Si stanno tornando a progettare e realizzare grandi infrastrutture per la produzione di energia solare su terreni agricoli. L’impatto di questi “parchi fotovoltaici” sul paesaggio è notevole. Inoltre, installarli comporta il sacrificio di un bene scarso e non riproducibile: il terreno coltivabile.
- Dopo un fermo di qualche anno, dovuto al venir meno degli incentivi per gli impianti fotovoltaici a pieno campo, si stanno tornando a progettare e realizzare grandi infrastrutture per la produzione di energia solare su terreni agricoli.
- L’impatto di questi “parchi fotovoltaici” sul paesaggio è notevole: richiedono grandi superfici, recinzioni, manufatti, e spesso sono facilmente visibili anche a grande distanza.
- Inoltre, installarli comporta il sacrificio di un bene scarso e non riproducibile: il terreno coltivabile. Vale la pena di penalizzare ulteriormente la superficie agricola italiana quando esistono alternative per la produzione di energia solare?
Situato a una cinquantina di chilometri a nord di Roma, il monte Soratte è una presenza familiare a molti romani. Per quanto piuttosto basso, neanche 700 metri, sorge isolato dagli altri rilievi della Sabina, e ha una forma inconfondibile, quasi una cresta di stegosauro, increspata da sei cime, nella quale molti vedono il profilo di un volto umano. Anche chi non vive a Roma, se ha qualche reminiscenza classica, ricorda poi il famoso incipit di una delle più note Odi di Orazio, dove si parla della neve alta sul candido Soratte e di ruscelli ghiacciati, mentre adesso, persino in un anno pieno di neve come questo, sul Soratte è già tanto se si vede una spolverata di bianco.
Già prediletto nel Seicento dai grandi paesaggisti francesi trapiantati a Roma, Lorrain e Poussin, nell’Ottocento divenne uno dei soggetti preferiti dei pittori che ritraevano la campagna romana, e lo si può vedere in dipinti di Géricault e di Corot, oltre che in quelli di Massimo D’Azeglio, destinato a sposare una delle figlie di Manzoni e a diventare primo ministro del regno di Sardegna, ma che in gioventù aveva fatto la sua bohème nella città eterna come pittore squattrinato.
La veduta prediletta da Corot e D’Azeglio non era però quella da sud, da Roma, ma quella da ovest, da Castel sant’Elia e da Civita Castellana. E ancora oggi, in effetti, una volta lasciato alle spalle lo sprawl urbano lungo la via Flaminia, andare da Civita verso il Soratte è muoversi in una bella campagna, forse non troppo diversa da quella che tanto piaceva a Ferdinand Gregorovius nelle sue passeggiate per l’Umbria e la Sabina di oltre un secolo fa. Giunti più vicini alla montagna, però, ci aspetta una sorpresa.
“Parchi” fotovoltaici
Un vasto terreno semipianeggiante, a spanne qualche decina di ettari, collocato proprio là dove in uno dei dipinti di Corot si vede ai piedi del rilievo un prato che è come un lago di luce, c’è un grande impianto di pannelli solari, uno di quelli che una denominazione lievemente eufemistica indica come parchi fotovoltaici. Del parco però ha ben poco, non solo per l’impatto visivo dei pannelli, o per i sostegni in cemento. L’intera zona è recintata con rete metallica di un paio di metri di altezza (qualche anno fa un buon numero di pannelli venne asportato dai ladri), poi ci sono il container prefabbricato per la sorveglianza, i cancelli elettrificati, le strade di accesso.
Molti impianti di questo tipo sono stati installati prima del 2012, quando vennero meno i sussidi per il fotovoltaico a pieno campo. Ma evidentemente oggi l’utilizzo di terreni per impianti di energia solare deve essere tornato conveniente, almeno a scorrere le pubblicità delle aziende che se ne occupano. Di fatto molti “parchi” fotovoltaici sono stati costruiti o sono in costruzione, per esempio nella Tuscia, quella zona dell’alto Lazio che contiene gioielli come Tuscania e dalla quale, del resto, il Soratte geograficamente fa parte.
Beh, si dirà, dov’è il problema? Siamo il paese del sole, l’irradiazione è sufficientemente abbondante, abbiamo bisogno di energia pulita e quella da fonti rinnovabili ci è assolutamente necessaria. I pannelli di nuova generazione assicurano un buon rendimento, il problema dell’immagazzinamento dell’energia che si pone per i piccoli impianti domestici non si pone per i grandi impianti dove l’energia prodotta viene immessa subito in rete. Tutto vero, o quasi. Ma un problema c’è, anzi, a ben vedere ce ne sono due.
