La nuova frontiera tecnologica richiede l’utilizzo delle cosiddette terre rare. L’America è tra i principali importatori, ma il mercato è monopolizzato da Pechino. Un giacimento giapponese potrebbe cambiare le cose
- La guerra mondiale delle terre rare è già in corso: l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha cercato prima di comprare un pezzo di Groenlandia e poi di negoziare accordi commerciali per garantirsi l’approvvigionamento di questi minerali e ossidi “rari”.
- Non c’è quasi niente di ciò che utilizziamo quotidianamente che non faccia perno sulle terre rare.
- Ma è soprattutto per la prossima rivoluzione, quella che sarà portata dalle telecomunicazioni con reti 5G – che farà da impalcatura all’utilizzo dell’intelligenza artificiale su vasta scala – che le terre rare sono assolutamente fondamentali.
Sappiamo molto della fame di nichel, silicio e cobalto e dei problemi sociali e ambientali connessi alla loro estrazione che attirano l’attenzione dei media e degli scienziati che studiano alternative al loro sfruttamento. Ma la nuova frontiera tecnologica richiede anche le cosiddette terre rare, trovate in straordinaria concentrazione nei fanghi oceanici proprio attorno all’isoletta giapponese di Minami Torishima ed essenziali per turbine eoliche e batterie.
Tanto rare in realtà non sarebbero. Ma, se il mondo rispettasse le prescrizioni dell’ultimo rapporto degli scienziati dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) per limitare la concentrazione di gas climalteranti nell’atmosfera, in primis l’anidride carbonica, si esaurirebbero probabilmente in dieci anni anziché in un secolo. Dunque la guerra mondiale delle terre rare è già in corso, senza esclusione di colpi.
Stop all’export dalla Cina
A Pechino nei giorni scorsi è stata approvata una legge che consentirà a partire dal prossimo 1 dicembre di bloccare l’esportazione di materiali strategici, tra cui figurano le terre rare. Forse è stata una risposta al minacciato embargo americano sul social network TikTok. Si tratta di un pasticcio geopolitico con cui anche l’industria europea deve fare i conti, essendo il vecchio continente, con Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud tra i grandi importatori di terre rare, mentre la Cina ne detiene un monopolio virtuale.
Ma naturalmente il consumatore più affamato dei preziosi materiali sono gli Stati Uniti. Da un anno la Casa Bianca ha istituito un’apposita task force. L’ormai ex presidente Donald Trump ha cercato prima di comprare un pezzo di Groenlandia e poi di negoziare accordi commerciali privilegiati con il governo della capitale Nuuk per garantirsi l’approvvigionamento di questi minerali e ossidi “rari”.
Ecco perché Washington tiene sotto stretta sorveglianza satellitare tutto ciò che accade nella sperduta isoletta giapponese. Per esempio a Minami Torishima, tra rottami di carri armati e cannoni risalenti alla battaglia del Pacifico, è sbarcato a fine luglio, con mascherina anti Covid protocollare, il ministro giapponese della Difesa, Taro Kono. È da due anni però che sull’isoletta è tutto un viavai di delegazioni. Esattamente da quando il team di ricerca guidato dal professor Yutaro Takaya della Waseda University ha pubblicato i risultati finali di una ricerca condotta in tandem con l’università di Tokyo.
L’operazione era partita una decina di anni prima, dopo aver individuato tracce inequivocabili di un gigantesco giacimento di terre rare nascosto nel fondo fangoso delle sue acque profonde. Qualcosa come 16 milioni di tonnellate di minerali ed elementi chimici di importanza strategica, fondamentali per creare le leghe e i composti in grado di costruire e gran parte dei prodotti di tecnologia avanzata, incluse le batterie delle auto ibride ed elettriche e le grandi turbine eoliche, e ottimizzarne il funzionamento.
A ben vedere, spiega Silvia Bodoardo, del gruppo di elettrochimica del Politecnico di Torino, «questi materiali dagli splendidi colori – rosa, ambra, arancio, blu-violetto – anche se vengono utilizzati in quantità minime, sono fondamentali in tutti i motori elettrici, persino in quelli delle lavatrici».
Caratteristiche strabilianti
Un nome così aulico, “terre rare”, dove l’aggettivo più che alla loro abbondanza o meno si riferisce alla specialità delle loro caratteristiche, risale al XVIII secolo, quando ancora non si sapeva cosa farne e al massimo avranno magari incantato il filosofo-ottico Baruch Spinoza nei suoi primi esperimenti di colorazione delle lenti. In ogni caso ancora oggi gli scienziati e gli ingegneri chiamano così un gruppo di 17 elementi chimici che stanno alla fine della tavola periodica.
