- Il gigantismo navale ha ampliato l’esigenza dell’industria marittima di fondali portuali profondi. Il loro stato di contaminazione richiede però cautela nel dragaggio, garantita oggi dal combinato di leggi scritte fra 2006 e 2016.
- Le istanze di armatori e operatori marittimi, mediate dalle autorità portuali (enti pubblici in concorrenza feroce), sono state colte da diverse forze politiche e tradotte in progetti di legge volti a derubricare le prescrizioni ambientali della normativa vigente.
- Dall’Ispra al Cnr chi la ispirò suona un campanello di allarme: la disciplina va aggiornata ma non stravolta. Occorrerebbe piuttosto impostare e applicare criteri di economia circolare oggi negletti dal legislatore.
Alleggerire, deregolamentare, velocizzare, per più rapidamente costruire, infrastrutturare, cementare. E scavare. Fra le diverse manifestazioni del furore edile che in tempi di Pnrr e larghe intese ha travolto pure chi ne era stato fino a oggi immune a suon di corrivi decreti, oggi ce n’è una che si sta sviluppando sottotraccia. Anzi sott’acqua, ma con conseguenze pericolosamente tangibili: stiamo parlando del dragaggio dei porti italiani e dei tentativi, moltiplicatisi negli ultimi mesi, di smantellare la rigorosa normativa che ne disciplina la compatibilità ambientale.
Chi e perché vuole scavare
Soggetti a decenni di usi industriali indiscriminati, i fondali dei porti italiani sono oggi molto contaminati. Un decreto del ministero dell’Ambiente del 2016, redatto col supporto dei più autorevoli enti in materia (Ispra, Cnr, Iss), ha dettagliato la disciplina per dragarli impostata col testo unico sull’ambiente del 2006, ispirandosi e attenendosi a normative e prassi comunitarie e internazionali. Il perno è l’analisi preliminare, chimica ed eco-tossicologica, del materiale di escavo, al fine di scegliere la destinazione adeguata: reimmersione in mare, ripascimenti costieri, vasca di contenimento permeabile o impermeabile all’acqua, trattamento in discarica, in ordine crescente di pericolosità e di costo. Fattore, quest’ultimo, divenuto centrale.
Il dragaggio serve a mantenere l’accessibilità degli scali. Oggi però il gigantismo dell’industria navale richiede più frequenti e imponenti interventi. In Italia, dove pure la gestione dei porti è affidata direttamente allo stato, non esiste una strategia coordinata. Né in termini di un piano di dragaggi nazionale, che innanzitutto individui le priorità e predisponga i luoghi di destinazione dei fanghi. Né in termini di indirizzamento dei traffici marittimi a maggiore pescaggio su quei porti più fisiologicamente adatti ad accoglierli.
La guerra dei porti
Tutti i porti, guidati da autorità portuali che sono espressione della politica più campanilistica e miope, fanno invece a gara per attirare le navi. Una fratricida concorrenza fra enti pubblici, dannosa per il paese tanto più perché giocata principalmente sulla leva dell’imputazione alla finanza pubblica invece che all’utenza privata (armatori, concessionari, caricatori) dei costi dell’infrastruttura. Dragaggi compresi: tutti vogliono scavare sempre di più e più in fretta e risparmiando il più possibile.
Lungi dall’intervenire a monte, il legislatore si prepara a rispondere a questi input solo scardinando l’esistente assetto regolatorio. I primi a muoversi in tal senso sono stati i deputati di Italia Viva Luciano Nobili e Raffaella Paita, con una proposta di legge depositata nell’autunno scorso che mira sostanzialmente ad alleggerire il peso delle analisi eco-tossicologiche a favore delle chimiche, sospendendo tout court le prime per almeno un anno.
La proposta di legge di un partito allora in schiacciante minoranza è stata puntellata con una risoluzione parlamentare, che, cambiati gli assetti di maggioranza, è stata rafforzata a marzo dalla sottoscrizione della neoalleata Lega e approvata un mese dopo all’unanimità dalle commissioni Ambiente e Trasporti della Camera.
Audito durante i lavori parlamentari, l’Ispra ha evidenziato come il rialzo dei quantitativi di reimmersione consentiti, previsto con grande larghezza dalla risoluzione, trasformerebbe «il sito in una sorta di discarica in mare». L’idea di alleggerire o sospendere le analisi eco-tossicologiche a favore di quelle chimiche è stato giudicato un «approccio scientificamente obsoleto», dato che le due tipologie «sono complementari e interdipendenti». E pure controproducente, dato che l’esame eco-tossicologico consente a volte di rafforzare il risultato tabellare di quello chimico, dando una misura degli effetti tossici su organismi viventi di un’eventuale contaminazione.
