Il suolo è in grado di assorbire un terzo dei gas serra emessi dalle attività umane, ma il cemento e l’agricoltura industriale mettono a rischio il suo ruolo ecologico. Per invertire la rotta, dobbiamo produrre rigenerando il terreno.
I suoli rappresentano, insieme agli oceani, il più importante serbatoio globale di gas serra e giocano – anzi, potrebbero giocare – un ruolo chiave nella lotta ai cambiamenti climatici.
- Per ogni chilo di CO2 disperso in atmosfera da un’auto o da una centrale elettrica, 350 grammi vengono catturati dalla vegetazione e poi messi “in cassaforte” nel terreno.
- Le politiche pubbliche sono una componente fondamentale per dirottare fondi da un modello agricolo industriale ad uno più ecologico. La nuova PAC sta andando però fuori dai binari del Green deal.
Sostiene ogni nostro passo, attività, alimenta la nostra vita e quella degli altri esseri viventi, ma forse dimentichiamo di chiederci perché la terra sembri oggi così “stanca”. Il ruolo ecologico del suolo è quasi sottinteso, a volte minimizzato, più spesso totalmente ignorato.
Eppure per ogni chilo di CO2 disperso in atmosfera da un’auto o da una centrale elettrica, 350 grammi vengono catturati dalla vegetazione e poi messi “in cassaforte” nel terreno.
I suoli rappresentano, insieme agli oceani, il più importante serbatoio globale di gas serra e giocano – anzi, potrebbero giocare – un ruolo chiave nella lotta ai cambiamenti climatici.
Eppure, a partire dalla rivoluzione industriale, metà delle terre coperte da vegetazione è stata trasformata in altro, contribuendo a rilasciare in atmosfera una quantità di carbonio che si aggira tra i 200 e i 260 miliardi di tonnellate, quasi pari alle emissioni generate dall’uso dei combustibili fossili.
Il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) stima che ben 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile vengano persi ogni anno. È come se un treno lungo 192 milioni di vagoni portasse via nottetempo l’equivalente della superficie della Grecia.
Giungle d’asfalto
Un terreno, in condizioni normali, è fatto per metà di minerali solidi e per l’altra di vuoti, pori dove l’acqua filtra e si rimette in circolo, dove le radici trovano lo spazio per crescere. Dentro questa architettura complessa si trova la sostanza organica, il prezioso carbonio, elemento centrale nelle dinamiche di cambiamento climatico. Quello che accade però è che questo bene prezioso lo stiamo disperdendo.
In Italia vengono persi ogni anno 55 chilometri quadrati di suolo. «Come se ogni anno costruissimo una nuova città grande quanto Bologna», dice Michele Munafò, ricercatore dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), che cura il rapporto annuale sul consumo di suolo.
«Gli ultimi dati ci dicono che abbiamo ripreso a consumare suolo anno dopo anno. Oggi viaggiamo al ritmo di 2 metri quadrati al secondo e lo facciamo a spese degli ultimi brandelli di natura rimasti nelle città, come aree verdi e zone agricole».
Il dato è ancora più preoccupante se si considera che il suolo, visti i tempi lunghi con cui si rigenera, deve essere considerato una risorsa limitata, sostanzialmente non rinnovabile.
Tutto questo ha un impatto enorme anche sulla produzione di cibo: «in Italia abbiamo una perdita potenziale di circa tre milioni di quintali di prodotti agricoli», continua Munafò.
Non sono solo ruspe e cemento a ridurre la capacità del suolo di “curare” la crisi climatica. La stessa produzione alimentare ha le sue colpe: l’agricoltura industriale è riuscita a garantire una produzione massiva perché ha eroso i terreni, rendendoli meno fertili.
Il suolo è stato trattato come un elemento inerte, semplice terra su cui seminare, arare, impiantare, raccogliere, secondo l’equazione per cui all’aumento degli input corrisponde un aumento la produzione.
Un’equazione esatta in una visione di breve periodo, che però dopo mezzo secolo di “rivoluzione verde” mostra tutti i suoi limiti ecologici.
I “dottori” del suolo
Alcuni agricoltori, fortunatamente sempre di più, hanno capito che per continuare a fare in modo che il suolo svolga la sua funzione di deposito di carbonio organico è necessario mantenere la terra viva.
Ludovico Maria Botti è uno di loro. Con una laurea in agraria gestisce l’azienda di famiglia, che da anni produce vini biologici. Parlare con Ludovico è complicatissimo, perché è alle prese con le ultime spedizioni dei vini prodotti nei sedici ettari di terra ai confini tra Lazio e Umbria: «Stiamo correndo come pazzi. In questi mesi di pandemia, con la ristorazione praticamente ferma, ci siamo dovuti inventare di tutto per far quadrare i conti».
La sostenibilità resta però il chiodo fisso, a partire dall’uso dei suoli. «Lungo i vigneti lavoriamo per aumentare la fertilità attraverso l’inerbimento naturale e senza l’aggiunta di sostanze chimiche». E così, attraverso varie pratiche come l’utilizzo del compost derivato dagli scarti di lavorazione e l’inerbimento naturale, l'azienda Trebotti è riuscita ad aumentare la sostanza organica che, quando hanno iniziato, era a livelli molto bassi.
Botti racconta le singole innovazioni apportate in questi anni, il supporto di Jane - l’asina che vive da sempre in azienda - nella produzione di compost e lo fa snocciolando numeri e dati di chi ha capito che è possibile produrre vino d’eccellenza, fare reddito e, allo stesso tempo, essere sostenibili, riducendo le emissioni di CO2.
A testimoniare i risultati di questo lavoro è una ricerca pubblicata sul Journal of cleaner production: utilizzando pratiche agricole meno impattanti, si ottiene un bilancio del carbonio vicino allo zero, per quante emissioni prodotte, tante ne vengono riassorbite.
La scommessa sostenibile
«Sono sempre di più le aziende agricole che passano a pratiche agronomiche sostenibili», conferma Matteo Mancini, esperto di suoli e agronomo di DeaFal, un’associazione che porta avanti i principi dell’agricoltura organica e rigenerativa, una disciplina che «combina le pratiche tradizionali con le moderne conoscenze scientifiche».
Dai campi di genziana in Trentino all’uva da tavola in Puglia, Matteo accompagna le aziende verso un modello produttivo ecologico. «Ma prima di tutto bisogna partire dall’agricoltore: deve mettersi in gioco, altrimenti non funziona».
E di agricoltori pronti a mettersi in gioco, soprattutto tra le nuove generazioni, ce ne sono sempre di più. «Anche le grandi aziende superintensive possono trasformarsi e rigenerarsi», sottolinea Mancini, raccontando il percorso di una realtà di 600 ettari da lui seguita.
Una scommessa che però il mondo agricolo non può vincere da solo. Le politiche pubbliche sono una componente fondamentale per dirottare fondi da un modello industriale ad uno più ecologico. Un’occasione unica l’abbiamo a portata di mano: è la nuova PAC, la politica agricola comunitaria, che tra il 2021 e il 2027 verserà quasi 400 miliardi di euro nelle tasche degli agricoltori europei.
Purtroppo, il negoziato sta portando una attesa riforma fuori dai binari del Green deal. Perdere questa occasione rischia di rendere vano il lavoro di Ludovico, di Matteo e di quelli come loro.
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