- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter di Domani sul clima e l’ecologia.
- Questa settimana parliamo dei faticosi negoziati sulla biodiversità, dell’emergenza climatica come emergenza sanitaria, della sfida dell’Europa al fast fashion e della (poca) percezione del rischio da parte delle imprese italiane.
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Buongiorno, lettrici e lettori di Domani. Questo è un nuovo numero di Areale, una newsletter che prova a ricordare le ragioni del clima e dell’ambiente in un contesto in cui l’unica domanda sull’energia sembra ormai ristretta a “Quanto costa oggi?” (domanda importantissima), mentre il tema di “Quanto ci costerà domani. in termini climatici, ambientali, sociali, intergenerazionali?”, sembra stato cancellato nel giro di poche settimane. Il punto è che noi ci possiamo dimenticare del clima, ma purtroppo il clima non si dimenticherà di noi. E lunedì 4 aprile esce la terza parte del rapporto Ipcc, quella sulla mitigazione. In sostanza: i compiti a casa. Ci sarà da discutere, ma intanto partiamo.
La natura dimenticata
Sullo sfondo della guerra e della crisi energetica, c’è un altro negoziato internazionale che va avanti, pur essendo finito ai margini del dibattito: come affrontare la catastrofica perdita di biodiversità sulla Terra.
Anche la protezione della natura ha la sua convenzione Onu (La Cbd, Convenzione sulla diversità biologica) e il suo ciclo di Cop, le conferenze delle parti. Il 2022 è l’anno di Cop15, continuamente rinviata a causa della pandemia e programmata a Kunming in Cina, e soprattutto sarebbe dovuto essere l’anno del nuovo grande accordo internazionale sul modello di quello di Parigi per il clima, con l’obiettivo di fermare la sesta estinzione di massa. Al momento, questo accordo non potrebbe essere più lontano.
Questa settimana si è chiuso un round importante di negoziati a Ginevra, i primi tenuti in persona dopo un anno a parlarsi in remoto (l’ultima volta era stata subito prima della pandemia, nel 2020 a Roma), e la distanza tra le parti chiamate a trovare un accordo è ancora grande.
Come per il clima, l’orizzonte decisivo è quello della fine del decennio: mettere fine alla perdita di specie animali e vegetali entro il 2030. È un obiettivo che era stato già fissato per il 2020, con i venti target sulla biodiversità concordati ad Aichi, in Giappone, all’inizio del decennio scorso, tutti falliti, nessuno escluso. I governi sembrano in linea sui princìpi generali, ma non potrebbero essere più distanti sui contenuti e sul funzionamento pratico di questo accordo.
I punti di conflitto principali sono: l’estensione delle zone protette al 30 per cento della terraferma e degli oceani (oggi siamo rispettivamente al 16 per cento e all’8 per cento), uno stop ai sussidi verso le attività economiche che danneggiano la biodiversità, i fondi per fare questa transizione ecologica, le regole per un’equa condivisione globale delle risorse genetiche. La discussione su questi temi, secondo Guido Broekhoven, head of policy di WWF International, è andata «col passo di una lumaca» a Ginevra. I governi non riescono a chiudere l’enorme gap tra una bozza senza ambizioni, attualmente sul tavolo, e la scala della sfida.
Uno dei temi più controversi (e importanti) è come ampliare la sfera di protezione della biodiversità senza violare i diritti delle comunità indigene, che spesso vivono proprio delle e sulle terre che si metterebbero sotto tutela. In passato, infatti, la creazione di aree protette integrali in Asia, Africa, Sudamerica, è andata a colpire i 370 milioni di nativi, e questo è il motivo per cui l’obiettivo 30 x 30 (30 per cento di protezione entro il 2030) ha avversari anche tra i rappresentanti di questa parte della popolazione umana, come la ong Survival International.
Il Novecento ci ha insegnato che è difficile tutelare contemporaneamente la natura e le persone che vivono di quella natura in modo sostenibile, i negoziati di Ginevra hanno confermato questa difficoltà: sia la Russia che la Cina (il cui ruolo è centrale, visto che ospiterà e guiderà la fase finale del negoziato, intestandosi il risultato) si sono opposte all’inserimento nel testo finale dei diritti umani delle popolazioni indigene e delle comunità locali e del riconoscimento al loro ruolo di principali protettori degli ecosistemi (che ormai invece è un dato di fatto per la letteratura scientifica).
Il paradosso è che le comunità indigene oggi proteggono l’80 per cento della biodiversità accedendo a solo l’1 per cento dei fondi globali per farlo. La finanza è un altro dei temi cruciali che in questo momento rallentano il negoziato sulla biodiversità.