Se sui terreni non c’è un vincolo paesaggistico, l’operazione sembra lecita, ma le resistenze locali di associazioni ambientalistiche e culturali dimostrano che il paesaggio che avvertiamo oggi come bisognoso di tutela è molto più ampio di quello tutelato a norma di legge o di piano paesistico regionale. Il Soratte è un parco, ma dove finisce il paesaggio del Monte Soratte, che Henry James vedeva addirittura tra le arcate dell’acquedotto Claudio, a Roma est?
Consumo di suolo
L’impatto di queste installazioni riguardanti grandi superfici sul paesaggio è solo un aspetto, però. L’altro aspetto ha un nome diverso: consumo di suolo. La superficie di terreno disponibile per gli usi agricoli è in Italia in costante diminuzione: negli ultimi trent’anni abbiamo perso circa il 20 per cento di quella che tecnicamente si chiama Sau (superficie agricola utilizzata). Di solito si pensa che questo sia dovuto alle nuove costruzioni e alle infrastrutture, che certamente concorrono al fenomeno. Ma in buona parte la diminuzione è dovuta all’abbandono dei terreni marginali, montani o semimontani, e al loro inselvatichimento.
Gli impianti fotovoltaici a pieno campo non solo comportano un sacrificio di terreno: comportano un sacrificio di terreno buono. Le ditte che li installano cercano terreni pianeggianti preferibilmente esposti a sud, cioè i migliori dal punto di vista agricolo. E offrono cifre notevoli per l’affitto. Magari non saranno i 4.000 euro l’ettaro che sbandierano certi siti, ma fossero anche la metà o un terzo è evidente che questi rendimenti non hanno nulla a che vedere con quelli da coltivazione, dove gli utili si collocano se va bene a un decimo delle cifre indicate. Si dice che si tratta di impieghi reversibili, ma è una reversibilità tutta teorica, dato che da un lato si propongono contratti trentennali, dall’altro sappiamo bene quanto sia raro che un terreno che ha perduto l’impiego agricolo torni ad acquistarlo: statistiche alla mano, non si verifica quasi mai. E intanto proprio Civita Castellana si colloca tra i comuni nei quali maggiore è stato il consumo di suolo negli ultimi anni, proprio a causa degli impianti fotovoltaici.
Le energie rinnovabili pongono al paesaggio italiano una sfida che non si può accogliere senza un minimo di riflessione, perché sembrano stringere il paesaggio, specie quello del nostro centro-sud, in una morsa difficile. Gli impianti eolici di terra (quelli off-shore no, ma hanno alti costi di manutenzione) possono essere costruiti in luoghi marginali dal punto di vista agricolo, ma sono visibilissimi perché vanno installati preferibilmente sui crinali o comunque in luoghi elevati e aperti, e perché si cercano impianti di dimensioni sempre più grandi. I parchi fotovoltaici richiedono superfici estese, spesso collocate in ambienti già antropizzati, visibili e accessibili. Tutti e due necessitano di infrastrutture: strade di accesso, basi di sostegno, linee elettriche.
Visto che il fotovoltaico in campo aperto non è l’unica scelta possibile, e che pannelli solari si possono installare sui tetti delle abitazioni, per piccoli impianti, o su ampie coperture di capannoni, parcheggi, edifici industriali, forse varrebbe la pena di riflettere. Non, come si legge, «non solo sui tetti», anzi al contrario: innanzitutto sui tetti. Anche perché le nuove tecnologie del cosiddetto “fotovoltaico organico” sembrano promettere un ampliamento ulteriore delle superfici edilizie utilizzabili per produzione di energia.
Come cambia il paesaggio
In questo quadro, però, non fanno bene sperare le dichiarazioni del presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, che nel supplemento Buone notizie del Corriere della Sera dell’8 dicembre scorso proclamava che «Il paesaggio italiano dovrà cambiare», spiegando: «Sorgeranno nuove pale eoliche, nuovi campi fotovoltaici, nuovi impianti di depurazione delle acque, nuove linee ferroviarie, nuove piste ciclabili». E giustificava il saccheggio prossimo venturo con il sofisma che è sempre pronto per chi vuole distruggere il paesaggio: «Il paesaggio è sempre cambiato». Il che è vero, ma non deve farci dimenticare che quello che conta è come cambia il paesaggio. Altro che buone notizie! Abbiamo devastato mezza Italia in nome del benessere; sarebbe una tragedia se devastassimo l’altra metà in nome dell’ambiente.
La prossima volta che vedete una di quelle pubblicità un po’ trionfali dell’Eni, dove si vedono distese di pannelli fotovoltaici a perdita d’occhio, non pensate soltanto a quello a cui vi vuole fare pensare l’headline, «un pianeta da decarbonizzare». Pensate anche a quel che era quel paesaggio prima di diventare una distesa di vetro e cemento. E pensate che quei terreni, probabilmente, producevano il grano tenero di cui è fatto il pane che mangiate o quello duro di cui è fatta la pasta che mettete nel piatto.
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