Le sedie Terje e Ingolf erano fatte con faggi di provenienza illecita. Nella maggior parte dei casi, le grandi catene coinvolte in questi scandali ci finiscono loro malgrado, il traffico illegale sfrutta falle negli schemi di certificazione e nei controlli intermedi e arriva «ripulito» al trasformatore finale. Dopo il rapporto, a giugno Ikea ha annunciato che avrebbe fatto controlli più accurati nella sua catena di fornitori dall’Ucraina.

Triangolazioni

La prima difficoltà nel combattere il traffico illegale di legname è nella vaghezza della sua definizione. Tutto dipende dal paese di origine: «Sono illegali tutti i tagli forestali che contravvengono le norme locali», spiega Antonio Pollutri, specialista biodiversità del Wwf. «Le leggi non sono univoche, ogni paese ha il suo sistema e la sua interpretazione».

Contrastare questo traffico vuol dire innanzitutto mettersi in una opaca babele di norme e lingue. «Il settore è composto da una miriade di operatori, i sistemi di controllo sono proporzionati alla capacità locale, è un mercato globale fatto di triangolazioni, con sistemi di ripulitura attraverso paesi terzi considerati più affidabili e meno soggetti a controlli. Il Myanmar è da tempo sotto una lente, il materiale può però passare attraverso la Cina, che fa una lavorazione intermedia prima di spedirlo in Europa e a quel punto diventa difficile intercettarlo».

Anche Fern ha scoperto una triangolazione simile, dall’Africa all’Europa passando dal Vietnam. Questi passaggi sono estremamente comuni, come spiega Ozinga: «Il meccanismo è simile al riciclaggio di denaro, tutti i sistemi hanno lo stesso obiettivo, far arrivare sul mercato come pulito ciò che è stato ottenuto in modo sporco».

Il problema principale è mettere a punto strumenti che permettano di avere delle filiere pulite e trasparenti, uno degli strumenti possibili è una rete blockchain che registri le transazioni a livello globale. Un tentativo è stato fatto di recente a Taiwan, che ha lanciato il primo sistema di questo tipo, una carta d’identità digitale per il pregiato legno di cipresso e per il bambù dell’isola. Sarebbe un modo chiaro e univoco per separare lo sporco dal pulito, ma sarebbe anche molto costoso da implementare su scala globale. Al momento lo strumento primario per controllare la legalità del legname è l’obbligo di due diligence per gli acquisti, prima del loro ingresso sul mercato europeo. È un controllo documentale, con tutti i limiti del caso, reso ancora più complesso dal problema di fondo che si diceva prima, la babele di leggi e lingue da conoscere e interpretare.

«Sono crimini difficili da perseguire e leggi di difficile applicazione, in Italia non si è mai riusciti a dimostrare un reato legato al traffico internazionale di legname illegale», spiega Claudio Marrucci, comandante del reparto operativo dei raggruppamento Cites dei Carabinieri. Da noi, con gli strumenti a disposizione delle forze dell’ordine, si riesce a procedere solo con sanzioni amministrative, per mancata applicazione della due diligence, carenze di documentazione o mancata applicazione del regolamento europeo.

Il reparto Cites fa comunque una gran mole di controlli, soprattutto nei porti d’arrivo, i principali sono quelli di Trieste, Bari, Livorno. «Non possiamo verificare tutto il legno che arriva in Italia, andiamo a tentativi, chiavi di ricerca, alert e red flag. È una materia ancora nuova, c’è poca giurisprudenza e i controlli sono complessi da fare. La maggior parte delle operazioni sono effettuate in collaborazione con Interpol, perché in questo settore la cooperazione internazionale è fondamentale».

Al di là dei controlli documentali (e dei complicati rilievi merceologici), il principale indicatore per contrastare questo traffico sono i reati collegati e il più importante, come dimostra la storia del re della Taiga, è il tasso di corruzione nei paesi di provenienza.

L’effetto sociale

La corruzione non è solo un indicatore, ma anche una misura degli effetti sociali del taglio illegale delle foreste. Oltre ai devastanti impatti ambientali, tra le conseguenze di uno sfruttamento illegale c’è anche il mancato pagamento del dovuto alle comunità locali, perché l’uso illecito delle foreste ne impedisce uno legittimo e sostenibile. I soldi delle filiere della corruzione sono tutte risorse sottratte alle comunità che vivono in prossimità delle foreste e causano violenza, conflitti, abusi dei diritti umani, aggravamento delle condizioni di povertà.

E poi c’è il disegno che è più ampio: lo sfruttamento illegale riguarda in maniera prevalente foreste tropicali e sub-tropicali ed è a tutti gli effetti una forma di colonialismo verde, quasi sempre a danno dei paesi più poveri e vulnerabili. Da un lato le foreste temperate del primo mondo continuano a crescere. Succede in Italia, dove il patrimonio è raddoppiato in cento anni, e in Europa, dove tra il 1990 e il 2015 la superficie è aumentata di 90mila chilometri quadrati, praticamente un Portogallo di boschi si è aggiunto al continente.

Contemporaneamente, come mostrano tutti i dati e in particolare l’ultimo rapporto del Wwf Deforestation fronts, nelle aree tropicali del mondo si sono persi 43 milioni di ettari di foreste in poco più di dieci anni, una volta e mezza la superficie dell’Italia, per la pressione dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi e per lo sfruttamento del legname. La mappa della deforestazione e quella dello sfruttamento illegale della materia legno sono quasi perfettamente sovrapponibili.

C’è una questione morale in gioco, perché ai due fenomeni se ne intreccia un terzo: la domanda di legno continua ad aumentare. Secondo la Fao il consumo industriale globale di legname arriverà a 2400 milioni di metri cubi entro il 2030, il 60 per cento in più rispetto ai livelli attuali.

© Riproduzione riservata