- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter sul clima e sull’ambiente di Domani.
- Questa settimana parliamo di quel disastro che è successo in British Columbia, della nuova proposta europea sulla deforestazione e di Mia Amor Mottley, premier di Barbados e faro di un mondo nuovo.
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Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, una newsletter sul clima e l’ambiente che non ha mai l’obiettivo di terrorizzarvi o sfiduciarvi, parliamo di un’emergenza che può davvero essere attenuata e mitigata. Non è ancora la fine del mondo. Cominciamo.
L’ennesima tempesta del secolo
L’impatto della crisi climatica non è uniforme. Un riscaldamento globale medio di 1,5°C non significa che in tutto il mondo sarà di 1,5°C, ma che in alcune aree si potrà arrivare a 4°C o 5°C.
Allo stesso modo, la concentrazione di eventi estremi tende ad accanirsi in aree che per territorio, orografia e geografia tendono a essere più vulnerabili e a essere colpite da sintomi meteo che possono essere anche opposti.
Un clima stabile è sempre stabile allo stesso modo, i climi instabili sono tutti instabili a modo proprio. È tutto molto contraddittorio, lo so.
Un esempio è la Sicilia: dopo aver fatto registrare la temperatura più alta di sempre in Europa, è stata colpita da un autunno di perturbazioni violente. Un altro è la costa occidentale del Nord America, in particolare lo stato canadese del British Columbia, diventato uno dei ground zero dell’emergenza climatica.
Dopo i 49,6°C e i 500 morti per il caldo della scorsa estate, è arrivata la tempesta perfetta d’autunno.
Un fiume atmosferico potenziato ha rovesciato al suolo la pioggia di mesi in ventiquattr’ore, causando un disastro il cui costo economico è per ora quantificato in 790 milioni di dollari. È il disastro naturale peggiore nella storia del Canada, con una conta degli sfollati che al momento è arrivata a 18mila persone, alcune in aree remote e difficili da raggiungere. Praticamente il loss and damage interno.
La tempesta ha colpito le infrastrutture, paralizzando la città di Vancouver e la regione intorno per giorni. Centinaia di persone sono state recuperate da autostrade che si erano trasformate in torrenti in piena, attraversate da rocce, fango, alberi e detriti di ogni genere. I 7mila abitanti della città di Merrit hanno dovuto lasciare il loro villaggio per la seconda volta in quattro mesi: a luglio erano scappati dagli incendi potenziati dall’ondata di calore, ora sono state le alluvioni.
I disastri hanno peraltro la tendenza di potenziarsi a vicenda: i versanti senza più gli alberi andati in fumo sono diventati più vulnerabili alle frane causate dalle piogge intense.
«In un attimo tutte le macchine che erano sulla strada sono scomparse. Non riuscivo a crederci, un istante prima c’erano strade, macchine, persone, un battito di ciglia e non c’era più niente, nemmeno una ruota in vista, solo alberi e fango», ha raccontato il sopravvissuto a uno dei tanti crolli di versanti montani.
«Era come l’armageddon», ha detto un altro testimone alla Bbc. «Eravamo al buio, tutti a dormire in macchina, aspettando che tornasse la luce o arrivasse qualcuno».
In una serie di effetti sociali a catena che ricordano l’inizio della pandemia (o un brutto disaster movie) le persone hanno svuotato i supermercati, al punto che le forze dell’ordine hanno dovuto implorare i cittadini di comprare solo il necessario, ma il panico è panico.
Il disastro ha colpito un’area di allevamenti e fatto annegare migliaia di capi di bestiame: l’immagine di allevatori che provano a trainare con moto d’acqua improvvisate le mucche fuori dal fango e dall’acqua è quella che simbolicamente racconta meglio la tempesta perfetta del British Columbia, l’ennesimo caso di “episodio del secolo” che dobbiamo raccontare solo nel 2021.
La crisi climatica non può essere identificata come causa diretta di ogni episodio atmosferico, ma crea le condizioni perché questi episodi diventino sempre più frequenti e più estremi. Trasforma l’atmosfera in un contenitore di pericoli distribuiti in modo diseguale.
Coraggio.
La proposta europea contro la deforestazione: com’è?
