Il parlamento norvegese ha votato una risoluzione per consentire l’esplorazione del potenziale commerciale delle miniere di profondità nelle proprie acque territoriali
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La Norvegia oggi è il paese al mondo più vicino a uno sviluppo commerciale delle miniere oceaniche di profondità, per estrarre i noduli polimetallici che contengono i metalli chiave della transizione energetica.
Il deep sea mining è la frontiera più ignota e rischiosa delle tecnologie per decarbonizzare ed elettrificare trasporti ed energia. Significa trasformare ecosistemi delicati e inesplorati in una prossima corsa all'oro con esiti industrialmente ed ecologicamente molto incerti.
Finora nessun paese aveva votato in parlamento una risoluzione per consentire l'esplorazione del potenziale commerciale di queste miniere nelle proprie acque territoriali. Il primo a farlo è la Norvegia, che si conferma una delle società più ecologicamente contraddittorie al mondo, una coscienza ambientalista diffusa e di massa costruita però sul benessere degli idrocarburi (la Norvegia è il quarto produttore di gas al mondo, dietro Stati Uniti, Russia e Qatar). Una contraddizione che nei prossimi decenni potrebbe essere trasferita ai fondali degli oceani.
La Norvegia apre così all'esplorazione per le miniere di profondità uno spazio marittimo di 280mila chilometri quadrati, un'area enorme sulla sua piattaforma continentale, una sorta di triangolo di oceano tra le isole Svalbard, l'Islanda e la Groenlandia. Da un punto di vista minerario, il potenziale è enorme: uno studio ha stimato che sul fondale di questo spazio marittimo (grande più della Gran Bretagna) ci sono fino a 38 milioni di tonnellate di rame (il doppio di quanto ne viene estratto ogni anno nel mondo), 45 milioni di tonnellate di zinco, oltre tre milioni di tonnellate di cobalto e 1,7 tonnellate di cerio, una terra rara. Il voto parlamentare norvegese apre una strada che sarà in ogni caso piuttosto lunga, per ora si parla solo di licenze di esplorazione.
Se dovessero andare a buon fine, l'estrazione vera e propria non comincerebbe prima del prossimo decennio. Tra le promesse del governo, c'è quella di consentire licenze di estrazione solo dopo accurate valutazioni scientifiche. Ma è la stessa comunità scientifica a chiedere che il processo si fermi ora, mentre siamo ancora in tempo e la macchina dello sviluppo di questa nuova industria non si è ancora avviata, perché dopo potrebbe essere troppo tardi.
Una lettera di oltre 800 scienziati aveva infatti chiesto una moratoria internazionale su qualunque licenza mineraria oceanica, anche di esplorazione, in attesa di conoscere meglio i rischi per la vita e gli equilibri ecologici. I ricercatori non mancano di sottolineare che quando apriamo una miniera terrestre, ne conosciamo già il contesto e i rischi, mentre l'oceano, oggi, nonostante enormi sforzi in questo senso, ci è ancora più ignoto della superficie della Luna: abbiamo mappe dettagliate solo per meno di un quarto dei fondali.
La Norvegia rischia di entrare in un conflitto politico anche con i vicini: sia il Regno Unito che diversi paesi europei sono a favore della proposta di moratoria. Con una mossa istituzionalmente insolita, 120 parlamentari europei avevano scritto una lettera aperta ai colleghi norvegesi per chiedere di votare no a questo avanzamento verso lo sviluppo commerciale delle miniere oceaniche.
Evidentemente, il tentativo non è andato a buon fine. Quello norvegese è anche un segnale sinistro per lo scenario legale globale su questo argomento. Sono anni che l'organismo preposto a farlo, l'Internazional Seabed Authority (affiliato alle Nazioni Unite e con sede a Kingston, in Giamaica), sta cercando di scrivere delle regole comuni su cosa si può fare e cosa non si può fare sui fondali oceanici di tutto il mondo.
La richiesta è partita da un altro stato che sembra interessato a fare business con questi noduli polimetallici, il piccolo arcipelago di Palau, nell'Oceano Pacifico, prossimo a una delle zone con il potenziale più grande, la Clarion Clipperton Zone. Il governo norvegese ha promesso che l'estrazione di questi metalli sarà permessa solo se l'industria «sarà in grado di dimostrare di poterlo fare in un modo sostenibile e responsabile». E non sembra la migliore o più solida delle premesse.
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