Per l’Emilia-Romagna, colpita da nuove alluvioni a solo un anno e mezzo dal disastro epocale del 2023, sono tornate le ore della paura. Uno studio del World Weather Attribution sulla catastrofe del 2023 aveva stabilito che le quantità di pioggia cadute lo scorso anno potevano ripetersi circa ogni duecento anni, ma il tempo di ritorno reale è stato di sedici mesi.

Questo è vivere in un mondo e un continente in emergenza climatica: tempeste di impatto plurisecolare che tornano sulla scala degli anni. Non è il momento di politicizzare, ma è impossibile non notare che solo poche ore prima la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva sferrato un attacco plateale contro la cura a lungo termine che l’Unione europea ha progettato contro questa instabilità climatica: il Green Deal, descritto come «autolesionistico e autoreferenziale».

Il cambiamento climatico funziona in modo diverso da una pandemia, ma è stato come aver sentito una premier attaccare i vaccini proprio durante un picco di contagi. Il vaccino della decarbonizzazione funziona su tempi più lunghi di quello anti-Covid, ma è comunque l’unico strumento che abbiamo.

La tempesta Boris

Il World Weather Attribution, gruppo di ricerca dell’Imperial College di Londra sui legami causali tra singoli eventi meteo e riscaldamento globale, ha attivato uno studio lampo sulla tempesta Boris (che ha colpito il centro Europa nei giorni scorsi), che darà i suoi risultati il 24 settembre.

Intanto la perturbazione ci ha ricordato due concetti, entrambi sono un complemento all’attacco di Meloni e Confindustria contro la decarbonizzazione europea. Il primo è che ormai c’è un legame sempre più lineare tra il riscaldamento del Mediterraneo d’estate e le tempeste dei mesi successivi: ad agosto leggevamo le cronache di come fosse stato battuto il record di temperatura media, con 28.7°C e picchi locali di 32°C.

L’aumento di un grado di temperatura del mare fa aumentare del 7 per cento l’intensità delle precipitazioni, e il nostro mare oggi è più caldo di 1.4°C rispetto a quanto fosse anche solo all’inizio del millennio e ha raggiunto i livelli più alti mai toccati nell’Olocene.

Il secondo è che l’adattamento è una delle sfide europee, ma non a tutto quello che verrà dal cielo (o non verrà dal cielo, come nel caso della siccità) potremo adattarci.

La lezione della tempesta Boris è stata la sua versatilità nel fare danni in territori molto diversi tra di loro: la perturbazione ha allagato, travolto, fatto vittime e migliaia di sfollati allo stesso modo nei villaggi rurali della Polonia e in una città moderna ed efficiente come Vienna, prima di ritrovare forza all’arrivo sulla penisola grazie all’incontro con l’aria umida proveniente dai nostri mari sempre più caldi, riuscendo a fare danni anche 1.500 chilometri più a sud.

Lavorare per sottrarre l’Unione europea alla lotta globale ai cambiamenti climatici, come sta facendo la destra italiana in sintonia con quella europea, è sia un danno per l’Ue sia per la lotta all’emergenza.

Per l’Europa rinunciare a investire aggressivamente in decarbonizzazione vuol dire rinunciare anche all’ultima opportunità di interrompere quella che Mario Draghi, nel rapporto commissionato da Ursula von der Leyen, aveva descritto come «lenta agonia».

Freniamo tutti insieme

Accumulare altro ritardo sullo sviluppo delle auto elettriche per inseguire chimere come la neutralità tecnologica vuol dire concedere altro margine al vantaggio già cospicuo della Cina, e agli Stati Uniti che la stanno rincorrendo, trasformando quelle che un tempo erano eccellenze italiane – automotive compreso – in obsolescenze programmate, mentre il resto del mondo si adegua alle tecnologie già dominanti.

Quando un altro populista come l’ex premier britannico Rishi Sunak ha deciso di spostare in avanti il phase-out dell’auto a benzina (dal 2030 al 2035) i primi a ribellarsi non sono stati gli ambientalisti, ma i produttori di auto, che avevano già programmato gli investimenti.

Per i cambiamenti climatici, perdere la spinta che in questi anni è arrivata dall’Unione europea non vuol dire solo rallentare nella decarbonizzazione del nostro 8 per cento di emissioni, ma mandare un segnale ai paesi che compongono il restante 92 per cento, un modo per dire alle economie emergenti: freniamo tutti insieme, mentre la crisi accelera.

Il cambiamento climatico si affronta in due modi: adattamento e mitigazione delle emissioni. Sull’adattamento ogni paese ha la responsabilità locale di badare a sé stesso, e l’Italia in questi sedici mesi ha dimostrato che non è ancora una priorità, facendosi costantemente travolgere dalle emergenze invece di anticiparle. Sulla mitigazione, lo sforzo può essere solo congiunto e globale, e la responsabilità è innanzitutto non attrezzarsi per frenarlo.

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