- La nostra penisola avrebbe aree dove la percentuale di sostanze organiche presente nei suoli è scesa al 2 per cento, valore al di sotto del quale si parla già di desertificazione.
- In Sicilia le aree agricole a rischio sono il 70 per cento, in Molise il 58 per cento, in Puglia il 57 per cento, in Basilicata il 55 per cento, in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania sono comprese tra il 30 e il 50 per cento.
- Il problema non riguarda solo la nostra penisola, ma anche vaste aree dell’Europa, compresi i paesi scandinavi.
Quando si parla di desertificazione è difficile pensare all’Italia come una regione che può essere interessata dal fenomeno. Eppure secondo un rapporto dell’European Drought Observatory il problema ha già colpito da tempo anche il nostro paese. In Italia, infatti, ci sarebbero aree in cui, a causa dei cambiamenti climatici e dell’uso improprio di attività agricole, la percentuale di sostanze organiche presente nei suoli è scesa al 2 per cento, valore al di sotto del quale si parla già di desertificazione. Ossia di aree dove l’agricoltura non è più in grado di dare risultati accettabili. Stando alla ricerca, in Sicilia le aree agricole a rischio sono il 70 per cento, in Molise il 58 per cento, in Puglia il 57 per cento, in Basilicata il 55 per cento, in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania tra il 30 e il 50 per cento. Significa che il 20 per cento del territorio italiano è in pericolo di desertificazione.
Tra le cause principali c’è ovviamente la mancanza di acqua. Spiega Francesco Vincenzi, presidente dell’Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue: «Il fenomeno della siccità è ormai un problema europeo, dato che intacca anche le zone centrali del continente (la siccità infatti interessa anche grandi aree della Gran Bretagna e della penisola scandinava). È urgente l’avvio di un “piano Invasi”, ossia la realizzazione di laghi medio-piccoli per accumulare l’acqua piovana, a iniziare dalle zone dove più evidente è il deficit idrico. Perché più si aspetta più sarà difficile invertire la tendenza verso l’inaridimento del suolo».
Il Polo Nord si «atlantifica»
Ai tanti campanelli d’allarme che interessano il Polo Nord se ne aggiunge uno nuovo dai dati satellitari. Rilevano come negli ultimi anni l’intrusione delle acque più calde dell’oceano Atlantico stiano riducendo la crescita del ghiaccio invernale con conseguenze ancora tutte da capire. La quantità di ghiaccio marino che galleggia sull’oceano artico varia naturalmente ed enormemente con il variare delle stagioni, ma c’è un’innegabile tendenza a livello annuale ad una riduzione della sua estensione a causa dei cambiamenti climatici. Ora uno studio pubblicato su Journal of Climate dimostra come il calore dell’oceano che sta vicino alla grande massa d’acqua sta sopraffacendo l’effetto di fusione e solidificazione, portando a una riduzione del volume di ghiaccio marino che è in grado di ricrescere in inverno. Questo lo rende ancora più vulnerabile in estate e durante le tempeste invernali. Spiega Robert Ricker, dell’Awi Helmholtz Center for polar and marine research tedesco: «Il fenomeno è particolarmente evidente in prossimità del mare di Barents e del mare di Kara dove il calore dell’oceano e delle temperature dell’atmosfera indubbiamente più calde rispetto al passato riduce la ricrescita del ghiaccio invernale al Polo».
Il fenomeno è chiamato “atlantificazione”, a indicare che è il calore dell’oceano Atlantico che, portato ad alte latitudini, causa il ritiro dei confini del ghiacci polari. Secondo il ricercatore, «questa è una situazione che potrebbe espandersi sempre più anche in altre aree del Polo, velocizzando la scomparsa dei ghiacci soprattutto durante l’estate».
Mercurio in mare
Diciamolo subito che questa volta l’uomo non entra. Da una calotta glaciale che si trova nella regione sud-occidentale della Groenlandia enormi quantità di mercurio stanno finendo nei fiumi e quindi in mare. La scoperta è preoccupante in quanto il metallo tossico può accumularsi negli animali marini che sono una componente dietetica fondamentale per le comunità indigene locali. Il mercurio è un metallo presente in natura. Si trova in alcune rocce e in Groenlandia, queste, coprono grandi aree. Mentre i ghiacciai scorrono lentamente in discesa, macinano le rocce sottostanti, assorbono il mercurio che poi viene rilasciato nella loro acqua di fusione. Lo studio è stato realizzato da Jon Hawkings della Florida State University e da suoi colleghi, i quali hanno analizzato l’acqua di disgelo che scorre dal margine sud-occidentale della calotta glaciale groenlandese. I ricercatori hanno realizzato due spedizioni in Groenlandia, nel 2015 e nel 2018, durante le quali hanno raccolto campioni d’acqua da tre fiumi che ricevono fino a 800 metri cubi di acqua al secondo dalla calotta glaciale della Groenlandia. I loro risultati sono stati pubblicati su Nature geoscience. Spiega Hawkings: «Le concentrazioni di mercurio in questa regione sono almeno 10 volte superiori a quelle di un fiume medio. Ciò significa che l’acqua di disgelo è ricca di mercurio come alcuni fiumi altamente inquinati, anche se in questo caso il mercurio non è stato introdotto nell’acqua dagli esseri umani». Secondo i calcoli, dalla Groenlandia potrebbero arrivare in mare fino a 42 tonnellate di mercurio all’anno, circa il 10 per cento del mercurio che i fiumi portano negli oceani.
