Aumenta il numero di coloro che devono abbandonare le loro case a causa dei conflitti. La crisi climatica contribuisce a rendere le loro vite più precarie e a esacerbare gli scontri
L’autunno è la stagione dei report importanti. Arrivano prima della Cop per fornire dati aggiornati e, con quei dati, trasmettere urgenza. La Cop 29 è iniziata lunedì in Azerbaigian, un paese che fonda la propria economia sui combustibili fossili.
L’anno scorso si era tenuta a Dubai, l’anno prima in Egitto. Non sono condizioni facili in cui prendere decisioni importanti. Sul piatto ci sono soprattutto i fondi che serviranno al sud globale per affrontare la transizione e per sopravvivere agli effetti già durissimi della crisi climatica.
Uno di questi è il rapporto di Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati. Si intitola No Escape. È dedicato a chi sta «in prima linea nel cambiamento climatico» fra conflitti e sfollamenti forzati ed è stato presentato proprio alla Cop da Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, e da una rifugiata e attivista climatica del Sud Sudan, Grace Dorong.
Rifugiati climatici
È un documento importante ed è stato pubblicato in collaborazione con 13 organizzazioni di esperti, istituti di ricerca e gruppi di rifugiati.
Di rifugiati climatici si parla poco, dovremmo abituarci a usare questa parola: nominare il problema vuol dire vederlo e iniziare a prendersene cura. Proprio per questo è stato presentato alla Cop: a oggi le risorse per il clima destinate ai rifugiati sono pochissime, ed è necessario che aumentino assieme al riconoscimento e alla protezione legale.
L’Unhcr è lì proprio per chiedere i finanziamenti necessari a proteggere i più fragili dei fragili, quelli che hanno dovuto abbandonare la propria terra, spesso il proprio paese, e hanno perso ogni cosa – le proprie case, magari i propri cari, spesso i diritti, i documenti, la possibilità di esprimersi nella propria lingua.
Vite precarie
Il rapporto No Escape ci dice che nel mondo ci sono 120 milioni di «sfollati forzati», persone obbligate a lasciare la propria casa per ragioni diverse: guerre, violenze, persecuzioni, fame. È un numero altissimo, il più alto di sempre: è come dire che al mondo una persona ogni 67 è sfollata.
Ecco, di questi 120 milioni, i tre quarti (90 milioni) vivono in aree già flagellati dalla crisi climatica e questo numero ha avuto un’impennata di ben 5 milioni solo nell’ultimo anno.
Inoltre, circa la metà di quei 120 milioni di persone vengono da luoghi colpiti contemporaneamente da conflitti politici e rischi climatici: fra questi ci sono l’Etiopia, la Somalia, il Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, la Siria, il Libano, il Myanmar.
La ragione principale per cui le persone sono costrette a lasciare la propria casa sono comunque i conflitti, ma spesso le condizioni sono aggravate dalla crisi ambientale e la vita di queste persone diventa ancora più precaria.
Non solo, i conflitti possono essere esacerbati dalla crisi climatica stessa. Se manca l’acqua potabile, le terre si impoveriscono, sempre più ambienti diventano inabitabili, le tensioni sociali inevitabilmente si acuiscono. Allo stesso modo, i conflitti rendono ancora più difficile riprendersi dagli shock climatici. Immaginiamo se in Emilia-Romagna o a Valencia ci fosse anche una guerra civile, quanto sarebbe più difficile ricostruire e ricostruirsi.
Molti sfollati restano nel proprio paese, con l’intenzione di tornare alla propria terra non appena possibile. Ma l’intersezione fra conflitti ed eventi climatici estremi complica molto la situazione e spesso tornare alle proprie case diventa impossibile.
In Sudan, per esempio, molte persone sono fuggite dal centro nevralgico della guerra civile, ma poi sono state costrette a fuggire di nuovo in seguito a terribili inondazioni, mentre chi fuggiva dal Myanmar si è diretto per lo più in Bangladesh, che negli ultimi anni è stato colpito ripetutamente da alluvioni terribili. Solo lo scorso 23 agosto, una di queste piogge torrenziali ha investito oltre 4 milioni di persone. È quasi scontato aggiungere che tra queste vite terribilmente precarie e provvisorie, essere una donna o parte di una minoranza rende l’esistenza ancora più incerta.
Il futuro
Nei prossimi decenni i rischi aumenteranno considerevolmente. Si prevede che nel 2050 i campi di rifugiati sperimenteranno il doppio dei giorni di caldo intenso rispetto a oggi e che aumenteranno i paesi maggiormente esposti alla crisi climatica. A rendere un’area inabitabile possono pensarci alluvioni e uragani ma anche fenomeni più lenti come l’innalzamento delle acque, la siccità e la desertificazione.
Anche per questo intervenire investendo in progetti di resilienza nei paesi più esposti si fa sempre più urgente. La crisi climatica è il più grande specchio delle disuguaglianze esistenti e insieme un potentissimo acceleratore di disuguaglianze.
Fra il 1870 e il 2018 i paesi industrializzati hanno prodotto i 2/3 delle emissioni totali, quindi circa il 66 per centro delle emissioni, pur essendo abitati solo dal 20 per cento della popolazione (di cui circa il 25 per cento negli Usa, il 22 per cento nella Ue, mentre in India sono il 3 per cento).
Ma i paesi più fragili sono anche i più esposti ai suoi effetti e quelli che ricevono i finanziamenti annuali più bassi per i piani di adattamento.
Secondo il rapporto dell’Unhcr, gli stati più vulnerabili ricevono circa 2 dollari a persona in un anno, contro i 161 degli stati più ricchi. E di quei 2 dollari a persona in realtà la maggior parte (il 90 per cento) va alle capitali, mentre per le zone più periferiche spesso non rimane nulla.
«Spero che le voci delle persone contenute in questo rapporto aiutino i decision makers a capire che, se non si affronta il problema, il numero di persone in fuga – e l’effetto moltiplicatore del cambiamento climatico – peggioreranno. Ma se ci ascoltano, anche noi possiamo essere parte della soluzione» ha detto Grace Dorong.
L’Unhcr si è rivolto alla Conferenza delle parti di Baku anche e soprattutto per proporre soluzioni sostenibili e “a portata di mano”. Le parole d’ordine sono proteggere le persone in fuga, includerle nei processi decisionali, investire in “progetti di resilienza” e accelerare la riduzione delle emissioni, per evitare le conseguenze peggiori della crisi ambientale. Si può fare, quel che serve sono finanziamenti adeguati, trasparenti, facilmente accessibili. È la questione centrale di questa Cop.
© Riproduzione riservata