Questa settimana la Commissione europea ha presentato la sua proposta contro la deforestazione. La aspettavamo da tempo e temevamo per la sua salute, dopo un percorso a ostacoli fatto di rinvii e interventi invasivi delle lobby di settore.
Dopo una Cop26 giocata in retroguardia e con una leadership molto curata retoricamente (tutti sappiamo ora che faccia ha la nipotina di Franz Timmermans) ma indebolita dalle mancate promesse sul Green Climate Fund, l’Europa prova a riconquistare credibilità con una proposta che arriva sull’onda di un forte mandato popolare: la richiesta di intervento arrivata via consultazione popolare da parte di oltre un milione di cittadine e cittadini: non fateci più mangiare le foreste.
Ne ha scritto Francesca De Benedetti su Domani: «Non protegge ecosistemi come savane e ambienti umidi, e pure dal lato dei diritti umani è giusto un assaggio. La strada per il consumo etico è ancora lunga. Il fronte ambientalista, dai Verdi europei a Greenpeace, ritiene la proposta Ue lacunosa. Quella di ieri è solo una tappa».
La logica della proposta è provare a eliminare (o almeno attenuare) il contenuto di deforestazione che c’è in una serie di prodotti che si consumano in Europa, lavorando dal lato della domanda: olio di palma, soia, cacao, caffè, carne bovina, legno, con la problematica assenza della gomma e di altre carni. L’obiettivo è avere filiere pulite attraverso la corporate due diligence, quindi controllate da importatori e mediatori, per far entrare nel mercato comune solo prodotti a deforestazione zero.
Bello, però le lacune sono pesanti: la produzione di gomma è costata di deforestazione 5 milioni di ettari, soprattutto nel sudest asiatico continentale e nell’Africa sub-sahariana. Inspiegabile che quel settore abbia schivato gli obblighi della proposta.
Il vuoto sui diritti umani è altrettanto problematico: le aziende importatrici non sono tenute a verificare che i terreni di produzione non siano stati sottratti alle comunità indigene oppure non siano oggetto di furti di terra. Non esiste sostenibilità ecologica senza sostenibilità sociale.
Si tratta comunque di una proposta che dovrà essere valutata dal Parlamento europeo e dal Consiglio, un passaggio dal quale potrebbe uscire rafforzata o indebolita.
Vedremo, si tratta di una prima verifica della serietà dell’impegno preso a Cop26 sull’azzeramento della deforestazione al 2030. In ogni caso, quella europea sarebbe la prima area del mondo a darsi questo tipo di regole sulla distruzione forestale contenuta nei consumi dei cittadini: guardare a quello che manca non deve farci perdere di vista il fatto che sarebbe un avanzamento enorme, soprattutto dal punto di vista del metodo.
E non è solo un fatto simbolico. L’Unione europea è uno dei principali importatori mondiali di deforestazione tropicale. Al primo posto c’è la Germania (43.700 ettari), al secondo l’Italia (35.800 ettari).
A margine, ma non così a margine, continuano ad arrivare numeri preoccupanti dal Brasile. Secondo i dati dell’Agenzia di ricerca spaziale (Inpe) la deforestazione ha raggiunto il livello più alto degli ultimi quindici anni.
Nell’ultimo anno di analisi, la distruzione forestale è cresciuta del 22 per cento rispetto al precedente, il dato più elevato registrato dal 2006, in netto contrasto con l’impegno brasiliano – preso a Cop26 – di azzerarla entro il 2030. Peraltro questi dati sono di fine ottobre, ma sono stati diffusi solo dopo il vertice di Glasgow, probabilmente per non mettere in difficoltà il governo, che aveva la delegazione più grande di tutta la Cop.
Nell’ultimo anno abbiamo perso 13.235 chilometri quadrati di Amazzonia, l’accelerazione è ripartita prima della presidenza Bolsonaro, che le ha però impresso sempre più forza e margine negli ultimi anni, dando spazio e libertà alle attività agricole e minerarie. Il presidente ha accusato Inpe di attentare alla reputazione del Brasile. È ironico, ma lo aveva detto davvero.
