- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter settimanale sul clima e l’ambiente.
- Proviamo a fare chiarezza sulla tassonomia europea dell’energia, parliamo di microplastica, cetacei ed ecosistemi, dei dati satellitari sugli incendi nel 2021 e di lamantini che muoiono di fame.
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Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter per leggere insieme la crisi climatica e le soluzioni che abbiamo per contrastarla. Cominciamo.
La partita della tassonomia europea
La parola del giorno è tassonomia. Parola bellissima. Viene dal greco, «ordine, disposizione». È la classificazione di tutto quello che esiste, per esempio ci dice cosa è un uccello o cosa è un mammifero, cosa è una latifoglia e cosa è una conifera.
Ne parliamo in questa sede perché a livello europeo tassonomia ci dice anche cosa è un investimento sostenibile e cosa non lo è, cosa ci aiuta a combattere la crisi climatica e cosa la aggrava.
È il dibattito del momento: la Commissione sta per emanare un atto delegato che stabilirà se per l’Unione il nucleare e il gas possono essere considerati investimenti verdi. Se ne parla convulsamente da settimane, aspettiamo la decisione prima di Natale. È importante. Cambierà la geografia, la politica e la percezione dell’energia in Europa, anche al di là dei limiti per i quali era stato concepito questo strumento.
Mettiamo un po’ di ordine (con l’aiuto fondamentale di Davide Panzeri di Ecco Climate).
La prima domanda da farsi è questa: a chi è rivolta la tassonomia energetica della Commissione? Ecco, è rivolta agli investitori privati che hanno intenzione di puntare su fonti di energia sostenibili, compatibili con il Green Deal e gli obiettivi dell’accordo di Parigi.
È importante per due motivi. Il primo è che nessun obiettivo climatico può essere raggiunto se non si tira a bordo la finanza privata. Il secondo è che la finanza privata ha bisogno di chiarezza, qualcuno che dica al fondo pensione (esempio): questo è un investimento green, puoi farci affidamento, sia per motivi etici, che di reputazione, che di sostenibilità economica.
A questo serve la tassonomia: è una mappa di cose che possiamo dare per certo che ci saranno nel futuro sostenibile che stiamo provando a costruire.
Questo è un aspetto importante: la tassonomia è uno strumento tecnico, che i paesi europei oggi stanno usando invece in modo politico, è diventato insieme innesco e totem di un dibattito continentale su cosa serva o no alla transizione energetica. Non è mai stato lo spazio e lo strumento per avere questo tipo di confronto politico tra i diversi paesi, ma lo è diventato e così dobbiamo trattarlo.
È anche il motivo per cui la Commissione ha accelerato la discussione: vuole risolvere la partita prima che inizi il confronto sul tema che giudica più importante, ovvero il negoziato tra i vari paesi sul Fit for 55, le gambe e le braccia del Green Deal europeo, le politiche che servono a tagliare le emissioni del 55 per cento in nove anni.
Altra cosa da tenere a mente: la tassonomia è uno strumento aperto, che può e deve essere costantemente aggiornato.
Dunque, oggi si discute se la tassonomia sul fronte dell’energia debba includere il gas e il nucleare come fonti green. Diciamo subito che dal punto di vista tecnico, cioè l’unico che dovrebbe contare, il gas e il nucleare non dovrebbero esserci. Tra i parametri per cui era stata pensata la tassonomia ce ne sono due che escludono queste fonti di energia. Il gas dovrebbe essere fuori per il limite di 100 grammi di CO2 per ogni kw/h ora prodotto (siamo al quadruplo, col gas). Il nucleare dovrebbe essere fuori per il parametro del non arrecare danni significativi con la sua produzione.
I gruppi di esperti che sono stati coinvolti come consulenti hanno chiesto infatti che il gas sia fuori e che sul nucleare venga fatto un supplemento di indagine prima di decidere.
