- Sono stati giorni di intense manifestazioni a Washington, con attivisti in sciopero della fame e centinaia che si sono fatti arrestare per protestare contro i ritardi e i possibili compromessi al ribasso nel pacchetto clima dell’amministrazione Biden.
- Gi ambientalisti americani stanno chiedendo al presidente: «O noi, o Manchin», con riferimento al senatore centrista del West Virginia, diventato in questi mesi il principale ostacolo al Senato, dove i numeri per approvare il pacchetto nella sua interezza non ci sono.
- Per Biden è diventata una questione di politica internazionale: deve sbrigarsi ad approvare il piano, anche accettando un compromesso al ribasso, perché non può presentarsi alla Cop26 di Glasgow a mani vuote.
Se Joe Biden fosse il tipo da scriversi liste dei problemi su un quaderno, al primo posto del capitolo clima e ambiente ci sarebbero Joe Manchin e Kyrsten Sinema, i due senatori democratici centristi di West Virginia e Arizona che stanno bloccando il suo piano da 3.500 miliardi di dollari per «ricostruire meglio l’America» a partire da welfare ed energia.
Poi ci sarebbero Xi Jinping e Putin: non saranno di persona alla Cop26 ma, dopo un anno di lezioni e pressioni, aspettano al varco il climate president con le riforme che sta facendo un’immensa fatica a consegnare. E infine ci sarebbero persone come Ema Govea, liceale di diciotto anni che da giorni insieme a quattro compagni sta facendo uno sciopero della fame davanti alla Casa Bianca, per forzare Biden a mantenere le promesse della sua campagna elettorale.
Tra queste: i civilian climate corp (un costoso programma di servizio civile ambientale sul modello di quello creato da Roosevelt), i fondi per la giustizia ambientale e soprattutto il clean energy performance program, gli incentivi per l’energia pulita che dovrebbero mettere fuori mercato le fonti fossili, le stesse alle quali è legato Manchin, eletto in uno stato dove l’89 per cento dell’elettricità viene ancora del carbone. Qualcosa si è rotto tra il presidente e il fronte dell’ambientalismo americano, che aveva creduto e sostenuto il piano di Biden. Sembra lontano l’entusiasmo per il ritorno nell’accordo di Parigi o per la condanna a morte dell’oleodotto Keystone XL, grande scalpo dell’ecologia americana.
La settimana più turbolenta
Da quando Biden è alla Casa Bianca questa è stata la settimana di eco-proteste più turbolente. Un centinaio di organizzazioni è arrivato a Washington, ci sono stati centinaia di arresti per diversi giorni di fila, come ai tempi di Trump (e di Obama), pacifici ma vistosi: l’attivismo green negli Stati Uniti usa le manette come una sorta di format dimostrativo. Tutto è partito con la contestazione dei leader nativi – collante ideologico dell’ambientalismo Usa – in occasione dell’Indigenous Peoples’ Day, poi l’onda si è gonfiata in modo proporzionale alle difficoltà nel far passare Build Back Better e il piano per le infrastrutture, colonna vertebrale e gambe dell’ambizione climatica di questa amministrazione, tutto nel contesto della Cop26 in arrivo, che alza la temperatura emotiva e la pressione politica.
«Mettendo i nostri corpi in prima linea vogliamo dimostrare l’importanza di quello che c’è in ballo e spingere Biden e i democratici a scegliere tra l’impero di carbone di Joe Manchin e le nostre vite», ha spiegato con lineare pazienza Ema Govea. «Stiamo chiedendo a Biden di essere un leader e di scegliere di stare dalla nostra parte». È come se i ragazzi e le ragazze per il clima in America riconoscessero la buona fede del presidente ma si facessero arrestare perché si sentono insultati dalla sua debolezza.
Il messaggio, in sintesi, è: “O noi o Manchin. Non puoi stare con entrambi”. E così Biden si trova tra la palude di un Senato dove non ha la maggioranza, la necessità di giungere a un compromesso onorevole, che è sempre stato il suo grande talento, e la rabbia della piazza, che delle sue sapienti manovre politiche e dei problemi numerici della democrazia non vuole saperne.
Il vero problema di Biden è che tutti gli attori in gioco, dai ragazzi in sciopero della fame al senatore Manchin, alzano la posta perché sanno che la faccenda va oltre l’energia, l’economia o il budget: nel mese che porta al G20 e alla Cop26 è diventata una questione di politica internazionale.
C’è una sola cosa che il presidente non può permettersi: presentarsi a Glasgow a mani vuote, senza aver convinto il Congresso americano ad accettare le sue proposte. Iniziare il vertice senza aver fatto queste riforme farebbe a pezzi la sua credibilità internazionale sul fronte dove – dopo il disastro afghano – ha deciso di spenderla tutta: il clima. Il presidente può tollerare un accordo al ribasso al Senato, può anche reggere un certo grado di disordine in strada. Ma deve presentarsi a Glasgow in grado di dire: l’America ha fatto il suo, voi? E il grande problema è che la combinata G20-Cop26 comincia tra meno di una settimana.
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