Roccia nuda, un’infinita distesa di roccia nuda. Sotto, il ghiaccio che in alcuni punti sta fondendo. Lo si percepisce dall’acqua che scorre, che gorgoglia. Lo si vede ad occhio nudo: scava cunicoli, piccoli canali tra le poche nevi estive rimaste, e piccole cascate sul fronte più alto del ghiacciaio.

È così che si presenta la testa del ghiacciaio della Marmolada ai primi di settembre, a circa 3mila metri, durante la campagna glaciologica partecipata “Climbing for Climate”, iniziativa di sensibilizzazione sugli esiti della fusione glaciale promossa dal Comitato glaciologico italiano, dal museo di Geografia dell’università di Padova e dal Cai Italia e dalla sezione di Livinallongo.

Un ghiacciaio in evidente sofferenza, a cui non mancano tanto le precipitazioni nevose, ma che le temperature eccezionalmente elevate degli ultimi anni lo stanno portando letteralmente alla “morte”, almeno quella scientifica, tanto da non essere più considerato tale.

Non a caso, proprio pochi giorni fa il Servizio per il Cambiamento Climatico di Copernicus rendeva noto come nel corso degli ultimi tre mesi del 2024, il pianeta avesse registrato i mesi di giugno e di agosto più caldi, il giorno più caldo in assoluto e l'estate boreale più calda in assoluto. Una serie di temperature record che aumenta la probabilità che il 2024 si confermi il più caldo, dopo i 12 mesi passati con temperature sempre al di sopra della media.

L’accelerazione della fusione

La Marmolada è il ghiacciaio tra i più noti, certamente tra i più misurati e studiati. E proprio per questo motivo conosciamo in maniera approfondita la sua evoluzione, fin dai primi anni del secolo scorso.

Una sentinella del clima, che fotografa perfettamente l’impennata delle temperature dell’ultimo decennio. «Lo scorso anno da qui si vedeva il punto di misurazione», racconta Stefano Benetton, ricercatore dell’università di Padova mentre punta il laser verso la base che servirà a misurare il ritiro del ghiacciaio.

Non solo il fronte si è accorciato, ma è lo spessore del ghiaccio a fondersi a ritmi vertiginosi «parliamo di quasi tre metri in un solo anno». Secondo gli ultimi rilievi la riduzione media, che nel corso del Novecento è stata di 2,2 ettari l’anno, dal 2000 è raddoppiata passando a 4,6 all’anno, con una contrazione record tra 2022 e 2023 di oltre 13 ettari.

«Purtroppo continua ad arretrare. Se si era dimezzato nel secolo scorso, si è ulteriormente dimezzato dal 2000 ad oggi», spiega il professor Mauro Varotto, del dipartimento di Geografia dell’università di Padova che qui effettua i rilievi da almeno vent’anni. «Quello che è successo l’anno scorso non è mai accaduto prima».

E qui arriva la diagnosi, quasi una sentenza, mentre alle spalle la cresta di ghiaccio non supera i due metri di spessore. «In queste condizioni il ghiacciaio avrà altri dieci, quindici anni di vita, rimarranno solo delle porzioni di ghiaccio "morto”».

Per fare le giuste proporzioni, nel 2023 il ghiacciaio è sceso sotto la soglia simbolica dei 100 ettari, meno di un chilometro quadrato (98,7 ha), una superficie più che dimezzata rispetto a 25 anni fa, quando misurava 205 ettari.

Rifiuti che riaffiorano

Ma arrivando a circa 3mila metri di quota, non ci si rende conto solamente di quello che può essere definito l’ultimo grido della Marmolada, ma ci si trova di fronte ad un cimitero, fatto di rifiuti di vario genere che iniziano a riaffiorare un po’ ovunque.

Proiettili, ogive, residui pesantissimi di mortai, filo spinato con pezzi di stoffa ancora incastrati tra le spire: dopo più di un secolo i residui della Grande Guerra son qui a raccontare il fronte principale nel 1915, che tagliava in diagonale il ghiacciaio, da punta Penia attraverso il Sasso delle Undici, scendendo sul Passo Fedaia.

