- Gli incendi in Sardegna sono specchio di come si è deciso di affrontare il problema in Italia: emergenza e codice penale, invece che adattamento ai cambiamenti climatici.
- È il cosiddetto «paradosso dell’estinzione»: i sistemi sono tarati per spegnere incendi piccoli e ripetitivi, non possono niente contro quelli di grandi dimensioni, per i quali gli unici strumenti sono la modellazione del territorio e la prevenzione.
- Un grande incendio forestale ha due ingredienti: carburante e spazio. Il carburante lo mette il clima (temperature, stress idrico, venti caldi). Lo spazio siamo noi ed è quello su cui possiamo intervenire, sottraendone in anticipo al fuoco:. Come dicono i forestali, l’incendio andava spento venti anni prima.
Proprio come col virus durante la pandemia, ci sono due modi per rapportarsi al fuoco degli incendi: inseguirlo, e trovarsi così sempre in svantaggio, oppure adattarsi e anticiparlo. C’è una frase che usano spesso i forestali: «L’incendio andava spento venti anni prima».
La catastrofe della Sardegna è invece specchio della scelta italiana degli ultimi decenni: affrontare la questione solo in emergenza e come un problema di codice penale invece che ecologico e climatico. Abbiamo puntato sulla capacità di spegnere gli incendi e punire i piromani e non sulla modellazione del territorio per contenerli e adattarci a un mondo più caldo e imprevedibile.
Per tenere la metafora della pandemia, è come se avessimo riempito gli ospedali di nuovi medici e infermieri, sempre più preparati (bene), senza però mai testare un vaccino (male). Le squadre anti-incendio al lavoro sui roghi in questi giorni sono come i sanitari durante la prima ondata del Covid-19: fanno quello che possono, sapendo che lo tsunami si placherà quando cesseranno le condizioni che lo hanno alimentato.
Il problema è che eventi come quello che sta devastando la Sardegna superano di gran lunga la capacità di qualsiasi intervento umano. «La nostra struttura è perfettamente organizzata per gestire incendi piccoli e ripetitivi, ma è collassata di fronte a un evento così impattante e a rapida propagazione, che ribalta statistiche e risultati ventennali», spiega Giuseppe Delogu, ex comandante del Corpo forestale della Sardegna e oggi docente di Tecniche di protezione civile a Sassari. Questo era insomma un fuoco che andava spento vent’anni fa.
Il passato
Delogu era a capo delle squadre di intervento nel grande incendio del 1994, uno dei due eventi che in questi giorni servono come riferimento e memoria storica. «Nell’83 nelle prime 24 ore bruciarono 6mila ettari, nel ’94 furono 7.500, in questi giorni, nella stessa finestra, quasi 13mila». La differenza l’hanno fatta crisi climatica e l’abbandono di boschi e campagne.
Gli ingredienti di un grande incendio forestale, che si tratti di California, Siberia o Sardegna, sono il carburante e lo spazio. Il carburante ce lo mette il clima: le alte temperature per diversi giorni di fila, lo stress idrico che rende le piante infiammabili, il vento che trasporta le fiamme. Lo spazio invece siamo noi, ed è la parte sulla quale possiamo intervenire, il vaccino da costruire territorio per territorio. Il fronte di fuoco lungo più 70 chilometri nell’oristanese è il riflesso dell’incuria, che ha reso la macchia e i boschi bui, secchi, impenetrabili, le campagne senza manutenzione, le strade chiuse dai rovi: lo spazio perfetto per consentire al fuoco di spadroneggiare.
Continua Delogu: «La foresta di Santu Lussurgiu è bruciata del 50 per cento, lì non si fanno diradamenti da decenni. Il fuoco lo si previene riducendo la continuità verticale e orizzontale, distanziando le piante, potando i rami bassi, costruendo superfici a mosaico, sottraendo spazio vitale». È di questo che parliamo quando parliamo di adattamento climatico.
Ogni territorio ha la sua storia e i suoi problemi, in Sardegna il bosco si intreccia a pascoli e zone rurali. «In questa stagione la vegetazione è secca e infiammabile», spiega Davide Ascoli, docente dell’università di Torino, uno dei massimi esperti di incendi in Italia.
«Serve un approccio che riesca a coinvolgere gli agricoltori e gli allevatori nella prevenzione, devono essere parte dei piani anti-incendio, in Italia invece si ragiona ancora per compartimenti stagni. Il fuoco sappiamo dove tende ad andare, se confrontiamo la mappa dell’incendio del ’94 e quella attuale c’è quasi lo stesso itinerario a zigzag, con gli stessi colli di bottiglia e gli stessi corridoi».
Insomma, sapevamo come si sarebbe comportato, dove intervenire e come prevenire, ma abbiamo continuato, in Sardegna come nel resto d’Italia, a inseguire il fuoco invece di anticiparlo.
Il presente
Questa strategia ci lascia in balia degli eventi, in una sorta di pensiero magico forestale per il quale all’inizio di ogni stagione degli incendi possiamo solo sperare che non sia troppo tremenda. Spesso siamo fortunati e ne usciamo quasi indenni. Quando invece arriva il tempo perfetto per il fuoco (come nell’oristanese, in Val di Susa e nel Parco del Vesuvio nel 2017) siamo nei guai.
È quello che nel settore si chiama paradosso dell’estinzione: siamo sempre più bravi a spegnere gli incendi, ma la crisi climatica ci sta sorpassando con incendi fuori scala, che non saremo mai in grado di spegnere con le nostre forze.
«Le prescrizioni per allevatori e agricoltori sono le stesse norme di decenni fa, scritte con in mente un altro tipo di incendi: indicazioni minimali e generiche, pressoché inutili», spiega Delogu, e forse questo è spia del problema più grande: in tutta Italia affrontiamo la questione incendi come se il cambiamento climatico non avesse completamente cambiato condizioni e contesto.
Il futuro
«Manca la consapevolezza del rischio, servono divulgazione e cultura. Signori, noi ormai viviamo dentro la benzina e dobbiamo adattare il nostro modo di vivere alla benzina», conclude Delogu. «E c’è una componente che nessuno considera: qui ogni estate arrivano un milione di persone che non conoscono minimamente il rischio d’incendio sardo. E la stagione è solo all’inizio».
Gli incendi finora hanno divorato 20mila ettari, che sono un’enormità, e hanno fatto migliaia di sfollati, altro grande tema, perché adattamento climatico in un territorio infiammabile significa anche non costruire più case e strutture turistiche dove il fuoco può arrivare in poco tempo.
La situazione sembra leggermente migliorare. «Il vento per fortuna si è ridotto. Ma temo che l’incendio durerà almeno altri dieci giorni. Dove ci sono i lecci, come nell’area colpita, il fuoco si muove clandestino. Servirebbe una pioggia intensa, almeno 10 mm, per spegnere le fiamme sotterranee.
Ci vogliono uomini, trincee e lavoro manuale per circoscrivere il perimetro». In questi giorni seguiamo il lavoro dei Canadair dall’alto, ma la loro è solo una funzione di appoggio, gli incendi si domano da terra.
Alla fine il rogo si esaurirà, il vero progresso sarebbe iniziare subito dopo a spegnere quelli che si verificheranno tra vent’anni.
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