Sono accomunati da caratteristiche abbastanza simili e sempre strabilianti: a volte sono magnetici, con proprietà di superconduttori dell’elettricità, a volte anche debolmente radioattivi perché sono isotopi prodotti dalla fissione dell’uranio. Oggi non sarebbe più di per sé così difficile imbattersi in questi elementi, se si esamina la composizione della crosta terrestre. Ma molto presto queste sostanze torneranno a meritarsi il loro nome diventando veramente e terribilmente rare, attualmente infatti la domanda mondiale cresce al ritmo del 10 per cento all’anno.
Le reti 5G
Ma è soprattutto per la prossima rivoluzione, quella che sarà portata dalle telecomunicazioni con le reti 5G – che farà da impalcatura all’utilizzo dell’intelligenza artificiale su vasta scala – che le terre rare sono assolutamente fondamentali.
Finora il mercato mondiale è monopolizzato dalla Cina, che produce il 90 per cento degli ossidi di terre rare in circolazione, stimati in 100-120mila tonellate all’anno, estraendoli principalmente dalle miniere della Mongolia interna. I costi di estrazione sono vertiginosi se viene seguita una procedura rispettosa dell’ambiente. I vari elementi non si trovano in pepite all’interno di una singola roccia ma miscelati in una sorta di zuppa minerale. Per separarli servono solventi chimici, camere di decantazione e molta, molta acqua.
Non tutte le società minerarie cinesi però rispettano gli standard ambientali. E gli scavi e sbancamenti selvaggi non li fanno solo in patria ma anche in Africa centrale e meridionale. Oggi l’estrazione di terre rare in modo più eco-compatibile o la ricerca di tecniche di separazione degli elementi nel riciclo dei materiali restano opzioni non convenienti data l’offerta a prezzo stracciato delle terre rare cinesi che, secondo stime, vengono estratte per circa la metà in modo non rispettoso dell’ambiente e delle comunità locali.
Ma non sono certo queste forme di colonialismo estrattivo o land grabbing (rapina della terra) praticate dai cinesi a indignare la Casa Bianca. Il punto è che in virtù di questo monopolio di fatto è Pechino che stabilisce i prezzi, e negli ultimi anni, a partire dal 2011, non ha mai mancato di minacciare tagli all’export nei momenti critici, ogni volta che si è accesa una scaramuccia sui dazi o si è sentita una maggiore necessità competitiva dell’industria cinese. Puntualmente sono state messe in pericolo le regolari forniture di terre rare agli Stati Uniti e agli altri paesi utilizzatori, salvo poi essere pronti a tornare a invadere il mercato con le terre rare cinesi a prezzi tanto competitivi da non lasciare spazio di mercato a qualsiasi tentativo di produzione alternativa degli ossidi.
Gli Stati Uniti non possono più mettere le mani sull’isola Minami Torishima che pure alla fine dell’Ottocento era annessa agli States con il nome di isola Marcus. Dopo decenni di controversie, due guerre mondiali e interminabili negoziati, nel 1968 è definitivamente diventata del Giappone che in anni più recenti ha inserito l’atollo nella grande Zona economica speciale (Zee) dell’arcipelago giapponese.
Ora che è stato scoperto il mega giacimento, la Japan Oil, Gas and Metal National Corporation (Jogmec) ha eseguito lo scorso agosto il primo carotaggio a largo della costa sud. Le trivelle sono andate a setacciare i terreni sul fondo del mare a una profondità di 900 metri. I risultati sono stati molto incoraggianti per un paese che, come l’Italia, ha sempre sofferto la mancanza di materie prime in quantità significativa sul proprio territorio. Si tratta di fanghi oceanici straordinariamente ricchi di terre rare quali il deodimio e il disprosio, strategici per la costruzione di magneti permanenti sempre più grandi.
C’è un unico, piccolo problema: i costi di estrazione in fondo al mare rimangono per il momento inarrivabili. Eppur bisogna andar. Il gruppo automobilistico Toyota già da fine agosto si è fatto capofila di un consorzio di 30 soggetti pubblici e privati, tra enti di ricerca e partner industriali, che investirà nello sviluppo di un impianto sottomarino in grado di estrarre e raffinare i fanghi del giacimento. Le previsioni più ottimistiche parlano di una possibile commercializzazione delle terre rare estratte dal mega giacimento oceanico di Minami Torishima non prima del prossimo decennio. Ci vorrà molto pazienza, ma sarà sempre più semplice e veloce che andare a estrarre questi preziosi minerali sul lato oscuro della Luna, dove pure si dice che siano molto abbondanti.
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