- Si percorrono varie strade per cercare di prevedere i terremoti. Una studia le variazioni del campo magnetico e sembra dare buoni risultati.
- Intanto, un gruppo privato di ricercatori ha un progetto per cercare la vita nelle nubi di Venere
- L’asteroide che uccise i dinosauri causò un terremoto che durò mesi. I cambiamenti climatici stanno cambiando le abitudini di molte specie di uccelli
A scanso di equivoci va detto per prima cosa: quanto scoperto non è ancora un metodo per predire i terremoti, ma è solo una strada di grandissimo interesse. Pur essendo ancora lontano il giorno in cui si riuscirà a prevedere un sisma, si stanno comunque cercando varie strade che possano portare a tale obiettivo.
Una di queste sta dando buoni risultati: ricercatori che studiano terremoti da media ad elevata intensità in California, infatti, hanno scoperto che molti sismi producono un cambiamento rilevabile nel campo magnetico locale, tra uno e tre giorni prima di un evento sismico.
Terremoti e campo magetico
Nello studio pubblicato da William Heavlin su Journal of Geophysical Research: Solid Earth, si dimostra come, seppur debole, il cambiamento del campo magnetico è statisticamente significativo e si pensa possa essere una strada importante per la previsione sismica. Spiega Dan Schneider, Direttore del QuakeFinder, un Dipartimenento di ricerca sui terremoti dello Stellar Solutions, una società di servizi di ingegneria dei sistemi che ha collaborato alla ricerca: «È un segnale modesto e non stiamo affermando che questo segnale si manifesta prima di ogni sisma, ma è comunque molto intrigante e vale la pena seguire questa strada».
L’idea che il campo magnetico possa subire delle variazioni prima di un terremoto non è nuova, ma è sempre stata controversa. Anche recentemente l’United States Geological Survey ha affermato che «nonostante decenni di lavoro, non ci sono prove convincenti di precursori elettromagnetici dei terremoti». Ma forse una nuova speranza c’è proprio grazie a quest’ultimo lavoro. In collaborazione con il gruppo del Google Accelerated Science, Schneider ha attinto ai dati del campo magnetico di una serie di magnetometri (strumenti che misurano il campo magnetico) in 125 stazioni posti lungo le principali faglie (le fratture della Terra che muovendosi danno origine ai terremoti) della California.
Ha raccolto dati dal 2005 al 2020, periodo durante il quale si sono verificati 19 terremoti di magnitudo 4.5 o superiore. Ovviamente il lavoro ha previsto di scartare tutto ciò che avrebbe potuto influenzare il campo magnetico locale, come ad esempio, il traffico di punta in determinate ore. E i dati sono stati ripuliti anche dalle influenze del Sole, anche se sono le più difficili da eliminare. Dopo aver corretto di tutti i dati non correlati con i sismi i ricercatori hanno potuto stabilire che vi sono cambiamenti nel campo magnetico certi che vanno da 72 a 24 ore prima di un evento sismico.
Ora Schneider vuole trovare il modo di avere segnali ancor più puliti, privi di ogni interferenza esterna e questo gli darà modo di capire ulteriormente se davvero questa strada potrà portare alla previsione dei terremoti.
Alla ricerca dei “venusiani”
C’è vita su Venere? Beh certamente non sulla superficie, dove le temperature fondono anche il piombo, visto che raggiungono e superano i 470°C. Ma nelle nubi ad una certa quota non è da escludere tant’è che alcuni mesi or sono si parlò della scoperta di fosfina, una molecola che sulla Terra è prodotta quasi esclusivamente da organismi viventi. È per questo che una missione tra le nubi potrebbe essere particolarmente interessante. Ma non sarà un ente spaziale nazionale a realizzarla, bensì da Breakthrough Initiatives, una società privata finanziata da Julia e Yuri Milner. Il progetto prevede un programma con molteplici spedizioni che un gruppo di scienziati sta già mettendo a punto. Tra i ricercatori coinvolti ve ne sono alcuni del Massachusetts Institute of Technology e vari ingegneri di Rocket Lab. La missione sarà in realtà composta da più spedizioni a Venere che prenderanno forma in base ai risultati della precedente. La prima è prevista per maggio 2023 e vedrà il lancio di una piccola navicella spaziale con il razzo Electron di Rocket Lab.
Photon, questo il nome della sonda, trasporterà un carico utile di circa un chilogrammo e sarà una navicella che entrerà nell’atmosfera del pianeta con lo scopo primario di analizzare le caratteristiche delle spesse nuvole che lo avvolgono. Gli strumenti a bordo emetteranno fasci di luce ultravioletta sulle goccioline e sulle particelle presenti nelle nuvole per raccogliere diverse tipologie di dati. La metodologia è nota come fluorescenza.
Lo scopo di tutto ciò è verificare o meno la presenza di eventuali molecole organiche, segno, anche se non certezza, di una possibile vita batterica. Se i risultati fossero positivi si darebbe il via alla seconda missione. Questa vedrebbe il lancio di un pallone atmosferico che “galleggerebbe” nell’atmosfera del pianeta ad una quota di circa 50 chilometri.
Anche questo pallone-sonda avrebbe come compito quello di analizzare l’atmosfera in cerca di segni di possibile forma di vita e coprirebbe un’area molto più grande rispetto alla prima missione. La terza sonda, l’ultima, sarebbe quella più ambiziosa, in quanto avrà il compito di raccogliere campioni dell’atmosfera di Venere per riportarli a Terra dove verrebbero analizzati in laboratorio. La seconda e la terza missione, come detto, avverrebbero solo se si avranno risultati positivi con la prima.
