Un mercoledì sera qualsiasi su Retequattro, nel pieno delle settimane che hanno sconvolto l’Italia, tra ondate di calore, incendi e tempeste tropicali. Il programma è Zona Bianca, microcosmo come tanti di cosa sta diventando il discorso sul clima in Italia, della sua meccanica, dei suoi obiettivi.

Unico ospite scientifico, Franco Prodi, fisico dell’atmosfera, il negazionista più citato d’Italia, in grado di svariare dal ruolo di icona delle bolle complottiste alla festa dell’innovazione del Foglio, cacciato dal Cnr, ai margini della comunità scientifica da decenni ma sempre molto interpellato, con la sua tesi cardine: «L’affermazione secondo cui il 98 per cento del cambiamento climatico sia colpa dell’uomo è una balla colossale».

Prodi, collegato a distanza, si agita, dice che parlerà solo con scienziati del suo rango, si lamenta del format talk show, il conduttore Giuseppe Brindisi lo rassicura: «Non si preoccupi professore, siamo qui per stabilire la verità». 

Irrompe il direttore di Libero, Alessandro Sallusti, dicendo: «In studio sono il più titolato a parlare di scienza, sono perito chimico». Battuta sul fatto che il negazionismo climatico potrebbe diventare reato, «ci arresteranno tutti», risatine in studio.

Ad un certo punto arriva anche un video sui complottisti più spinti, il racconto della saldatura no-vax e i no-cambiamenti climatici, tre minuti sul legame tra scie chimiche e maltempo. Segue dibattito sul farsi la doccia la mattina.

Il giorno dopo, l’osservatorio europeo Copernicus certifica che questo è il luglio più caldo mai affrontato dalla civiltà umana, il segretario generale dell’Onu Guterres aggiorna anche il lessico, non più riscaldamento globale ma «ebollizione globale». Tutto questo su Retequattro non lo sanno.

La locanda dei negazionisti

È anche così che si parla di clima in Italia, davanti a oltre 600mila spettatori, con l’unico scienziato in collegamento a sostenere una realtà screditata dalla scienza. È un modo di riportare indietro di decenni il dibattito scientifico, perché un programma di quel tipo ha la stessa valenza di uno sulla forza di gravità o la sfericità della Terra.

Qualcosa è cambiato, negli ultimi mesi, lo abbiamo visto nel fastidio niente affatto nascosto con cui il conduttore e compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, ha tolto la linea all’inviata in Puglia colpevole di aver citato i rapporti Ipcc per collegarli all’ondata di calore, lo vediamo nei titoli a quotidiani unificati (Verità, Libero, Giornale) sugli «sciacalli dei nubifragi» o «gli stupidari del clima».

Il populismo mainstream ha trovato un boccone nuovo e lo sta spolpando, un boccone fatto di enormi interessi economici e politici, di paura e complessità da rifiutare. Può farlo perché ha trovato gli argomenti pronti e affinati da decenni di lavorìo.

Il negazionismo militante in Italia è un fenomeno carsico, che appare e scompare a seconda del contesto e delle esigenze politiche, ha i suoi nomi, i suoi indirizzi, le sue bolle.

A febbraio è apparso un delirante documento intitolato World Climate Declaration secondo il quale non esisterebbe nessuna emergenza climatica. È stato firmato da 1.500 «scienziati» e messo insieme da Climate Intelligence Foundation, un gruppo negazionista fondato in Olanda, con forti legami col partito alt-right Forum voor Democratie, guidato da Thierry Baudet, praticante attivo di varie forme di negazionismo, compresa quella originaria sulla Shoah (ha dichiarato il processo di Norimberga illegittimo).

Tra gli scienziati che sostengono le tesi di Prodi c’è una manciata di fisici, nessuno che si sia occupato direttamente di clima e poi una sorta di locanda da Guerre stellari di personaggi, compresi un cardiologo, un pescatore, un ingegnere dell’aria condizionata. Tutti nella categoria «scienziati».

L’Italia è il secondo paese con più firmatari dopo gli Stati Uniti, nell’elenco ci sono pensionati senza attribuzione, geologi dell’Eni, un antropologo, degli agronomi, un sommelier. E poi ci sono quei quattro, cinque nomi che girano da anni nella bolla negazionista: il geologo della Sapienza Alberto Prestininzi, il chimico Franco Battaglia, Prodi, il meteorologo Roberto Madrigali (già noto per aver organizzato convegni anti scientifici in un liceo di Grosseto).

