La crisi climatica ci spinge a ripensare il nostro consumo di prodotti animali. Non tanto modificando le nostre tradizioni culinarie ma modificando drasticamente la dieta quotidiana.
Gli allevamenti intensivi sono responsabili del 14,5% delle emissioni di gas serra, una percentuale simile a quella dei trasporti.
Per produrre un kg di carne bovina si emettono 60 kg di gas serra, 25 per quella ovina e 21 per il formaggio. Nel frattempo i consumi sono raddoppiati negli ultimi trent’anni.
E’ necessario ridurre drasticamente il consumo di carne e rendere obbligatoria la dicitura “da allevamento intensivo” sull’etichetta dei prodotti di origine animale
Può esistere un capodanno senza cotechino? Per rispondere a questa domanda, dovremmo chiederci cosa rappresentano per noi i cappelletti, il bollito, le lasagne e, appunto, il cotechino, ovvero quella infinità di piatti della tradizione del nostro paese, che hanno reso il Made in Italy famoso in tutto il mondo.
Immaginare una vigilia senza pesce, un cenone senza carne, un antipasto senza una fetta di salame, sembra quasi impossibile, un oltraggio anche il solo pensarlo. Perché in fondo, il Natale è questo: una tavola imbandita dove ogni famiglia mette sul piatto la somma delle proprie tradizioni.
C’è il piatto che viene da ‘su’, quello da ‘giù’, quello che «mia nonna lo faceva così», c’è il pacco spedito, le conserve che «ormai non le fa più nessuno».
Memorie che si tramandano, si trasformano e, come scritto da Eric Hobsbawm e Terence Ranger nel saggio Invenzione della tradizione, spesso – per l’appunto - si inventano. Sono l'elaborazione di una risposta a tempi di crisi, a epoche di rapido cambiamento sociale, alla «necessità di fronteggiare nuove situazioni».
Il richiamo al passato, alla tradizione, serve quindi per dare una forma di legittimità. E guai a toccarla.
Anche questo è il ruolo del cibo nel nostro quotidiano: riconfermare valori stratificati nella cultura, darci certezza, stabilità oltre al piacere. Il cibo e la tradizione culinaria sono un elemento centrale del nostro quotidiano. E per mangiare spendiamo molto del nostro budget familiare.
Per le tavole natalizie le stime parlano di 2,6 miliardi di euro di spesa a cui si aggiungono quasi 2 miliardi per allestire il cenone di capodanno e il pranzo del primo gennaio. La carne resta regina della spesa: secondo i dati Coop, nel 2019, in epoca pre-Covid, su cento euro pagati alla cassa, venti sono stati spesi per arrosti e bistecche.
C’è un problema però. Che tutto questo insieme di tradizioni o, più semplicemente, di abitudini alimentari, ha delle conseguenze. La fettina, il prosciutto, il salame, la mortadella, in una parola, la carne, hanno un impatto enorme sul clima.
E allora la domanda è: non è forse questa un’epoca in cui fronteggiare nuove situazioni e ripensare al modo in cui mangiamo? Siamo nel bel mezzo di una crisi climatica che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
Ogni giorno, in ogni angolo del pianeta, fino ad arrivare a casa nostra, siamo colpiti da eventi estremi: inondazioni, tempeste, grandinate, gelate, mareggiate. Le città dello stivale devono misurarsi periodicamente con frane e smottamenti e le previsioni, anche quelle più ottimistiche, ci dicono che sarà sempre peggio.
Il cibo che mangiamo è parte del problema. E anche in questo caso, la carne è nell'occhio del ciclone, con il consumo raddoppiato negli ultimi trent’anni.
Soprattutto quella prodotta in allevamenti industriali, dove gli animali sono costretti in capannoni chiusi, senza possibilità di movimento. Enormi industrie in cui l’animale rappresenta un input utile a produrre carne, latte, uova, latticini, formaggi, insaccati, salumi, prosciutti, cioè output.
Visioni inconciliabili
Sul futuro del consumo di carne le visioni sono diametralmente opposte e inconciliabili.
Da una parte c'è chi sostiene che fa parte dell’alimentazione umana fin dagli albori e non va eliminata. L’associazione Carni sostenibili sostiene che «per centinaia di migliaia di anni, gli uomini hanno basato la loro sussistenza sui prodotti della caccia».
Dall’altra parte della barricata c’è invece chi sostiene che la civiltà attuale, per come si è evoluta, non abbia bisogno di mangiare carne perché i nutrienti necessari alla nostra salute possono arrivare anche da fonti vegetali. Anzi, che gli esseri umani non abbiano il diritto di uccidere un altro essere vivente per nutrirsi o vestirsi.