Se il tutto si realizzerà realmente, non è escluso che da queste missioni arriveranno anche altre risposte a numerose domande, prima tra tutte, quella che chiede come il pianeta sia arrivato ad avere un’atmosfera composta quasi esclusivamente da anidride carbonica che produce uno spaventoso effetto serra.
Il sisma per l’asteroide
Circa 66 milioni di anni fa, un asteroide di dieci chilometri di diametro colpì la Terra e fu causa o comunque concausa dell’estinzione di un gran numero di specie terrestri, dinosauri compresi. Ora una serie di nuove prove suggerisce che l'impatto di Chicxulub, la località messicana dove avvenne l’evento, ha anche innescato un terremoto così forte da scuotere il pianeta per settimane o mesi dopo la collisione.
La quantità di energia rilasciata in questo “mega-terremoto” è stimata in 1.023 joule, che è circa 50mila volte più energia di quella rilasciata nel terremoto di magnitudo 9.1 di Sumatra del 2004. Hermann Bermúdez ha presentato le prove di questo “mega-terremoto” all’incontro “GSA Connects” a Denver. All’inizio di quest’anno Bermúdez ha visitato gli affioramenti rocciosi che segnano il confine dell’evento di estinzione di massa tra il Cretaceo e il Paleogene (K-Pg) in Texas, Alabama e Mississippi. Lo scopo era quello di raccogliere dati, da integrare al suo precedente lavoro svoltosi in Colombia e Messico che documentano le prove del catastrofico impatto. Nel 2014, mentre svolgeva un lavoro sul campo sull’isola di Gorgonilla in Colombia, Bermúdez ha trovato un importante deposito di “sferule”, si trattava di strati di sedimenti pieni di piccole perle di vetro (grandi fino a 1,1 mm) e frammenti noti come “tectiti” e “microtectiti”.
Tali perle di vetro si formarono quando il calore e la pressione prodotte dall’urto dell’asteroide hanno fuso la crosta terrestre eiettandola verso l’alto. A quel punto il veloce raffreddamento del materiale ha prodotto le gocce di vetro che sono poi ricadute sulla superficie terrestre. I successivi sedimenti le hanno intrappolate e lì sono rimaste quando i sedimenti si sono trasformati in rocce. Quelle esposte sulla costa dell’isola di Gorgonilla raccontano una storia che si verificò sul fondo dell’oceano, a circa due chilometri di profondità.
Lì, a circa 3.000 chilometri a sud-ovest dal luogo dell’impatto, sabbia, fango e piccole creature oceaniche si stavano accumulando sul fondo dell’oceano quando l’asteroide colpì la Terra. L’impatto fu così violento che strati di fango e arenaria fino a 10-15 metri sotto il fondo del mare hanno subito una deformazione che oggi si può osservare negli affioramenti che Bermúdez attribuisce allo scuotimento dell'impatto.
Fratture e pieghe dovute allo scuotimento sono presenti anche nello strato ricco di sferule che si è depositato dopo l’impatto, indicando che lo scuotimento deve essere continuato per le settimane e i mesi necessari affinché questi depositi a grana più fine raggiungessero il fondo dell'oceano. Appena sopra quei depositi di sferule, le spore di felce conservate segnalano il primo recupero della vita vegetale.
Spiega Bermúdez: «La sezione che ho scoperto sull’isola di Gorgonilla è un posto fantastico per studiare il confine K-Pg, perché è uno dei meglio conservati e si trovava nelle profondità dell’oceano, quindi non è stato colpito dagli tsunami». La prova della deformazione del mega-terremoto è conservata anche in Messico e negli Stati Uniti. Lungo gli affioramenti di El Papalote in Messico, Bermúdez ha osservato anche prove di “liquefazione” dei suoli, che si verifica quando un forte scuotimento trasforma i sedimenti saturi d'acqua in una sorta di liquido.
In Mississippi, Alabama e Texas, Bermúdez ha documentato pieghe e fratture probabilmente associate al mega-terremoto. Nel suo lavoro ha documentato anche depositi di tsunami in diversi affioramenti, lasciati da un’enorme onda che faceva parte delle catastrofi a cascata risultati dalla collisione dell’asteroide.
Cambiano le abitudini degli uccelli
A causa del cambiamento climatico, la migrazione primaverile degli uccelli verso i siti di nidificazione e la loro riproduzione sono anticipate di circa due-tre giorni ogni decennio, a partire dal 1811. E le specie che tendono ad anticipare maggiormente le loro attività sono quelle residenti e i migratori parziali, quelle che hanno una dieta generalista, si nutrono di piante, e si trovano nell’emisfero boreale, a latitudini più elevate, proprio dove le temperature sono aumentate con maggiore intensità.
Sono questi i risultati di uno studio coordinato da Andrea Romano, ricercatore presso il dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’Università degli Studi di Milano e recentemente pubblicato su Ecological Monographs. La ricerca ha raccolto oltre 5.500 serie storiche di dati fenologici (variazioni temporali di attività come la migrazione e la riproduzione), compresi tra il 1811 e il 2018, relativi a 684 specie di uccelli a livello mondiale.
Tuttavia, si osservano grosse differenze tra specie con caratteristiche ecologiche e biologiche differenti: le specie che migrano su lunghe distanze (i migratori trans-continentali) hanno evidenziato anticipi meno marcati rispetto a quelle che si spostano solo entro continente, mentre negli uccelli residenti si osservano i cambiamenti più accentuati.
Questa differenza potrebbe derivare dal fatto che le specie residenti, e in misura minore quelle che si spostano poco, sono in grado di tracciare meglio le alterazioni del clima e dell’ambiente dei luoghi di riproduzione, fatto che risulta difficoltoso per i migratori a lungo raggio, che sono inoltre vincolati dall’attraversamento di barriere ecologiche, come il Sahara o il Mediterraneo.
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