L’identikit

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Stefano Caserini, docente di mitigazione climatica al Politecnico di Milano, segue da tempo il fenomeno col blog collettivo Climalteranti e ne traccia un identikit preciso.

«Il confine tra buona fede e malafede è sottile, non credo siano eterodiretti da nessuno, in gioco c’è una buona dose di narcisismo. Poi sono persone anziane, non troverete mai un ricercatore quarantenne negazionista, e nessuno che abbia mai pubblicato su questo argomento. Prodi si occupa di micrometeorologia, altri sono geologi o chimici, parlano di cicli astronomici ma non hanno mai provato a dimostrare le loro tesi nelle sedi opportune. Si presentano nel dibattito come scienziati, ma la verità è che sono opinionisti, le loro idee contano quanto le mie sulla medicina: zero».

Tra i social, convegni e sporadiche apparizioni tv, questi personaggi animavano il loro spettacolo da anni, perlopiù ignorati. Poi il clima è diventato la grande culture war contemporanea, e le loro tesi screditate e bislacche erano il carburante ideale, già pronto all’uso. Bastava giusto l’innesco di quotidiani, social e talk show.

La destra negazionista

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La scorsa estate, durante l’ultima campagna elettorale, Italian Climate Network aveva effettuato un’analisi comparata sui programmi dei partiti sul clima. I giudizi variavano per efficacia e profondità delle proposte, ma la notizia più importante era un’altra: nell’estate 2022 in Italia non c’era alcun partito con ambizioni di governo che avesse idee o tesi negazioniste.

Nella campagna elettorale ci si è accapigliati su altro, non sono state le «climate election» auspicate, il tema è rimasto ai margini, nonostante fosse l’annata della grande paura per la siccità, di un’ondata di calore che si sarebbe rivelata la peggiore mai affrontata dall’Europa e del collasso della Marmolada, ma almeno i toni erano stati sobri. Più indifferenza che polarizzazione.

Un anno dopo, in un’estate analoga per eventi estremi, lo stesso argomento è diventato una guerra tra bande. C’è un filo che lega il decreto rave di un anno fa alla retorica sugli «ecomatti» (Lega) o «fanatici ambientalisti» (Meloni): fin dai suoi primi giorni il governo è andato alla ricerca di un tema identitario sul quale compattarsi per dare colore al corso di un’azione politica prudente, schiacciata sul passato, con pochi margini di azione su qualsiasi altro ambito.

I rave erano un argomento troppo occasionale, sui migranti ci sono le richieste dell’economia da ascoltare e la figuraccia dopo la tragedia di Cutro troppo scottante, sull’Ucraina si marcia compatti, i temi Lgbtq+ affossati insieme alla legge Zan, mentre il clima era l’argomento d’attualità perfetto, quello in grado di combinare rabbia per le élite, paura per il futuro, conservatorismo anti-globalista, difficoltà dell’Italia a maneggiare temi scientifici e, appunto, tutta quella propaganda già pronta da usare.

È cambiata anche l’opposizione, la vittoria di Schlein avrebbe dovuto spostare, almeno formalmente, il Pd su una piattaforma più radicale sull’ecologia: non è ancora accaduto, ma anche solo la campagna delle primarie ha contribuito alla polarizzazione. E nel mirino ci sono le elezioni europee tra un anno, il vero orizzonte di questa propaganda, sia per cambiare gli equilibri nelle istituzioni europee sia per puntellare quelli della maggioranza. Il clima oggi è il grande galvanizzatore della destra.

Inattivismo

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Negli anni in cui i movimenti, a partire da Fridays for Future, avevano dominato il discorso pubblico, il negazionismo climatico sembrava un problema risolto, messo ai margini.

Il climatologo Michael A Mann, nel suo libro Le nuove guerre sul clima, aveva coniato un nuovo termine: inattivismo, la posizione di chi non nega la realtà dei cambiamenti climatici, ma contesta la velocità della trasformazione necessaria per rispondere a essi.

Il discorso sembrava essersi spostato dalla scienza, ormai apparentemente patrimonio condiviso, alle politiche sulla decarbonizzazione, non discutiamo più se esiste una crisi climatica, ma discutiamo su come reagire a essa, con quale velocità.

La realtà di quest’anno ci sta mostrando che il discorso sul «se» e quello sul «cosa» e sul «come» sono interdipendenti, negazionismo e inattivismo non si escludono a vicenda, anzi il secondo fa leva sul primo.

