- Questo è l’ultimo numero del 2021 di Areale, la newsletter ambientale di Domani.
- Proviamo a fare un bilancio dell’anno per il clima partendo dalla Grande Visualizzazione di Don’t Look Up.
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Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è l’ultimo numero del 2021 di Areale, la newsletter sul clima. Abbiamo percorso insieme un anno interessante e pieno di eventi, è arrivato il momento di fare un bilancio: a che punto siamo? Come guardare al futuro? Proviamoci.
La Grande Visualizzazione
Il 2021 si è chiuso con l’istruttiva conversazione collettiva su Don’t Look Up. È un film sui cambiamenti climatici che non parla di cambiamenti climatici, perché il regista Adam McKay li condensa in una cometa larga dieci chilometri in rotta di collisione verso la Terra.
Può piacere o non piacere (in generale è stato apprezzato nella bolla dell’attivismo), ma è interessante che il film più pop che sia stato fatto negli ultimi anni sul clima aggiri il clima in senso letterale e scelga di parlare piuttosto di noi, di come reagiamo alle crisi sistemiche (in realtà di come gli americani reagiscono alle crisi sistemiche).
La cometa avvistata dagli astronomi Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence ha una serie di vantaggi dei quali col riscaldamento globale non disponiamo: è un oggetto specifico, ha dei confini, è misurabile, procede secondo un conto alla rovescia uniforme, si avvicina in modo lineare. Sarebbe davvero tutto più facile se fosse così.
La cometa climatica pone dilemmi binari, come la palla che viaggia verso il battitore in una partita di baseball, puoi colpire o non colpire ma l’oggetto da respingere è davanti ai tuoi occhi.
Netflix, nella sua funzione di barometro culturale, ha puntato su questo film perché esprime un’esperienza collettiva reale: nel 2021 abbiamo davvero iniziato a visualizzare la crisi climatica, una minaccia che prima era stata capita in modo più teorico che pratico, compresa ma non vista, perché materia disaggregata di proiezioni, grafici e modelli, granulare, non lineare, contraddittoria.
Don’t Look Up ha avuto il successo che ha avuto anche perché il 2021 è stato l’anno nel quale il clima è andato più vicino che mai a cometizzarsi, passare da iperoggetto astratto a oggetto concreto, qualcosa con cui il nostro senso pratico sembra finalmente in grado di misurarsi. Non più ansia dell’invisibile ma paura del visibile.
Il 2021 è stato l’anno della Grande Visualizzazione. Proprio come DiCaprio e Lawrence, per la prima volta abbiamo visto la crisi climatica.
È l’anno zero della consapevolezza.
Un terzo di questa Grande Visualizzazione è frutto del lavoro dei movimenti per il clima: discorsi come quello di Draghi al Senato a febbraio o di Johnson a Cop26 («Siamo a un minuto dall’apocalisse», «Dobbiamo disinnescare la bomba») sono la loro vittoria culturale.
L’alleanza di scienza e attivismo in pochi anni ha fatto una formidabile opera di educazione di massa, almeno in occidente, ha insegnato alla politica e alle opinioni pubbliche come vedere una cometa lì dove c’erano solo dei fenomeni meteo.
Un secondo pezzo della consapevolezza è dovuto alla pandemia, a marzo del 2020 abbiamo imparato che le nostre società non sono involucri a prova d’urto, ci sono crisi che possono arrivare sull’uscio di casa e sconvolgere ogni cosa: prima del Covid non lo sapevamo (o potevamo fingere di non saperlo).
E infine l’ultimo pezzo della visualizzazione della cometa è stata la realtà in senso stretto. La crisi climatica ha iniziato a colpire in modo forte, diffuso e chiaro: sembra davvero che la Terra non sappia più come dircelo che non ci regge più.
Si potrebbero individuare diversi punti di rottura: le terribili inondazioni da centinaia di morti in Germania, Belgio e Cina, i grandi incendi forestali di Siberia (estate più secca della storia) e California (seconda peggior stagione degli incendi di sempre, la peggiore fu nel 2020), la siccità che ha inaridito tutti gli stati a ovest del 100esimo meridiano negli Stati Uniti, lo scricchiolio del ghiacciaio Thwaites in Antartide, che viene definito «dell’apocalisse» e si sta rompendo una crepa dopo l’altra come parabrezza di una vecchia auto.
Per l’Italia ci sono stati i roghi di Sardegna e Calabria e il Mediterraneo turbolento come un oceano, che ha assediato la Sicilia in autunno.
Se dovessimo individuare però il momento esatto in cui è avvenuta la cometizzazione della crisi climatica, quel giorno zero sarebbe il 30 giugno, quando sono arrivate le notizie della cupola di calore che ha colpito il villaggio di Lytton, British Columbia, Canada.
Le infografiche in rosso scuro riportavano quell’unico sensazionale dato, 49.6°C, l’esperienza del Canada diventa quella del Medio Oriente, un effetto speciale da disaster movie: in quelle settimane le autorità del British Columbia hanno aperto dei rifugi contro il caldo, centinaia di persone sono morte per stress termico e la stessa Lytton è stata spazzata via da un incendio. Una sceneggiatura quasi didascalica.
