- Questo è il numero 115 di Areale, la newsletter di clima e ambiente di Domani a cura di Ferdinando Cotugno.
- In questo numero parliamo di informazione e crisi climatica, di solitudine e comunità, di come è stato scritto il rapporto di sintesi dell’Ipcc e di proteste in terza età.
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Neumayer III è una stazione di ricerca in Antartide, vicino alla piattaforma di ghiaccio Ekström, nella Terra della Regina Maud. Insomma, lontano e freddo. È un posto ideale per studiare il clima ma è anche un posto ideale per studiare la solitudine e i suoi effetti sul cervello delle persone.
E così un gruppo di ricercatori tedeschi ha studiato le trasformazioni cerebrali che quell’isolamento ha avuto sugli occupanti della stazione durante un lungo inverno antartico. L’isolamento cambia la forma del cervello. Gli autori dello studio hanno parlato di spirale verso il basso, la «downward spiral» dei Nine Inch Nails: le persone isolate «tendono ad avere un punto di vista più negativo su qualsiasi informazione ricevano, espressioni facciali, messaggi, qualunque cosa, e questo le spinge ancora di più verso il fondo del pozzo».
La solitudine cambia la chimica del cervello e le sue performance cognitive, è una trappola comportamentale, un catch-22, vogliamo una connessione con gli altri, ma tendiamo a vederli come inaffidabili e ostili: la distanza che vogliamo colmare è la stessa distanza che ci impedisce di colmarla. È un bias cognitivo misurabile come farebbe un cronometro con uno scattista: le persone isolate sono in media molto più rapide a recepire i segnali sociali negativi, in meno 120 millisecondi, il doppio degli altri, la metà del tempo di un battito di ciglia.
L’isolamento sociale è causa e conseguenza di se stesso, riduce il potere della nostra mente e quindi delle nostre azioni, è una tentazione e spesso anche un conforto, ma è soprattutto profezia che si auto-avvera. In un mondo pericoloso come questo, stare da soli è ancora più pericoloso.
Questo è il numero 115 di Areale, oggi partiamo parlando di comunità.
Una sera a Milano: informazione e clima
La sera del 23 marzo ho partecipato all’Assemblea dei giornalisti organizzata da Extinction Rebellion Milano, una ventina di giornalisti di varie redazioni, riti, ortodossie e metodi, e altrettanti attivisti. Questi ultimi sono una categoria spesso (e spesso a ragione) scontenta dell’informazione, quindi era interessante trovarmi lì, in un posto pieno di biciclette (poi una volta parliamo dell’uso della bicicletta come scenografia e arredamento).
Non avevo mai preso parte a un’assemblea organizzata con quel metodo e secondo quel modello di facilitazione, non è la grammatica dei gesti alla quale sono abituato, a volte ti fa sentire fuori posto dover smorzare la naturale concitazione delle conversazioni umane in quella coreografia di applausi silenziosi, turni di parola rigidi, mani alzate per parlare, ma è un modo fecondo di fare, una terapia di coppia scalata sui pregiudizi sociali.
E poi c’era la cosa più importante, il motivo per cui si era lì, parlare di informazione e crisi climatica, con il supporto di istituzioni centrali nel dibattito italiano su questi argomenti, come Climate Media Center e Italian Climate Network. Simona Re, biologa e divulgatrice, membro del Climate Media Center (un think tank che cerca le parole giuste), ha detto abbastanza cose interessanti da farmi quasi finire un taccuino.
Per esempio: «Bisogna avere il coraggio di spiegare quello di cui si è certi e quello di cui non si è certi, nella scienza l’incertezza non ha una connotazione negativa». Dobbiamo accettare quello che non sappiamo e sappiamo di non sapere, il known unknown, perché il known known, quello che sappiamo, è abbastanza forte e solido da poter comunque richiedere azione politica collettiva: c’è un collasso in atto, questo collasso si può evitare. Si può normalizzare l’incertezza forti delle nostre certezze.