L’intervento è stato decisivo per edulcorare la risoluzione, che ha tuttavia impegnato il governo, fra le altre cose, a valutare di modificare il codice dell’ambiente del 2006 «nella direzione di una maggiore efficacia e semplificazione delle verifiche eco-tossicologiche». A dare manforte al picconamento delle norme era nel frattempo arrivata Assoporti, l’associazione delle Autorità portuali, con una piattaforma di richieste contenente, oltre a quanto proposto da Italia Viva e Lega, ulteriori e più radicali interventi di smantellamento della normativa esistente a favore di una generale deregulation.
Assalto alla legge ambiente
A raccoglierne l’istanza è stato nelle scorse settimane un gruppo di deputati del partito democratico, con una proposta di legge a prima firma del vicepresidente dei deputati Piero De Luca presentata dalla presidentessa del gruppo parlamentare Debora Serracchiani, che, oltre a prevedere l’esclusione degli ambiti portuali dai beni di interesse paesaggistico (onde ridimensionare le prerogative delle Soprintendenze), avanza due proposte in materia di dragaggi.
La prima vuole portare da 30 a 90 mesi il termine massimo di deposito dei fanghi in strutture temporanee prima della messa a dimora definitiva. E, per quanto si voglia in realtà estenderlo senza limiti, portandolo «comunque fino al conferimento nella destinazione finale» (che potrebbe non divenire mai disponibile, rendendo quindi eterno il deposito “temporaneo”), questa prima misura impallidisce rispetto all’altra. In questo caso si interverrebbe direttamente sul testo unico ambientale del 2006, consentendo la reimmersione in mare senza autorizzazione (cioè senza bisogno di preliminare caratterizzazione dei fanghi) «di materiali di escavo dei fondali dei porti e dei canali di accesso ai porti, ove tali materiali siano immersi all’interno del bacino portuale con modalità che evitino una loro dispersione al di fuori del bacino stesso».
Una deregolamentazione totale, con l’intenzione di eludere le norme sulla caratterizzazione, cioè sulle analisi per sapere quali inquinanti ci siano. «Anche sorvolando sul merito – commenta David Pellegrini, ricercatore di Ispra e coordinatore dell’Osservatorio creato dalla legge del 2016 proprio per verificarne gli effetti a medio periodo e apportare eventuali aggiornamenti – la modalità è però impropria e dannosa. Si vorrebbe modificare il testo unico ambientale del 2006, che deriva e risponde a norme internazionali, duplicando e ingarbugliando una previsione esistente, la possibilità cioè di reimmersione in mare di materiali di escavo portuale».
Economia circolare?
La confusione normativa non sarebbe l’unico problema: «È pericoloso muovere fanghi che non si sa cosa contengano, figuriamoci rigettarli in mare sia pure all’interno dei porti. La pretesa di evitare la dispersione dei contaminanti è utopia: molti si disciolgono in acqua e anche nei bacini portuali più chiusi lo scambio fra acque interne ed esterne è inevitabile e continuo», aggiunge Pellegrini. «La normativa del 2016 è un’applicazione del testo unico, improntata alla cautela. Sicuramente è perfettibile: essa stessa lo prevede con la creazione dell’Osservatorio cui partecipano Ispra, Cnr, Iss e le Arpa delle Regioni. Il lavoro è iniziato nel 2019 e sono già pronte alcune proposte di aggiornamento».
Anche perché c’è un’ulteriore e più complessa partita che si sta giocando. Come rilevato dalla stessa Ispra nella summenzionata audizione, buona parte dei sedimenti dragati, una volta caratterizzati e ritenuti di idonea qualità, può essere teoricamente reimpiegata in ambito marino e non solo: «In Italia però è ancora del tutto carente una norma, al di fuori dall’ambito dei rifiuti, che regolamenti il riutilizzo a terra o a mare (dopo opportune attività di trattamento per ridurre il possibile inquinamento) dei materiali dragati nei porti e nelle aree costiere». L’applicazione cioè di criteri di economia circolare è tutta da definire.
Insomma, conclude Pellegrini, oltre alle procedure per il riutilizzo da impostare, «ci sono senz’altro prassi da migliorare e snellire. Ma, come del resto la legge stessa prevede e come sta avvenendo, è a livello tecnico che si deve in ogni caso agire». Gli interventi a monte rischiano di essere quantomeno maldestri, siano proposte di legge dettate da più o meno espliciti interessi economici, siano – come si mormora – emendamenti al nuovo DL Semplificazioni appena varato dal governo Draghi al motto di «armiamoci e costruiamo».
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