In realtà, tutti i segnali vanno in una direzione opposta: prima di Natale avremo una tassonomia europea con dentro sia gas che nucleare come fonti che ci aiutano a rimanere nell’accordo di Parigi. Perché? È politica.
Tutto nasce dalla posizione francese, che ha forti interessi sull’energia nucleare e che ha costruito una strana alleanza tra i paesi dell’atomo (c’è anche la Finlandia) e quelli che puntano al gas per uscire, alle loro condizioni, dalla dipendenza dal carbone (paesi dell’est Europa).
È una specie di patto di non belligeranza per cui i paesi che vogliono che il nucleare sia considerato verde appoggiano anche il gas e i paesi che vogliono che il gas sia considerato verde appoggiano anche il nucleare.
Tutto è stato reso possibile dall’ambiguità strategica della Germania (che ha forti interessi sul gas, ma ha anche un cambio di governo in corso e un ruolo pesante per i Verdi) e dell’Italia (che punta molto al gas, flirta pubblicamente col nucleare ma ha lasciato agli altri il lavoro politico sporco per poter passare all’incasso dicendo: ha deciso l’Europa, noi dobbiamo rispettare le regole europee).
Tra i contrari c’è l’Austria, che ha anche promesso azioni legali in caso di tassonomia manomessa, e la Spagna, che però ha proposto uno di quei compromessi tipici della Commissione, una sorta di ammissione di nucleare e gas con riserva.
Per concludere, uno strumento tecnico è diventato uno spazio di dibattito politico e oggi pone un problema politico di credibilità sulla leadership europea della transizione ecologica. Rischiamo di avere una tassonomia più debole di quella di Russia e Cina, non un bel modo di presentarsi alla prossima Cop in Egitto.
Zattere di plastica e l’ostinazione della natura (e un libro bellissimo)
Ora parliamo di plastica. Le regine dell’abisso (Aboca) è un libro di Rebecca Giggs e parla dell’argomento più interessante che ci sia: i cetacei.
Ci sono alcune pagine dolorose da leggere, quelle sui rifiuti oceanici. Il beluga dell’estuario di San Lorenzo in Canada è così contaminato che la sua carcassa è stata classificata come rifiuto tossico da smaltire (a proposito di tassonomie). Un capodoglio è stato ritrovato sulla costa spagnola con una serra, una serra intera, dentro la sua pancia. La serra veniva da una coltura idroponica di Almería e racchiudeva «tele cerate, pompe da giardino e corde, vasi di fiori, una bomboletta spray e frammenti di juta».
L’animale più inquinato della Terra è l’orca che vive nello Stretto di Puget, un luogo in cui attualmente le stelle marine sono straziate da una malattia che induce le loro braccia a staccarsi dal corpo.
«L’esposizione infinitesimale si accumula nel corso delle stagioni», scive Giggs nel libro, «rendendo alcuni esemplari più inquinati dell’ambiente stesso. Il che ci porta abbastanza lontano, mi pare, dal nostro solito modo di pensare all’inquinamento, come qualcosa che pervade un paesaggio o aleggia nell’atmosfera attraverso cui, e al cui interno, si muovono gli animali, carichi di una minore malignità rispetto al circondario. Vedere gli animali come inquinamento è preoccupante e al tempo stesso sorprendente».
Le parole di Giggs fanno da contrappunto a una nuova ricerca pubblicata su Nature che, per usare le sue parole, è al tempo stesso preoccupante e sorprendente.
Da tempo sappiamo che le correnti hanno creato questi enormi assembramenti di plastica negli oceani, la più nota è il Great Pacific garbage patch, un vortice di spazzatura nel Pacifico settentrionale pieno di schifezze alla deriva aggregate nella stessa area dai flussi marini convergenti.