La vita non è sempre semplice per i vegetariani. Quanti di loro, durante il cenone della vigilia, si sono sentiti domandare «Ma allora cosa mangi?». Quanti hanno una nonna o uno zio che ha rilanciato dicendo «dai, mangia almeno una fetta di salame», come se l’insaccato non fosse un derivato animale.
Va persino peggio ai vegani, tanto che l’Accademia della Crusca ha inserito un nuovo lemma: vegafobia. Perché il vegano, il vegetariano, ti mettono (ci mettono) di fronte all’evidenza più cruda, di fronte alla contraddizione evidente che ogni onnivoro vive quotidianamente: la conseguenza etica ed ecologica del mangiar carne.
Tralasciando (a fatica) le ragioni etiche, quel che è certo è che, come ogni processo industriale, anche quello della carne produce scarti, in questo caso metano e biossido d’azoto, due gas che hanno un potenziale di riscaldamento globale rispettivamente di venticinque e quasi trecento volte superiore alla CO2. il primo deriva dalla digestione degli animali (in particolare i bovini), il secondo viene liberato a seguito dello spargimento dei loro reflui sui terreni.
Secondo la Fao, gli allevamenti intensivi sono responsabili del 14,5 per cento delle emissioni di gas serra, una percentuale simile a quella dei trasporti.
Molto è stato scritto in questi anni per evidenziare l’impatto ecologico della carne: gli ultimi dati raccolti da uno studio pubblicato da Science dicono che, mediamente, per produrre un kg di carne bovina si emettono 60 kg di gas serra, 25 per quella ovina e 21 per il formaggio.
I tifosi della produzione intensiva sostengono che l’intensità carbonica delle produzioni animali sia diminuita del 60 per cento nell’ultimo mezzo secolo. Ma questa presunta efficienza deriva dal metodo di calcolo che somma il totale delle emissioni e le divide per unità di prodotto, ad esempio un litro di latte.
Per cui apparentemente si inquina di meno quando si produce di più, perché il totale delle emissioni è diviso matematicamente per il numero totale di litri prodotti.
Se invece si considerano le emissioni non per unità di prodotto ma per ettaro, ovvero ciò che l’atmosfera contabilizza, allora la situazione cambia.
Cambiare prospettiva
In ogni caso, la mitigazione non è sufficiente a rendere sostenibile l'allevamento a questi livelli di domanda e offerta. Occorre cercare alternative. Per fare un esempio, produrre 1kg di legumi genera fino a trecento volte meno emissioni rispetto a 1kg di carne.
È giunto dunque il tempo di ripensare al posto che la carne occupa nella nostra vita. Non tanto a Natale, quanto in tutti gli altri giorni dell’anno, dove ormai l’uso è praticamente quotidiano.
Prima di tutto riducendo drasticamente il consumo. Secondo gli scienziati dell’Onu dell’Ipcc, una dieta senza (o con scarsissimo) uso di carne, ha un potenziale di riduzione di CO2 elevatissimo, molto di più di quanto da sola non possa fare la dieta mediterranea, benché quest’ultima il consumo di carne sia limitato se paragonato al regime alimentare degli Stati Uniti.
E poi, quella (poca) che consumiamo, facciamo in modo che arrivi da quelle centinaia di esperienze di allevamento tradizionale all’aria aperta, esempi straordinari di economia circolare e di ciclo integrato con l’agricoltura.
Per farlo però, è necessario che il ministero dell’agricoltura guidato da Teresa Bellanova, si adoperi per rendere obbligatoria la dicitura “da allevamento intensivo” sull’etichetta dei prodotti di origine animale. Solo così potremo scoraggiarne il consumo.
I detrattori obietteranno che questo sistema super intensivo ha permesso di ridurre i costi di produzione, operare delle economie di scala e far diminuire il prezzo al consumo. Ma questo meccanismo scarica i costi sull’ambiente e sull’animale, per portare sugli scaffali del supermercato un prodotto a basso costo. Innescando un pericoloso circolo vizioso: più si mantiene artificialmente basso il costo dei prodotti animali, più ne aumenta il consumo, con un conseguente crescita dell’impatto sul pianeta.
Perché in fondo questa pandemia dimostra che le cose possono cambiare e che anche cotechino e zampone, in tempi di crisi, subiscono un calo delle vendite: secondo la Cia, la confederazione italiana agricoltori, quest’anno c’è stata una riduzione degli acquisti di un terzo rispetto ai 6 milioni di kg del 2019.
La causa, naturalmente, è da registrarsi nelle disposizioni del Decreto Natale, che ha sancito festività blindate, restrizioni agli spostamenti e il coprifuoco.
Presto dovremo renderci conto che ridurre il consumo di carne e dire addio agli allevamenti industriali, è l’indispensabile risposta alla più grave crisi dimenticata dei nostri tempi, quella climatica. Sperando che non siano altri decreti d’urgenza a causare la diminuzione dei consumi ma una presa di coscienza collettiva.
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