È più facile minare gli sforzi di transizione ecologica se si continua a lavorare sul dubbio, se si lascia spazio alle voci che provano a riavviare dibattiti scientifici ormai chiusi. Era sembrata inopportuna, se non altro per i tempi, la scelta di Eni di denunciare per diffamazione Greenpeace e ReCommon proprio durante una spaventosa ondata di eventi estremi che avevano colpito l’Italia, ma in realtà mostra bene il feedback reciproco tra inattivismo e negazionismo, un modo per lavorare la transizione ecologica ai fianchi.

Un inutile bagno di sangue

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Da un punto di vista politico, le principali battaglie anti transizione della destra italiana di governo negli ultimi mesi erano state quelle contro due politiche europee: la direttiva per il miglioramento dell’efficienza tecnologica degli edifici e il phase-out dell’auto a benzina e diesel al 2035.

Cornice retorica del discorso: gli ambientalisti di Bruxelles stanno venendo a prendersi quello che avete di più caro: la casa e la macchina. È più facile combattere questa battaglia, anche in vista delle Europee, in un contesto di nuova legittimazione del negazionismo perché, grazie alle intemerate televisive di Prodi & Co. il discorso diventa: stanno venendo a prendersi la vostra casa e la vostra macchina e non siamo nemmeno così sicuri che sia necessario.

Il precedente ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani, aveva parlato di transizione ecologica come «bagno di sangue», nel mondo di Meloni, Salvini, Giambruno, Verità, Prodi e compagnia, sta diventando un inutile bagno di sangue, uno sforzo vano perché i cambiamenti climatici ci sono sempre stati e non sono colpa vostra.

Un modo per fare leva su una doppia paura per il futuro, ambientale e sociale. «Il vero rischio è la saldatura tra gli interessi costituiti dello status quo e chi contesta la scienza per abitudine, paura o ignoranza», commenta Caserini.

Clima e disuguaglianze

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Secondo una ricerca della European Social Survey su 33 paesi europei, il negazionismo climatico puro in Europa balla tra l’1 e il 2 per cento della popolazione. Se aggiungiamo chi pensa che ci sia un cambiamento climatico ma che non si antropico, arriviamo all’8 per cento.

Un altro studio europeo sulla percezione climatica, del King’s College di Londra, aveva analizzato diversi paesi europei e aveva scoperto che gli italiani sono in media i più convinti che esista una crisi climatica causata dalle emissioni di CO2 (82 per cento contro una media europea del 74 per cento), con sempre con la stessa quota poco sotto il 10 per cento di persone che pensano che proprio non esista o che non sia causato da attività umane.

Un altro studio, il terzo rapporto Ital Communications-Censis, ha più recentemente messo questa quota al 16 per cento. Secondo un editoriale sulla rivista scientifica Pnas, «la visione dicotomica tra deniers (chi nega) e accepters (chi accetta) non aiuta i percorsi verso l’azzeramento delle emissioni, perché fa sovrastimare l’importanza dei primi e polarizza la società».

La polarizzazione attuale è un regalo a negazionisti e inattivisti, che così riescono a proiettare sulla nostra società un’ombra più grande delle loro reali dimensioni sociali. In Italia, secondo i dati di Eurobarometro, l’83 per cento delle persone considera i cambiamenti climatici un problema molto serio.

Gli ultimi due anni hanno sconvolto la retorica sulle prossime generazioni e cambiato i tempi verbali, dal futuro al presente. Gli italiani lo stanno vedendo che c’è un’emergenza, e d’altra parte gli eventi degli ultimi due anni sarebbero stati difficili da ignorare.

La sfida dell’ambientalismo politico dei prossimi anni è non perdere le persone spaventate dal clima e dalla transizione, non consegnarle al negazionismo climatico e all’inattivismo. In questa fase bisogna disaccoppiare la paura del problema clima dal timore per le soluzioni, per i costi, per gli sconvolgimenti sociali.

Non è un timore ingiustificato, il caso dei gilet gialli in Francia mostra quali sono gli effetti di una transizione non governata. C’è un solo modo per farlo, ed è avere il coraggio di trasformare il discorso sul clima in un discorso sulle disuguaglianze. Non basta ricordare che i costi dell’inazione sarebbero molto più alti, è un fatto vero ma politicamente non spendibile.

Senza redistribuzione del reddito, la transizione rischia di essere davvero un bagno di sangue, e la paura per il reddito sarà sempre più costante e persistente di quella per alluvioni o ondate di calore. Il clima è una roulette, la povertà è una certezza.

Il concetto di giusta transizione significa esattamente questo: mettere le persone socialmente più vulnerabili in condizione di affrontare un cambio di stili di vita brusco e veloce come quello richiesto dalla scienza.

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