Lo studio dello Smithsonian environmental research centre ha appurato che questa nazione acquatica composta dai nostri rifiuti è diventata a sua volta una specie di ecosistema, sul quale vivono anemoni, molluschi, granchi. Il 90 per cento della superficie del Great Pacific garbage patch è abitato da qualcosa di vivo ed è incredibile.
Al di là della pervasività del nostro inquinamento e anche dell’ostinazione della natura a sopravvivere nei punti più tossici dell’areale umano, c’è anche il pericolo – sottolineato dai ricercatori – che queste zattere di plastica possano trasportare specie invasive in giro per il globo, aggiungendo devastazione a devastazione.
Non ci dovrebbe essere vita sul Great Pacific garbage patch perché non ci dovrebbe essere una nazione della plastica in mezzo all’oceano.
I dati satellitari sugli incendi sono molto brutti
I grandi incendi forestali sono diventati la punteggiatura della crisi climatica. Sul mio computer c’è attaccato un adesivo che dice May the forest be with you, il problema è che spesso le foreste non sono con noi e che questi roghi sono contemporaneamente vivi, visibili ed evidenti, ma anche rimossi, perché avvengono nelle aree più remote della Terra, quelle che hanno spazio, nutrimento e carburante per dare vita a un fuoco che ormai esiste sulla scala dell’impensabile.
Sono usciti i nuovi dati di Copernicus atmosphere monitoring service, l’osservatorio climatico dell’Unione europea, che hanno misurato un effetto invisibile e terribile di questi incendi, oltre alla loro obiettiva distruzione di ecosistemi: le emissioni di CO2.
L’atmosfera è l’unica realtà che conta per il clima e contiene verità preoccupanti. Nel 2021 è come se avessimo aggiunto altri due paesi delle dimensioni della Germania (quindi, grossi) ai calcoli che ci avvicinano al precipizio climatico: gli incendi quest’anno hanno emesso 1,76 miliardi di tonnellate di CO2.
I punti di pressione più caldi del fuoco sulla realtà dell’atmosfera sono stati Yakutia (Siberia orientale), la Turchia, la Grecia, la Tunisia e l’ovest degli Stati Uniti. La Terra sta bruciando, letteralmente.
L’ultima spiaggia del lamantino
Come si riconosce un lamantino che sta morendo di fame: le costole premono contro la pelle, vengono più del normale in superficie a respirare, non riescono a stare in equilibrio, oscillano sempre su un lato.
Al largo della Florida è in corso una delle tante crisi di biodiversità globali, un problema che sta prendendo anche una piega simbolica che va al di là del destino di una singola specie in uno specifico tratto di oceano, una nuova pagina sul danno umano e l’intervento per rimediare.
Il 2021 è stato un anno terribile, da quelle parti, se si è un lamantino: circa mille sono morti di fame, l’erba marina della quale si nutrono è stata uccisa nell’area dove vanno a svernare, la Indian river lagoon, dai rifiuti che provengono dalla costa, in particolare da pesticidi e fertilizzanti agricoli.
È un problema in corso da decenni e l’unica soluzione per evitare che la popolazione si azzeri sembra essere lasciare del cibo in acqua per farli mangiare, soprattutto cavolo e lattughe, che sono più o meno simili a quello di cui si nutrono di solito.
Sembra una soluzione facile e pratica, in un certo senso è una soluzione facile e pratica, ma è anche una linea rossa che i conservazionisti non superano mai, quella di nutrire artificialmente specie selvatiche, perché un animale che si fa nutrire dagli umani perde l’abilità di farlo da solo, sviluppa dipendenza, perde istinto, smarrisce i pattern migratori, e insomma non è quasi mai una strada praticabile per salvare una specie o una popolazione.
Ma i lamantini stanno, appunto, morendo, in massa. La popolazione è di 8mila esemplari, al ritmo di mille all’anno non rimane molto tempo. E così il pranzo arriva da terra.