Secondo gli scienziati di World weather attribution, un gruppo di ricerca nato nel 2014 per collegare gli eventi estremi ai modelli climatici, il riscaldamento globale ha reso eventi come quella cupola di calore 150 volte più probabili. «È stata l’estate più estrema di sempre», ha detto il climatologo americano Jeff Berardelli.
Mancavano quattro mesi a Cop26 di Glasgow e il clima aveva mostrato le sue carte, certificate un mese dopo dal rapporto Ipcc, organismo scientifico collettivo dell’Onu nel ruolo degli astronomi DiCaprio e Lawrence.
Almeno la cometa veniva dai confini del sistema solare, un cosmico caso di sfortuna, l’Ipcc col suo Sixth assessment report sulla scienza del clima ha ribadito che siamo responsabili del 100 per cento dell’aumento di 1.1°C dall’era pre-industriale.
La domanda è cosa faremo col pochissimo margine che ci resta, 0.4°C, se vogliamo rimanere nella soglia di sicurezza di 1.5° (che abbiamo però la certezza di sforare entro metà secolo), o di 0.9°C, per l’ultima barriera prima della catastrofe, i 2°C di limite posti dall’accordo di Parigi.
Il 2021 ha dato risposte interlocutorie, a voler essere generosi. Dal punto di vista dell’azione climatica è stato tutto orientato a costruire l’avvicinamento alla conferenza sul clima di Glasgow a novembre.
Cop26 è andata ragionevolmente bene per chi segue le conferenze sul clima da Berlino 1995 e convive da decenni con i limiti di questo processo. Sono stati raggiunti risultati storici e impensabili fino a pochi anni fa, nel patto per il clima di Glasgow si parla di phase-down del carbone e fine ai sussidi pubblici a tutte le fonti fossili, c’è un’intesa sulla trasparenza e l’uniformità nel riportare le emissioni, ci sono regole nuove sui mercati di carbonio.
La Cop26 è stata però un disastro per chi ha visualizzato quest’anno la cometa nel cielo e non accetta più la lentezza intrinseca di un negoziato costruito per dare i suoi effetti nell’arco dei decenni.
Quanto essere soddisfatti per il livello relativo di riempimento del bicchiere è lo stesso problema che abbiamo nel giudicare la transizione ecologica italiana: le istituzioni e il governo hanno messo in piedi il miglior processo possibile con gli strumenti ereditati e costruiti per sfide diverse, cioè partiti senza competenze o interesse al cambiamento, un parlamento esautorato, una macchina pubblica nella quale gli interessi delle partecipate sull’energia e la loro resistenza al cambiamento hanno ancora un ruolo centrale e ineludibile.
Il patto sul clima di Glasgow prevede che i paesi aggiornino già nel 2022 i propri Ndc, quei nationally determined contribution che sono i contenuti con i quali si riempie la cornice dell’accordo di Parigi.
La prossima conferenza sul clima si terrà a novembre a Sharm El-Sheik, in Egitto, lì sapremo se e come paesi come Brasile, Cina, Russia, Australia, Indonesia avranno deciso di aggiornare gli Ndc e fare la propria parte. Sapremo anche se i leader di questo processo, gli Stati Uniti, l’Ue e il Regno Unito avranno deciso di assumersi la piena responsabilità del ruolo.
Glasgow ci ha mostrato che l’azione per il clima è soprattutto lotta alle disuguaglianze globali: non bastano pale eoliche e pannelli solari, chi vuole guidare il percorso deve anche mettere sul piatto le risorse per una transizione giusta.
La prossima Cop sarà africana e uno dei temi sarà l’adattamento. Servono risorse su una scala che la finanza come la conosciamo non è in grado di reggere, per questo una delle svolte che serviranno nel 2022 sono nuove regole che evitino ai paesi più vulnerabili di soffocare nel triplo nodo di clima, pandemia e debito.
Nel 2021 sono stati dieci gli eventi estremi costati più di un miliardo e mezzo di dollari in danni, il totale del conto presentato alle economie della Terra ha superato per la sesta volta dal 2011 i 100 miliardi di dollari in un solo anno.
Il centro di questa voragine è l’Africa: secondo World meteorological organization 118 milioni di africani saranno esposti a eventi estremi entro il 2030, l’adattamento costerà al continente tra i 30 e i 50 miliardi di dollari ogni anno da qui al 2030, poi si capirà in che mondo ci troveremo. Il tutto provando a evitare che la crisi si aggravi, rispettando gli impegni di Glasgow su deforestazione e metano, iniziando a mettere davvero mano ai sussidi alle fonti fossili.
Nel 2021 è arrivata la visualizzazione della cometa, ma è anche l’inizio nel decennio nel quale si decide più o meno tutto, è l’anno zero di un tempo breve, con pochissimo margine per agire.
Siamo arrivati alla fine: di questo numero di Areale e del 2021. Come è stato quest’anno per voi dal punto di vista del clima? Cosa avete visto? Cosa avete perso? In che condizioni è arrivata la vostra speranza, a questo punto della storia? Scrivetemi. L’indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, scrivete a lettori@editorialedomani.it
Ci sentiamo nel 2022!
Ferdinando Cotugno
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