C’è un blocco di paesi che chiedono un flusso annuale di fondi per la biodiversità da 100 miliardi di dollari all’anno. Sarebbe il gemello del travagliato Green climate fund, che dopo anni ancora non ha raggiunto la quota prevista dagli accordi internazionali sul clima. I paesi con più diversità chiedono anche una compensazione economica per l’uso industriale che viene dal sequenziamento delle loro risorse genetiche per fare vaccini, terapie mediche, prodotti agricoli geneticamente modificati, sostanze per l’industria alimentare.
I prossimi round di negoziato saranno a Nairobi, in Kenya, tra il 21 e il 26 giugno, prima della Cop15 vera e propria in Cina, che si terrà entro la fine dell’anno, dopo essere stata rinviata già due volte, anche per la difficoltà di tenere un vertice internazionale in un paese con regole Covid così rigide.
La crisi climatica è una crisi sanitaria
Negli ultimi anni sono state dichiarate queste emergenze sanitarie internazionali dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità: l’influenza H1N1, l’Ebola, la poliomielite, il virus Zika e il Covid-19. Secondo Public policy projects questo elenco dovrebbe includere anche i cambiamenti climatici. Le scuole di medicina devono iniziare a inserire la crisi climatica nei loro percorsi di studio, preparando il personale medico e infermieristico ad affrontarne le conseguenze che arriveranno, soprattutto in relazione alla capacità di intervenire tempestivamente sui rischi delle ondate di calore.
Questo passaggio vale anche per la comunicazione pubblica: servono campagne per informare su cos’è un’ondata di calore, come ci si prepara, come si comporta. L’Oms dovrebbe inoltre lavorare a migliorare la comprensione politica e pubblica dei benefici che arriverebbero dalla transizione energetica. E serve più attenzione alla salute mentale, psicologi e psicoterapeuti devono iniziare a formarsi per aiutare le persone atterrite e preoccupate dalla scala della crisi climatica. Qui per leggere tutto il report.
La fine del fast fashion in Europa? (Non ancora)
La Commissione europea ha presentato nell’ultima settimana di marzo la sua strategia per mettere fine entro il 2030 al fast fashion, la versione del «single use» per l’industria della moda. È l’inizio di un percorso legislativo lungo, di solito le proposte della Commissione sono più ambiziose di quello che poi sarà possibile mettere in pratica dopo il confronto con i singoli paesi dell’Unione, ma è comunque interessante capire quale sarà la visione che orienterà l’Europa per restituire dignità al concetto di sostenibilità (parola che ci è stata rubata e che dovremmo imparare a reclamare).
Innanzitutto, le dimensioni del problema: tre quarti dei prodotti tessili immessi sul mercato europeo sono importati, per un valore di 80 miliardi di euro all’anno. Arrivano soprattutto da Cina, Bangladesh e Turchia. Ogni anno un consumatore europeo in media butta via 11 kg di vestiti. Globalmente, la moda è la quarta industria per emissioni di gas serra e la terza per consumo di risorse idriche.
La Commissione propone una serie di obiettivi, come un minimo obbligatorio di fibre riciclate per ogni capo di abbigliamento, oppure un divieto per la distruzione dei prodotti tessili non venduti, o almeno l’obbligo di dichiararne le quantità. I vestiti dovranno avere un’etichetta che dica ai consumatori, in modo certificato e non arbitrario, quanto è davvero sostenibile e riciclabile quello che stanno acquistando.
La strategia affronta il problema anche dal punto di vista dell’offerta, provando a fissare degli standard di eco-design, quindi prodotti pensati per avere una vita più lunga di quella che hanno oggi e per essere fabbricati con standard diversi di efficienza energetica. L’idea è di creare una vera economia circolare dell’abbigliamento: promuovere oggetti che durino di più, che siano più facili da riciclare e reimmettere nel sistema, riducendo gli sprechi o i viaggi verso le discariche. «Dobbiamo spezzare il ciclo di “compra, rompi, butta via” che è così nocivo per l’ambiente, la salute e l’economia», ha spiegato il vice presidente della Commissione Franz Timmermans.
Al momento il piano è tanto ambizioso quanto vago, non ci sono dettagli su cosa e come cambierà, la strategia è più un libro delle intenzioni che altro. Secondo il Guardian i primi prodotti a essere regolamentati non saranno nemmeno i vestiti ma tappeti e materassi, e su alcuni sarà molto difficile proporre regole efficaci (viene fatto l’esempio dei calzini) (Calzini canaglia per il clima?).