La crisi climatica è una storia di cause, effetti e soluzioni. Cosa sta succedendo, perché sta succedendo, cosa si può fare per evitare che succeda. Sono le tre gambe necessarie del racconto giornalistico, non puoi parlare tutto il tempo solo degli effetti senza menzionare le cause (perché in quel caso sei complice, e inquini il dibattito), non puoi parlare solo di cause senza mai menzionare soluzioni (non si possono vivere decenni interi persi tra il rumore dei nemici e il terrore della fine). Non puoi parlare solo di soluzioni, perché non lo senti poi l’odore acre del greenwashing?
È difficile fare informazione sul clima in modo equilibrato su questi tre assi, possiamo anche normalizzare che nessuno di noi lo fa bene, ma in tanti abbiamo preso l’impegno (che è esistenziale, oltre che professionale) di provarci.
Simona Re ha parlato di comunicatori del rischio climatico, una missione che accomuna giornalisti, attivisti, esperti, docenti. Un fronte unico, saper comunicare il rischio è quello che ci ha fatto prosperare come esseri umani, il linguaggio è innanzitutto questo, creature dotate di abilità linguistiche che riescono ad articolare il pericolo nascosto nella foresta e rielaborarlo a chi non è presente o consapevole.
Il giornalismo climatico alla fine è questo: decodificare un cambiamento che mette a rischio la nostra sopravvivenza, la nostra salute e il nostro benessere socio economico. Senza mai cedere all’«effetto sedativo» della paura. Se nel 2023 non raccontiamo la crisi climatica anche come una storia di possibilità ancora aperte stiamo scegliendo la via facile, stiamo facendo un cattivo servizio alla specie umana e ai lettori. Il catastrofismo non è solo una forma di privilegio, è anti-umano nella sua essenza.
E c’è un’altra cosa interessante venuta fuori nell’assemblea, e mi riporta agli studi nella stazione di ricerca in Antartide di cui ti dicevo prima: l’isolamento come rischio principale per chi fa informazione sul clima (e informazione in generale), il bisogno dei giornalisti e degli attivisti di fare comunità, di sentirsi comunità, ognuno con il suo ruolo e con il suo compito, ma parte di uno stesso processo.
L’isolamento, come scoperto dai ricercatori tedeschi, ci rende giornalisti peggiori, peggiora le nostre performance cognitive, ci rende più vulnerabili e anche più pessimisti (che è pure peggio). Non esiste buon giornalismo ambientale senza una comunità di lettori e di alleati. Quindi grazie a Extinction Rebellion che ha organizzato questo incontro (ce ne saranno altri) e grazie, su un altro piano, a tante e tanti di voi che stanno contribuendo all’inchiesta che farò per Domani sulla transizione ecologica dal basso.
È un sostegno che mi fa bene, che mi commuove un po’, mi fa sentire meno professionalmente isolato e più parte di una comunità. Si può ancora contribuire qui.
Cosa succede dietro le quinte dell’Ipcc
Pochi giorni dopo l’uscita del rapporto Onu che plasmerà la lotta ai cambiamenti climatici di questo decennio, stanno venendo fuori anche i racconti di chi ha osservato i negoziati, durati giorni, sulla forma, sul lessico, sull’intonazione di quel testo. I delegati degli oltre 190 governi sono rimasti isolati a litigare sul futuro del mondo nell’idillio pedemontano di Interlaken, in Svizzera, dove poi la sintesi finale del sesto rapporto Ipcc è stata presentata alla stampa e al mondo nel pomeriggio del 20 marzo.
Il governo degli Stati Uniti ha preteso di ammorbidire il linguaggio sull’equità della lotta per il clima (sentendosi chiamato in causa), così come la Cina si è opposta all’indicazione di tasse al consumo come strumento utile per la riduzione delle emissioni (troppi rischi per il commercio), mentre i rappresentanti di paesi diversamente fossili come Arabia Saudita e Norvegia hanno combattuto i riferimenti più espliciti alle fonti di energia che le hanno fatte ricche (e che stanno però riscaldando il mondo a livelli insostenibili). (Qui l’articolo che ho scritto quando è uscito il report).
