- Eni e la collegata Saipem (infrastrutture per l’energia) hanno una capitalizzazione di Borsa molto lontana da quella di una volta: ai massimi valevano rispettivamente 108 e 17 miliardi; oggi, 32 e poco più di 2.
- Nei suoi tre anni migliori (2008-10), Eni generava in media annualmente 3,5 miliardi di liquidità, lo stesso ammontare dell’ultimo triennio (2017-19) pur essendosi ridotta di un quarto la cassa generata dall’attività operativa.
- Questo è stato possibile perché ha tagliato del 30 per cento in media gli investimenti
Con l’avvento della fotografia digitale, alcune aziende leader nel settore, come Kodak o Polaroid, non hanno saputo riconvertirsi e sono di fatto sparite mentre altre sono nate e hanno fatto fortuna, come i produttori di fotocamere per smartphone o Instagram. Un esempio utile a capire la situazione delle società petrolifere di fronte alla green revolution.
Il valore complessivo dei titoli petroliferi nel mondo è crollato dai 1.600 miliardi nel 2014, agli attuali 400. Exxon Mobil, la maggiore società americana, valeva 520 miliardi ai massimi nel 2007, quasi quanto la somma allora di Apple, Amazon, Google e Microsoft.
Oggi ne vale 150: appena 8 per cento della sola Apple. La pandemia da Covid, limitando trasporti e mobilità, ha fatto crollare il prezzo del petrolio, ma ha solo aggravato e accelerato la crisi esiziale del settore.
Una crisi che da noi investe Eni e la collegata Saipem (infrastrutture per l’energia): ai massimi valevano rispettivamente 108 e 17 miliardi; oggi, 32 e poco più di 2. Un problema non solo per gli investitori ma anche per lo Stato Italiano che, tramite ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti (Cdp), controlla entrambe le società col 30 e 43 per cento.
L’impatto di Eni sui conti della Cdp è notevole: nel 2019 i suoi dividendi hanno contribuito per quasi un quarto degli utili ante imposte della capogruppo Cdp; e ai prezzi di mercato le due partecipazioni valgono oggi 3 miliardi meno di quanto sono iscritti in bilancio (circa l’utile di un anno).
Valori contabili che Cdp per ora non ha rettificato perché, al posto dei prezzi di Borsa (come invece fatto per Poste), per determinarli ha usato la proiezione dei flussi scontati sulla base di un prezzo del greggio (Brent) di 60 dollari e del gas naturale di 5,5 dollari dal 2023 in avanti: ma oggi il prezzo a termine del Brent è sotto i 50 dollari fino al 2025 e da sette anni il prezzo del gas non tocca i 5,5 dollari. Il rischio che Cdp debba svalutare le due partecipazioni non è dunque infondato. Un problema di tutti, perché la Cassa gestisce il risparmio postale.
Ridurre le emissioni
La principale ragione della crisi delle società petrolifere è la pressante richiesta da parte di governi, investitori e opinione pubblica di una drastica riduzione delle emissioni nocive per il 2050.
I piani delle varie società petrolifere si articolano su tre livelli: Scope 1 (emissioni direttamente causate dalle attività di estrazione o produzione di calore); Scope 2 (emissioni generate dall’intera catena di produzione) e Scope 3 (quelle generate da tutti gli utilizzi delle fonti di energia, come per esempio, quello delle automobili).
Il taglio delle emissioni Scope 1 e 2 è relativamente facile da raggiungere rispetto a quelle Scope 3, che però contano per appena circa il 10 per cento del totale.
Repsol e BP puntano al Net Zero nel 2050; Eni a ridurre tutte le emissioni dell’80 per cento; Shell, Equinor e Total fra il 50 e il 65 per cento; le americane Exxon, Chevron, e Conoco (pre Biden) si limitano alle sole emissioni Scope 1 o 2.
Tanta discrepanza negli obiettivi ne riduce la credibilità ed evidenzia l’enorme incertezza del futuro delle società petrolifere: che cosa fare per generare utili al posto petrolio e gas, e con quali risorse finanziare la riconversione?