Ma si trovano anche lattine, alcune datate anni Ottanta, altre forse ancora più vecchie, bottiglie di plastica, racchette da sci perse da qualche incauto sciatore, bottiglie di candeggina.

E microplastiche. Per la prima volta infatti, grazie alle analisi di campioni di acqua di fusione del ghiacciaio realizzati dal dipartimento di Chimica dell’università di Padova, sono state rinvenute microfibre di poche centinaia di micron, dello stesso materiale che compone i teli geotermici di polipropilene che dovrebbero servire a ritardare la fusione di una lingua di circa 4 ettari di neve.

«Mantengono effettivamente la neve dell’annata. Ovviamente non salvano il ghiacciaio, ma salvano solamente la pista da sci», spiega Varotto. L’impatto visivo è notevole: almeno un paio di metri di lingua di neve “conservata” mentre tutto intorno resiste un sottile strato di ghiaccio. E qua e là si notano pezzi di teli incastrati nel ghiaccio. «Questi teli rilasciano in ambiente, come tutti i materiali plastici, delle microplastiche, come dimostrato dalle analisi condotte».

Ripensare il turismo e lo sci

Alla fine di un’estate in cui l’idea di overtourism è uscita dalle sale degli addetti ai lavori e sta facendo discutere anche l’opinione pubblica, risulta sempre più evidente come il turismo di massa accentui l’impatto antropico sulle alte quote in prossimità delle zone più frequentate: recenti ricerche scientifiche sulle Dolomiti hanno fatto emergere come anche i rifugi e le infrastrutture sciistiche sono centri di diffusione di inquinanti, in particolare di materiale plastico.

«I rifiuti si trovano spesso in corrispondenza dei rifugi e degli impianti sciistici», sottolinea docente di Finanza sostenibile all’università di Padova. «Lo sviluppo economico che c’è dietro queste attività hanno sempre un costo, in questo caso perpetuo perché i rifiuti micro e macro plastici nessuno è in grado di rimuoverli».

E qui è d’obbligo un’altra riflessione: quanto siamo disposti a pagare come collettività, il mantenimento di una pratica sportiva - quella sciistica - mantenuta in vita solo artificialmente? «Questa attività è sempre più costosa proprio per le condizioni climatiche che stiamo vivendo», continua Varotto. «Credo che sia importante anche per gli sciatori chiedersi che senso abbia continuare a sciare in condizioni di innevamento inesistente».

Chiaramente, come sottolineato anche dal professore che da tempo si occupa di questo tema, si apre un discorso economico di mantenimento delle attività in montagna. Ecco allora che dovremmo davvero guardare alla realtà dei fatti e intavolare un programma a breve e medio termine che parli di riconversione del settore: continuare a doparsi è una soluzione che non durerà a lungo.

Il Manifesto per la Marmolada

Per questo motivo la Rete delle università per lo Sviluppo sostenibile, in occasione dell’ultimo campionamento, ha reso pubblico un Manifesto, un’iniziativa concreta che possa portare la Regina delle Dolomiti a divenire una montagna-laboratorio per il futuro, invitando a ripensare il modello di fruizione delle alte quote.

Un nuovo “patto per la Marmolada”, che superi i vecchi motivi di contenzioso orientati al massimo sfruttamento economico e consenta il coinvolgimento di tutte le amministrazioni e di tutti i soggetti a diverso titolo interessati alla Marmolada intorno ad un grande progetto di riconversione.

Si chiede poi di promuovere una frequentazione improntata alla sostenibilità economica, sociale, ambientale. La Marmolada potrebbe infatti diventare luogo di formazione e sensibilizzazione al global warming per studenti, insegnanti, cittadini e associazioni. Le Università del Veneto e di Trento si sono impegnate in questo senso a promuovere momenti di formazione e iniziative di sensibilizzazione orientate alla sostenibilità.

È ormai palese come un bene comune sia stato capitalizzato nei decenni da un’oligarchia, con il denaro della collettività: è qui tutto il cortocircuito di questo sistema economico che sta spremendo fino all’ultima goccia d’acqua - e di ghiaccio - un luogo sacro.

Non solo perché qui si è combattuto e si è morto, ma perché si tratta della testimonianza vivente di ciò che sta accadendo al clima.


 

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