Ogni singola parola di questo testo di meno di quaranta pagine è stata discussa dai negoziatori, ne sono stati vagliati i significati geopolitici, finanziari, industriali. È parte normale del processo: ogni rapporto Ipcc è diviso in quattro parti: le prime tre sono state pubblicate a puntate a partire da agosto del 2021 ed erano le più lunghe e scientifiche, è la fotografia della nostra conoscenza e del consenso scientifico e non era aperta al dibattito.
La sintesi finale di ogni rapporto Ipcc invece è il documento più politico, e quindi più aperto agli interventi dei governi. Ma quella sintesi è anche la lettera della scienza ai decisori politici ed è uno dei paradossi della diplomazia climatica come gli stessi decisori politici possano negoziare su che tipo di messaggio ricevere di fronte all’opinione pubblica.
A raccontare il dietro le quinte di uno dei più importanti documenti internazionali di questa fase storica è l’unica organizzazione ammessa come osservatrice esterna: Earth Negotiations Bulletin, il servizio della Ong canadese International Institute for Sustainable Development.
Gli osservatori dell’Earth Negotiations Bulletin hanno inoltre raccontato una dinamica frequente anche alle Cop, le conferenze sul clima dell’Onu: le discussioni sulla sintesi a Interlaken si sono protratte oltre i tempi previsti, i paesi più vulnerabili di solito sono anche i più poveri e remoti, per un negoziatore dall’Africa meridionale o dall’Oceania non è facile comprare un nuovo biglietto aereo o pagare una notte in più in hotel, e così in tanti hanno dovuto lasciare la località svizzera prima che la discussione fosse conclusa, lasciando campo libero per la negoziazione sul loro futuro ai governi che non hanno problemi di budget.
Un esempio di come funziona questa azione di lobby governativa è stato l’intervento del governo cinese per togliere i numeri più importanti del report (riduzione del 60 per cento delle emissioni di gas serra e del 65 per cento della CO2 nel 2035 rispetto ai livelli del 2019 per avere una possibilità su due di stare dentro +1.5°C di aumento della temperatura) dal riassunto per i policymaker e tenerli in una tabella a margine.
Sembra un dettaglio secondario, non lo è: smorzare l’enfasi su un taglio così drastico delle emissioni aiuta le prospettive internazionali della Cina, che ha intenzione di continuare a far crescere le proprie fino al 2030 e di azzerarle trent’anni dopo, nel 2060. L’Arabia Saudita ha combattuto una specifica formula: «Root cause», i combustibili fossili come «causa ultima» dei cambiamenti climatici, e invece ha fatto inserire riferimenti robusti alla tecnologia sulla quale hanno più fiducia (ancora non comprovata dai fatti), quella di cattura e stoccaggio della CO2 dall’atmosfera.
Insomma, dopo il passaggio in mani saudite, il documento è un po’ meno focalizzato sulle cause energetiche della crisi climatica e più ottimista sulla possibilità di uscirne per una via tecnologica ancora in fase di prototipi. Gli scienziati avevano chiesto che nella sintesi si parlasse di phase-out da tutte le fonti fossili, i sauditi hanno tolto anche questo. Anche il governo norvegese ha chiesto (e ottenuto) che le parole usate per la riduzione di emissioni da combustibili fossili (la loro primaria fonte di ricchezza, nonostante la loro cultura ecologista) fossero più blande di come volevano gli scienziati.
Gli Stati Uniti hanno impedito che nel documento si specificasse quanto è importante il trasferimento di tecnologia dai paesi industrializzati a quelli meno sviluppati, passaggio che loro ostacolano da sempre e a maggior ragione oggi, dopo l’approvazione dell’Inflation Reduction Act, che indirizza centinaia di miliardi di dollari proprio nello sviluppo di nuove tecnologie ecologiche.