Caldo e freddo
La Death Valley in California è ritenuta dai più il luogo più caldo della Terra. È rimasto nell’immaginario di molti il record di temperatura con 56,7 gradi celsius, ma questo valore corrisponde alla temperatura dell’aria. Una nuova ricerca sulle temperature superficiali più estreme del nostro pianeta (pubblicata su Bulletin of the American Meteorological Society) ha messo in luce che è molto peggio mettere piede nel deserto di Lut (Dasht-e Lut) in Iran e nel deserto di Sonora del Nord America. Secondo i dati satellitari ad alta risoluzione degli ultimi due decenni, la terra in queste due regioni può a volte riscaldarsi fino a un sorprendente 80,8° C. Il deserto di Lut detiene il primo posto per la più alta temperatura della superficie terrestre del mondo. L’area si trova incastonata all’interno di una catena di montagne, la quale intrappola l’aria calda che si riscalda ancora più dove ci sono rocce vulcanica di color nero.
Il deserto di Sonora, che traccia il confine tra Stati Uniti e Messico, può raggiungere estremi altrettanto caldi, anche se con una frequenza inferiore rispetto al deserto di Lut. Poiché anche il deserto di Sonora è circondato da montagne, pure qui il calore viene intrappolato nell’arido bacino che si riscalda sempre più durante l’arco della giornata.
Non è chiaro quanto il cambiamento climatico abbia contribuito a queste temperature estreme, ma i giorni più caldi registrati dai satelliti si sono verificati negli anni più recenti, specialmente durante La Niña, un’oscillazione climatica che si alterna a El Niño e che in generale ha portato a un rallentamento nell’aumento della temperatura terrestre. I satelliti della Nasa hanno identificato anche i luoghi più freddi. L’Antartide ha vinto facilmente il record con un minimo di -110,9° C, un valore di circa 20 gradi inferiore alle stime precedenti.
Appena dopo il Big Bang
I ricercatori dell’Università di Copenaghen hanno ricostruito cosa sia successo a un particolare tipo di “plasma” che si formò durante il primo microsecondo dopo il Big Bang. Le loro scoperte forniscono un pezzo del puzzle sull’evoluzione dell’Universo, così come lo conosciamo oggi. Circa 13,8 miliardi di anni fa, il nostro Universo è passato dall’essere qualcosa di estremamente “caldo e denso”, di cui non conosciamo nulla, ad espandersi radialmente in un processo che gli scienziati hanno chiamato Big Bang. E anche se sappiamo che questa rapida espansione creò particelle subatomiche che poi divennero atomi, stelle, galassie e vita, i dettagli di come tutto sia accaduto sono ancora un mistero. Ora c’è qualcosa di nuovo. Spiega You Zhou, del Niels Bohr Institute, dell’Università di Copenaghen e tra gli autori dello studio pubblicato su Physics Letters B: «Abbiamo studiato una sostanza chiamata “Quark-Gluon Plasma” (Qgp) che era l’unica “sostanza”, che esisteva durante il primo microsecondo dal Big Bang. I nostri risultati ci raccontano una storia unica su come quel materiale è evoluto nella fase iniziale dell’Universo. Ci siamo riusciti grazie all’Lhc (Large hadron collider ), il quale ha permesso di ricostruire le modalità con il quale il Qgp si è evoluto in un arco di tempo brevissimo. Oltre a utilizzare il Large Hadron Collider, abbiamo anche sviluppato un algoritmo in grado di analizzare l’espansione collettiva di più particelle prodotte contemporaneamente, come mai era stato fatto prima d’ora». I risultati mostrano che il Qgp era una specie di “forma liquida fluente”, che cambiava costantemente la sua forma nel tempo. Prima di questa ricerca si pensava che il plasma fosse una forma di gas. Ora sappiamo che il plasma ha cambiato forma nel tempo, in maniera del tutto sorprendente.
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