Di recente, strumenti più efficienti hanno permesso di identificare nel Mediterraneo tracce dei nostri medicinali che possono causare danni agli organismi marini
Osservare al microscopio un campione d’acqua di mare, oggi, è come spiare alcune delle abitudini più intime e nascoste di una città e dei suoi abitanti. Da una provetta emergono le molecole di tutte le gocce e pastiglie che le persone nascondono in fondo al cassetto del comodino. Antidepressivi, cardiotonici, antipertensivi, antinfiammatori: ne usiamo in quantità industriali, e il mare ne è pieno.
Era il 2018 quando un team di biologi e scienziati ambientali dell’Università Politecnica delle Marche ha riscontrato una frequenza costante di alcuni composti farmaceutici nelle cozze pescate nell’Adriatico e nel Tirreno. Fino a poco tempo prima molte di queste sostanze erano difficili da analizzare, poi un’evoluzione di metodi e strumenti ha permesso di scoprire un mare invaso da questi e molti altri “inquinanti emergenti”. Emergenti perché prima non sapevamo vederli, non perché non ci fossero.
Siamo abituati a immaginare che una volta assunto, un medicinale sparisca. Ma la crisi ambientale ci sta ricordando invece la regola chimica più semplice e antica: nulla si crea e soprattutto nulla si distrugge. Alcune delle scorie invisibili che produciamo si nascondono nell’aria, come l’anidride carbonica. Altre nel suolo, altre ancora in acqua. I medicinali vengono metabolizzati, eliminati, viaggiano nelle fogne e da lì in mare.
Niente allarmismi: parliamo di livelli che non sono tossicologicamente preoccupanti per gli umani. Sono preoccupanti invece per gli organismi che in mare ci vivono, esposti a queste sostanze che ritroviamo assemblate in miscele imprevedibili: certi medicinali non andrebbero mai presi insieme, ma in mare ci finiscono tutti.
Le conseguenze sull’ambiente si stanno studiando. «Per ora sono più le cose che non sappiamo di quelle che sappiamo. Ma abbiamo visto che l’acidificazione altera gli effetti che una sostanza può avere su organismi marini», spiega Francesco Regoli, direttore del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente dell’Università delle Marche. L’acidificazione causata dal riscaldamento climatico avviene quando l’acqua del mare reagisce alla CO2 assorbita producendo più sostanze chimiche acidificanti e meno minerali necessari alla sopravvivenza degli organismi marini: questo processo può amplificare gli effetti sia degli inquinanti che dell’acidificazione stessa.
L’Università delle Marche coordina un programma del Pnrr per studiare la questione e capire il rischio di questi e altri contaminanti emergenti nel Mediterraneo. Al momento infatti queste sostanze non sono incluse nei programmi di monitoraggio. Una località si può veder assegnare la “bandiera blu” e in realtà essere piena di carbamazepina: «È un antiepilettico usato come antidepressivo: noi lo troviamo in oltre il 90% dei campioni che analizziamo”, dice Regoli.
Depuratori inefficaci
Sono state prese a modello alcune zone, in particolare foci dei fiumi e città costiere. Su 35 molecole, almeno una dozzina le ritroviamo dappertutto, un’altra dozzina da sporadicamente a frequentemente, e solo 7 o 8 sono le molecole che per ora non sono state trovate da nessuna parte. Una presenza diffusa, per usare un eufemismo.
Le concentrazioni possono cambiare da paese a paese: la carbamazepina per esempio si trova ovunque, mentre in Norvegia (con cui l’Università delle Marche collabora invece per un progetto europeo), davanti agli impianti di depurazione di Stavanger si riscontrano picchi di antidepressivi nel periodo invernale.
Dicevamo che queste sostanze non sono ancora incluse nei programmi di monitoraggio, ma è proprio qui che possiamo cominciare a vedere un’opportunità. Oggi ognuno di noi sceglie un analgesico per lo più secondo un’abitudine. In un futuro non lontanissimo, potremmo invece scegliere quello più sostenibile. «Stiamo cercando di coinvolgere in questa valutazione anche le aziende farmaceutiche perché considerino oltre all’effetto sanitario anche il destino ambientale» spiega Regoli.
Lo stesso discorso vale per i depuratori: al momento non sono pensati per trattenere e rimuovere questo tipo di molecole. Alcuni scarti dei sistemi di depurazione finiscono nei fanghi che vengono riciclati e usati in agricoltura. Le conseguenze sono da verificare e potrebbero avere ramificazioni molto complesse. Ma gli impianti da installare un domani dovranno essere adeguati a filtrare questi come altri inquinanti emergenti.
Negli ultimi decenni, nessuno si è chiesto quale fosse l’impatto di certe molecole sull’ambiente: dei 4000 farmaci in circolazione nessuno viene analizzato in termini di destino ambientale e non è prevista alcuna normativa. Possiamo però immaginare che in futuro certe molecole saranno vietate, altre saranno filtrate facilmente dai depuratori. Sapere che niente sparisce nel nulla è una responsabilità e un buon inizio.
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