L’anagrafe e la crisi climatica
Questa settimana ho fatto un incontro pubblico a Roma con Fridays for Future, la solita bella conversazione, in un posto interessante come Casetta Rossa a Garbatella, per parlare di Primavera ambientale, collasso, politica, futuro.
In queste occasioni si parla spesso del futuro dei movimenti, di come possono essere più efficaci, tornare ai mitologici numeri del 2019. A Casetta Rossa ho avuto modo di dire qual è secondo me la singola cosa più importante per aumentare l’impatto sulla società nel corso di questo decennio: smettere di essere il movimento dei giovani. Questa non è la crisi (solo) dei giovani, il futuro riguarda ogni persona, e quindi ogni barriera anagrafica andrà col tempo eliminata. Non c’è altra strada.
Diceva George Bernard Shaw che la giovinezza è troppo preziosa per sprecarla coi giovani. Parafrasando, la crisi climatica è troppo importante per lanciarla solo sui giovani. (Anche perché essere giovani è una condizione, come dire, temporanea, cosa fai quando smetti di essere giovane? Smetti di occupartene? Ecco).
Negli Stati Uniti c’è stata nel frattempo la «protesta delle sedie a dondolo», migliaia di anziani, fino agli 80 anni e oltre, imbacuccati in cappelli di lana e sfamati da biscotti che si erano preparati nel pomeriggio, si sono accampati davanti alle sedi delle quattro grandi banche fossili d’America, ventiquattro ore di mobilitazione contro JP Morgan Chase, Wells Fargo, Citibank e Bank of America per fermare il flusso dei (loro) soldi verso la crisi climatica.
Sono stati organizzati da Bill McKibben, che qualche anno fa ha creato Third Act, «terzo atto», una campagna per attivare gli anziani d’America, un movimento che oggi conta qualcosa come 50mila attivisti anziani, alcuni anche centenari, molti pure spiritosi, visto che uno dei loro cartelli recitava «fossili contro i combustibili fossili».
La rivolta delle sedie a dondolo è stata la manifestazione più vistosa e importante di Third Act finora, non sarà l’ultima. «Nonostante il loro idealismo, la loro intelligenza e la loro energia, alle persone giovani manca il potere strutturale per il cambiamento sulla scala che è necessaria nel tempo che abbiamo», ha detto McKibben. «Tutti votiamo e siamo noi ad aver quasi esaurito le risorse della nostra società. Per cambiare Washington e Wall Street serviranno anche un po’ di capelli bianchi come i miei».
Il 29 marzo c’è un’udienza importantissima alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, e anche qui c’entrano gli anziani. Un collettivo chiamato Anziane per il clima ha fatto causa al proprio paese, la Svizzera, per violazione dei diritti umani in relazione allo scarso impegno del paese per mitigare il proprio effetto sul clima. È un percorso importante, da qui potrebbe arrivare una sentenza storica che colleghi i diritti umani al clima.
«Mi danno fastidio gli egoisti, mi irritano le persone della mia generazione che non vogliono più mettersi a lottare, nonostante tutti i loro privilegi, è per questo che ho deciso di impegnarmi così», mi ha detto Norma Bargetzi, una delle proponenti della causa, in una lunga chiacchierata che abbiamo avuto di cui a un certo punto scriverò.
A proposito, domanda indiscreta: tu che leggi, quanti anni hai? Qual è la tua prospettiva generazionale sulla crisi climatica? Cosa pensi di tutto questo? Mi interessa.
Per questa settimana è tutto, se hai voglia di scrivermi, raccontarmi come stai o offrirmi da bere, questo è il mio indirizzo: ferdinando.cotugno@gmail.com. Se hai voglia di dare una mano alle inchieste sostenute dai lettori di Domani, incluso il mio viaggio alla ricerca della transizione, clicca qui, ogni contributo, anche il più piccolo, è un atto di futuro. Se hai voglia di parlare con la redazione, scrivi a lettori@editorialedomani.it. A presto!
Ferdinando Cotugno
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