In questo pacchetto sostenibilità della Commissione ci sono anche altri due obiettivi ancora più complessi e ambiziosi: la fine dell’obsolescenza programmata dei dispositivi elettronici e del greenwashing come standard della comunicazione tra aziende e consumatori. «I prodotti che usiamo ogni giorno devono poter durare. Se si rompono, dobbiamo poterli riparare. Uno smartphone non deve perdere le sue funzioni. I vestiti devono durare più di tre lavaggi», ha detto Timmermans. Diciamo che le intenzioni sono quelle giuste, vedremo l’implementazione (e il dialogo con i paesi membri, che è sempre la fase più delicata, come stiamo scoprendo con il pacchetto Fit for 55). Qui più dettagli.
La percezione del rischio
È quasi logico, eppure è un’idea che come paese e come sistema economico ancora non riusciamo a focalizzare o mettere in cima alle priorità: vivere in un contesto di crisi climatica richiede anche un atteggiamento completamente diverso nei confronti dell’idea di rischio, dei suoi tempi, dei suoi impatti. Ne ho discusso con una persona che ha fatto del rischio e della sua gestione da parte delle aziende il proprio orizzonte professionale, Paola Radaelli, vice presidente di Anra – Associazione nazionale dei risk manager.
È stata una conversazione interessante e istruttiva. Ci sono diversi settori del rischio imprenditoriale su cui lavorano persone come Radaelli, e non è difficile immaginare quelli proposti dal tempo presente: la pandemia, la guerra in Ucraina, la crisi energetica. Con lei però ho scelto di focalizzarmi sull’emergenza climatica. «La capacità di vederla e reagire in tempo dipende ancora molto in Italia dalla sensibilità delle singole persone», mi ha spiegato. «La sostenibilità è un tema che sta da tempo a cuore alle aziende, però il loro orizzonte temporale va sui cinque, dieci anni, l’impatto dei cambiamenti climatici è su un arco di tempo molto più lungo, quindi è una valutazione complessa da far passare con chi deve fare degli investimenti per adattarsi a questi rischi».
Insomma, al momento per l’economia italiana prepararsi a un contesto di clima instabile è ancora considerato opzionale ed è anche una questione di mentalità individuale, lungo la faglia tra chi ha capito e chi non ha capito le ripercussioni che ci saranno per ogni settore. Non c’è una visione di sistema.
Sotto questo aspetto, il mondo economico italiano nella sua interezza somiglia a quello politico: riesce solo a ragionare su un tempo più breve di quello che sarebbe necessario per visualizzare quanto tutto è destinato a cambiare. «Sono cambiamenti lenti, anche dal punto di vista scientifico e culturale», mi ha spiegato Radaelli, «La discussione che c’è stata sul climate change ha influenzato la percezione degli imprenditori, veniamo da anni in cui c’erano ancora contestazioni sulla realtà stessa dei cambiamenti climatici». I rapporti Ipcc hanno ormai attestato che c’è un consenso assoluto nella comunità scientifica sul fatto che il clima sta cambiando e che lo sta facendo per mano umana, ma lo strascico del negazionismo è proprio questa diffidenza al tema che si riscontra nel mondo dell’economia italiana.
Un ponte fondamentale per passare dalla visione del presente a quella del futuro sarebbero i dati. La scienza del clima ci offre ormai un quadro completo e articolato rispetto a quello che possiamo aspettarci nel futuro ma, secondo Radaelli, «quelli che abbiamo sono ancora dati troppo macro rispetto alle esigenze di comprensione che hanno le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, che non hanno la forza di prodursi da sole le informazioni di cui avrebbero bisogno per agire. Mi capita di andare in aziende con un consumo idrico elevato: ogni volta ricordo quanto sarà carente la risorsa in futuro, quello che mi rispondono è che oggi per loro di acqua ce n’è fin troppa». Ecco.
È come parlare due lingue del rischio diverse, perché i piani temporali per il ragionamento sono sfalsati, perfino sull’acqua, un tema che ormai non si può che declinare al presente, visti i tre mesi di siccità invernale anomala che ci sono stati al nord-ovest d’Italia. Se la difficoltà ad avere una lettura ampia dei rischi della crisi climatica è così diffusa, l’economia italiana ha sicuramente un problema, anche perché l’adattamento richiederà tempo, risorse, programmazione, strategia. La guerra in Ucraina ha insegnato esattamente questo: i costi altissimi dell’incapacità di prevenire le crisi.
Per questo numero di Areale è tutto, grazie come sempre per avermi letto fin qui. Per comunicare con me, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per parlare con Domani, invece, l’indirizzo è lettori@editorialedomani.it
Alla prossima!
Ferdinando Cotugno
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