Il prossimo anno si torna al voto, saranno elezioni dall’enorme significato climatico.
Nuovi leader globali: Mia Amor Mottley
Come dicevamo la scorsa settimana, una conferenza Onu sul clima non va valutata solo in termini di impatto, ma anche di eredità, per capire quale futuro ci consegna. Per quanto riguarda Cop26, parliamo (anche) di un futuro nel quale emergono nuove leader globali, persone in grado di plasmare la geopolitica e la finanza parlando a nome di paesi molto piccoli e sì, sto parlando proprio di Mia Amor Mottley, primo ministro di Barbados.
Il suo discorso al World Leaders’ Summit è stato non solo quello più emozionante ma anche tra quelli con effetti più reali sul dibattito delle due settimane di Glasgow. Mottley si è fatta ascoltare dal mondo e ha preparato il terreno politico a rivendicazioni che plasmeranno il decennio.
Se la discussione è stata così improntata sulla finanza climatica, le disuguaglianze e il loss and damage lo dobbiamo anche ai suoi formidabili otto minuti di fronte ai capi di stato e di governo di tutto il mondo in assemblea plenaria.
È partita così: «La pandemia ci ha insegnato che soluzioni locali a problemi globali non funzionano». E poi è andata sempre meglio. Il discorso è qui, vi verrà da applaudire spesso:
Mottley, prima leader donna di Barbados dall’Indipendenza, ha ricordato che un aumento di 2°C non è la stessa cosa di 1,5°C. Un mondo di 2°C più caldo sarebbe una condanna a morte per paesi come il suo. Sono state forse le parole più forti a sostegno di 1,5°C come obiettivo unico.
«Il mondo si trova a un bivio, uno paragonabile a quello in cui si trovava quando le Nazioni Unite sono state create, nel 1945. Ma allora la maggior parte dei paesi qui presenti non esistevano. Oggi invece esistiamo. Il punto è che vorremmo esistere anche tra cento anni».
La condizione per l’esistenza in vita tra cento anni di posti come Barbados non è solo la mitigazione – quindi la riduzione e il progressivo azzeramento delle emissioni – ma anche la finanza, «servono nuovi strumenti finanziari, più flessibili, in grado di sostenere una crescita responsabile, resiliente e inclusiva». Senza questi flussi non c’è letteralmente futuro: è la lezione di Cop26.
La Dominica nel 2017 fu colpita dal tremendo uragano Maria, che impattò sull’isola per il 226 per cento del prodotto interno lordo. Come si esce da una cosa così?
È una questione di vitale e basilare sopravvivenza quella che ha posto Mia Mottley. Strumenti nuovi, in grado di erogare fondi in maggiore quantità, più rapidamente e senza aggravare il nodo del debito, altrimenti questi paesi non ce la possono fare.
Tra le sue proposte a Cop26 c’era quella di indirizzare l’1 per cento dei profitti del settore oil&gas a un fondo per il loss and damage, al quale possano accedere paesi colpiti da un disastro naturale che impatti su più del 5 per cento del Pil. Una proposta pratica e concreta, non è passata, ma ne riparleremo, come riparleremo di Mia Amor Mottley.
Qui c’è un profilo approfondito e ben scritto.
Un paesaggio, per salutarci
Chiudiamo con un po’ di bellezza, direi che ne abbiamo bisogno.
Sono uscite le foto vincitrici della prima edizione del Natural Landscape Photography Awards, promosso da Nature First, alleanza per una fotografia naturalistica responsabile. Qui potete dare un’occhiata a tutte le foto che hanno vinto: https://naturallandscapeawards.com/competition-results-2021/.
La mia preferita è questa, l’ha scattata Franka Gabler e ha vinto nella categoria Intimate & Abstract. È scattata nella Sierra Nevada orientale, negli Stati Uniti, e mi ricorda qualcosa di specificamente intimo, anche se non saprei mettere il dito su cosa. Forse voi sapete dirmelo, a cosa vi fa pensare.
Per questa settimana è tutto per Areale, per qualsiasi domanda, commento o critica, scrivetemi qui: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani invece l’indirizzo è questo: lettori@editorialedomani.it
A sabato prossimo!
Ferdinando Cotugno
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