A Milano nella notte tra lunedì e martedì sono caduti 31 millimetri d'acqua in un'ora e il Seveso è esondato allagando la parte nord della città. È un problema di consumo di suolo, ma arriva in un contesto in cui il clima è uscito dall’agenda globale. Intanto, su Nature viene pubblicata una delle analisi più cupe degli ultimi anni
A Milano nella notte tra lunedì e martedì sono caduti 31 millimetri d’acqua in un’ora e la città si è risvegliata con una visione familiare: l’esondazione del Seveso nei quartieri settentrionali, una linea della metro bloccata, strade come fiumi, sottopassi e stazioni allagate.
Sono scene che hanno in parte a che fare con le piogge più intense e violente da riscaldamento globale, anche se con l’attribuzione di singoli eventi al contesto climatico è giusto andare cauti, e hanno sicuramente un rapporto di causa effetto molto più diretto con l’altra emergenza, quella del consumo di suolo.
La Lombardia secondo gli ultimi dati Ispra nel 2022 è stata ancora una volta, e di gran lunga, la prima regione italiana per suolo impermeabilizzato.
Come spiega Paolo Pileri, docente di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, «un suolo non impermeabilizzato trattiene il 50 per cento dell’acqua, un suolo impermeabilizzato e cementificato come in Lombardia invece al massimo il 15 per cento. Tutto il resto dell’acqua rimane in superficie, si scarica nei piccoli canali e poi nel Seveso o nel Lambro, portando tutto a valle. In Brianza, dal sud di Lecco fino a Monza, la media di consumo di suolo è del 40 per cento, con punte del 70. È un’area che è una bomba, e tutto peggiorerà con le piogge sempre più intense che verranno».
Sofferenza climatica
Il punto non è stabilire se questo specifico evento meteo sia collegato al contesto climatico, ma capire che questo contesto climatico porterà sempre più eventi di questo tipo.
Riguarda Milano, che da decenni ha un problema con l’acqua e che ha subìto 118 esondazioni di varia taglia e misura dagli anni Settanta a oggi, con annate da record nel 2014 (sei esondazioni consecutive da luglio a settembre), nel 2018 (due metri e mezzo di acqua saliti in mezz’ora) e nel 2020.
La soluzione delle vasche di laminazione, le prime saranno pronte nel 2024, risponde a quella che Pileri definisce «la parte ingegneristica del problema», ma senza un rapporto diverso con il cemento avremo sempre più violenza da parte dell’acqua e sempre meno suolo in grado di trattenerla.
E Milano sta crescendo in sofferenza climatica: nel giro di tre mesi ha perso migliaia di alberi per i downburst di luglio, ha attraversato le ondate di calore dell’estate e ora si trova ad affrontare un autunno sott’acqua.
Nel silenzio
La perturbazione di lunedì ha fatto danni in Toscana, Emilia-Romagna e Veneto, ma sarà una settimana turbolenta per tutta l’Europa occidentale.
Sulla Francia e il Regno Unito sta arrivando la tempesta extratropicale Ciarán, che si abbatterà tra mercoledì e giovedì sulle isole britanniche, sulla Bretagna e la Normandia con la forza di un uragano, portando condizioni e rischi mai sperimentati prima in Inghilterra meridionale e Francia del nord, con un fronte che lambirà anche il nostro paese.
Ciarán è il secondo «mostro» fuori scala di questo autunno, dopo l’uragano Otis, altra geografia ma un’anomalia di portata simile. Otis è stato il più veloce uragano di sempre a raggiungere categoria 5, la più alta. È stato troppo rapido anche per mandare l’allerta, prima del colpo su Acapulco, sulla costa pacifica del Messico, con un centinaio tra morti e dispersi.
L’effetto dei singoli eventi è un fatto locale, che viene amplificato o contenuto dalla gestione del territorio, dalle specificità delle geografie, anche dal caso, ma il disegno generale è quello di un’emergenza scivolata di nuovo in fondo all’agenda. Anche il suo principale portavoce, il segretario dell’Onu António Guterres, dal 7 ottobre è stato risucchiato dalla tragedia di Israele e Gaza. A un mese dalla Cop28 di Dubai di clima sono tornati a parlare solo attivisti e scienziati.
Il tempo è poco
La scienza, proprio mentre Milano si stava per allagare, ha fatto uscire uno degli studi più cupi degli ultimi anni. È una ricerca pubblicata lunedì su Nature sul carbon budget, cioè la quota di emissioni che ci possiamo ancora permettere prima di superare la soglia di aumento della temperatura di +1.5°C, secondo la scienza del clima l’ultimo approdo sicuro prima di conseguenze imprevedibili.
Oggi siamo tra 1.1°C e 1.2°C, ma viaggiamo al ritmo di 40 gigatonnellate di CO2 emesse all’anno, che assorbono rapidamente il budget totale, che è di 250 gigatonnellate di CO2.
Di questo passo, senza una brusca frenata, rischiamo di consumare il budget nel giro di cinque, massimo sei anni. E poi saremmo in territorio inesplorato.
Quella pubblicata su Nature è l’analisi più completa e aggiornata su quanto possiamo ancora emettere, ma la chiamata all’azione in fondo allo studio è la stessa di tutti gli ultimi rapporti, dall’Ipcc all’Agenzia internazionale per l’energia: la finestra per evitare il peggio della crisi climatica è ancora aperta, però si sta chiudendo in fretta, il tempo è poco, le emissioni sono ancora troppe. Al momento però non sembra ci siano molte persone in ascolto.
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