Una lettera da Extinction Rebellion
In questa settimana, attiviste e attivisti di Extinction Rebellion hanno fatto una serie di blocchi stradali a Roma, come atto di una campagna di disobbedienza civile per chiedere attenzione e azione alla crisi climatica.
Ho chiesto a una di loro di raccontarmi il senso di questo tipo di protesta. La parola a lei. Per il contesto sulla storia di questo movimento, avevo scritto questo.
«Mi chiamo Agustina, ho 25 anni. Lunedì 6 Dicembre mi sono seduta per strada, sul Grande raccordo anulare a Roma, bloccando il traffico per circa un’ora e mezza, con altre sette persone. Otto corpi che, con attitudine di assoluta non-violenza, sono stati disposti a sentire ogni tipo di insulto, a rischiare di essere pestati e trascinati via dalla polizia.
Abbiamo passato la giornata in questura, dove ci hanno denunciati e dato otto fogli di via. Due anni fa non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione simile, mi sembra quasi surreale, ma non avevo capito quanto la mia vita e quella delle persone che amo fosse a rischio.
Due anni fa, prima di entrare in Extinction Rebellion, pensavo che “essere ambientalista” o lottare per la giustizia climatica riguardasse più una sorta di dovere morale, una lotta giusta da combattere per l’uguaglianza e la libertà di tutti, soprattutto di chi è meno privilegiato. Oggi sentire che ci chiamano “i giovani ambientalisti” mi crea angoscia perché mi sembra che non si percepisca che, quando si parla di crisi climatica ed ecologica, quello che intendiamo è un collasso delle società come le conosciamo.
Lunedì ho avuto paura. E mi sentivo mortificata per tutte le persone che erano bloccate lì, giustamente confuse e arrabbiate anche perché non riuscivo a far arrivare loro un senso d’amore con ciò che stavo facendo.
Ho provato dolore quando una giovane mamma, di circa la mia età, dopo vari insulti ci ha urlato “se voi aveste dei figli non sareste qui e magari capireste cosa vuol dire avere un senso di responsabilità verso qualcun altro”. Avrei voluto abbracciarla e dirle che ero seduta lì proprio per un senso di responsabilità anche nei confronti dei suoi figli e dei figli che vorrei ma che forse non avrò mai perché non saprei nemmeno come dargli da mangiare in un contesto così terribile che ci aspetta.
Vorrei che questo non fosse necessario. Ma la comunità scientifica ha lanciato un allarme rosso: abbiamo circa 3/4 anni per fare un cambio di rotta radicale e fermare gli effetti peggiori di questo collasso già in atto. Non è catastrofismo. Scienziati, sociologi ed esperti di tutto il mondo si sono espressi, e lo fanno da più di trent’anni. Ma ogni tentativo di fare pressione sui governi per andare verso uno stile di vita sostenibile sul piano ambientale, sociale ed economico è stato fallimentare. Le manifestazioni classiche non bastano per chiedere il cambiamento, ora lo dobbiamo pretendere perché non c’è più tempo.
La storia insegna che per superare delle crisi importanti in poco tempo è necessario che tantissime persone si organizzino e facciano disobbedienza civile non-violenta, per forzare i governi a intraprendere azioni radicali per tutelare il nostro futuro.
La campagna Ultima Generazione del movimento chiede di istituire delle assemblee di cittadine\i che siano deliberative rispetto alle migliori soluzioni da adottare per affrontare la crisi eco-climatica. Assemblee guidate dall’aiuto degli esperti della comunità scientifica che affianchi il sistema politico esistente. Abbiamo bisogno di una democrazia più partecipativa, perché dobbiamo affrontare tutte e tutti, consapevoli, la più grande sfida nella storia dell’umanità».
Siamo arrivati alla fine anche questa settimana. Come sempre, se volete proseguire la conversazione, se avete spunti, dubbi, domande, punti di vista o critiche scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani invece la mail è lettori@editorialedomani.it.
Grazie e buon sabato!
Ferdinando Cotugno
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