Alla base della grande difformità negli obiettivi di riduzione delle emissioni, per non parlare del Net Zero, vedo tre principali incertezze. La prima è il numero di auto a benzina o diesel ancora in circolazione fra 30 anni: se anche le auto full electric passassero dal 2 per cento odierno all’80 per cento nel 2050, si stima che per allora circa due terzi dei 2 miliardi di auto in circolazione avranno ancora il motore a combustione.
La seconda, i tempi e i capitali necessari per costruire le infrastrutture essenziali a produrre su vasta scala e distribuire economicamente idrogeno verde (ovvero generato da fonti rinnovabili) per l’industria inquinante e i segmenti del settore dei trasporti (aereo, marittimo e pesante su gomma) che difficilmente potranno essere elettrificati.
Due recenti esempi evidenziano queste difficoltà. Il Giappone vuole puntare sull’idrogeno perché troppo densamente popolato e orograficamente complesso per vasti impianti di fonti rinnovabili, e ha costruito il primo terminale per importarlo via nave dall’Australia; che però lo produce bruciando carbone. Per superare questi problemi, da noi si è proposto di usare pannelli solari in Africa per produrre idrogeno verde in Europa: idea ingegnosa quanto futuribile.
Altro esempio è la raffineria di BP che sarà alimentata con idrogeno verde prodotto con l’eolico del Mare del Nord: perché è localizzata convenientemente nel nord della Germania e comunque sostituirà, nel 2024, solo il 20 per cento dell’idrogeno grigio attualmente utilizzato.
Che fare degli investimenti?
La terza incertezza riguarda i massicci investimenti in infrastrutture che ancora oggi si fanno per produzione e trasporto di gas naturale (il North Stream per il gas russo, il Tap per quello dell’Azebajian, o lo sfruttamento dei giacimenti nel Mediterraneo orientale), e che saranno pienamente in funzione fra 30 anni: segno che si continua a puntare sul gas naturale, anche se questo produce appena 30 per cento in meno di Co2 rispetto al gasolio.
L’unico chiaro progetto verde nei piani delle società petrolifere è dunque la produzione e distribuzione di elettricità rinnovabile, in concorrenza con le società elettriche. Ci sono seri dubbi però su quando, e in che misura, i ricavi da questa attività riusciranno a sostituire quelli legati al greggio: di qui le valutazioni depresse in Borsa.
Tutte queste considerazioni si applicano a Eni. E i suoi conti lo confermano. Nei suoi tre anni migliori (2008-10) generava in media annualmente 3,5 miliardi di liquidità, lo stesso ammontare dell’ultimo triennio (2017-19) pur essendosi ridotta di un quarto la cassa generata dall’attività operativa.
Questo è stato possibile perché Eni ha tagliato del 30 per cento in media gli investimenti (soprattutto estrazione ed esplorazione); trend confermato nel primo semestre dell’anno. Ma mentre dieci anni fa usava la liquidità per pagare in media oltre 4 miliardi l’anno di dividendi, nell’ultimo triennio l’ha usata per ridurre il debito (ce ne sono ancora 20 miliardi), dovendo così ridurre il dividendo in media del 30 per cento.
Questo trend é destinato ad accentuarsi: ovvero continuare a tagliare gli investimenti nella ricerca e sviluppo di nuovi giacimenti, puntando a generare la maggior parte dei ricavi dalle riserve certe in essere ancora per anni, e sperare in un aumento del prezzo del greggio, come ipotizzato dal piano, per ridurre il debito e garantire un dividendo all’azionista Cdp.
È dal petrolio, quindi, che la cassa dell’Eni continuerà a dipendere nei prossimi anni. E il futuro rimane legato al gas. Da dove possano venire le risorse finanziarie per crescere nelle rinnovabili o diventare green, non riesco a capirlo. Più che una strategia coraggiosa di radicale cambiamento, quella dell’Eni mi sembra una mera gestione del declino.
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