Dopo i primi esperimenti, i risultati erano così bizzarri, quasi assurdi, che lo scienziato che guidava lo studio ha detto al suo staff: «Ragazzi, credo che si siano rotti i sensori, dobbiamo rimandarli al produttore per farceli riparare, torniamo a casa».

Il fatto è che i sensori non erano rotti, sono stati testati più volte, così come la ricerca è stata ripetuta in diverse occasioni nel corso dell’ultimo decennio e il risultato era sempre lo stesso: i metalli sul fondale degli oceani sono in grado di produrre ossigeno, anche in luoghi dove l’assenza di luce è totale e la fotosintesi è quindi impossibile.

I risultati di questa ricerca decennale su quello che è stato ribattezzato dark oxygen, ossigeno oscuro, pubblicata su Nature Geoscience, hanno due effetti, entrambi molto grandi.

Le conseguenze

Il primo riguarda il campo della conoscenza pura: questa nuova ricerca ci spinge ad aprire le frontiere dell’immaginazione e ripensare quello che sappiamo sull’origine della vita sulla Terra, basata sulla fotosintesi. Quasi un inizio di storia alternativa della vita sul pianeta. Il secondo riguarda più prosaicamente l’economia e lo sfruttamento commerciale dei metalli sul fondale degli oceani.

Da anni, i metalli che ora abbiamo scoperto essere in grado di produrre a determinate condizioni dell’ossigeno sono gli stessi che nella forma di noduli delle dimensioni di patate sono considerati la prossima grande frontiera dell’industria mineraria.

Nichel, cobalto, manganese, rame, litio: quasi ogni metallo chiave per la transizione energetica verso l’elettrico è contenuto in questi miliardi di noduli posati sui fondali degli oceani in quantità superiori a quelli nelle riserve terrestri, in diverse aree oceaniche.

Di recente, la Norvegia ne ha scoperta una nelle sue acque di competenza, ma quella di gran lunga più grande si chiama Clarion-Clipperton Zone e si trova nell’oceano Pacifico.

Questa nuova scoperta conferma i timori e le richieste di precauzione portati avanti sia dalla società civile ambientalista e che dalla comunità scientifica: sappiamo troppo poco del fondale degli oceani per andare ad alterare in modo così radicale quegli ecosistemi con estrazioni minerarie su vasta scala come quelle che potrebbero partire tra qualche anno e su cui già sedici diverse aziende hanno iniziato ad attrezzarsi. Da un punto di vista tecnologico, l’estrazione sarebbe pronta a partire. Mancano però ancora i permessi.

È per questo che diversi paesi e centinaia di scienziati hanno chiesto all’organismo Onu incaricato di decidere (l’International Seabed Authority con sede a Kingston, Giamaica), una moratoria in attesa di comprendere a pieno le possibili conseguenze.

Le ricerche

La ricerca sull’ossigeno oscuro prodotto sul fondale degli oceani è stata guidata da Andrew Sweetman, capo del gruppo di ricerca di ecologia e biochimica dei fondali della Scottish Association for Marine Science.

La prima rilevazione è avvenuta nel 2013, l’anno in cui si erano convinti che le apparecchiature si fossero rotte perché lì sotto non poteva esserci ossigeno, perché in teoria non c’era nessun organismo in grado di produrne.

Il team ha condotto un ulteriore studio, su una scala più vasta, proprio nell’area della Clarion-Clipperton, tra il 2021 e il 2022. Hanno calato un dispositivo a quasi quattro chilometri di profondità, lo hanno lasciato lì per quasi cinquanta ore, hanno misurato i livelli di ossigeno consumato dai micro-organismi che vivono a quelle profondità.

I livelli di ossigeno, invece di diminuire, aumentavano, fino quasi a triplicarsi. Questo vuol dire che sul fondale, in assenza di qualsiasi tipo di luce, veniva prodotto più ossigeno di quello che veniva consumato, e che c’era qualcosa in grado di produrne.

E quel qualcosa erano proprio i noduli polimetallici che fanno gola all’industria mineraria, attraverso una reazione biochimica ancora tutta da comprendere, una forma di elettrolisi marina che li rende in grado di estrarre quell’ossigeno dall’acqua dell’oceano.

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