In occasione dello sciopero del clima, venerdì 25 marzo, i lettori di Domani troveranno in edicola e sulla app uno speciale DopoDomani dedicato alla transizione ecologica e alle sue ricadute: sedici di pagine di articoli e mappe (1,50 euro più il prezzo del giornale) con l’inchiesta di Ferdinando Cotugno sui materiali della transizione e sulla loro rilevanza geopolitica.
Era davvero tutto un bla bla bla: l’aggressione della Russia all’Ucraina ha rivelato che le promesse ambientali di governi e multinazionali erano soltanto una patina di verde che abbelliva un mondo determinato a rimanere nero come il petrolio.
Appena i carri armati hanno iniziato a marciare verso il Donbass, il clima è cambiato: addio ai temi per i ragazzini, ossessionati dalla plastica e dalle emissioni, spazio alle questioni degli adulti, cioè la geopolitica, l’energia, le bollette.
La transizione ecologica sembra diventata obsoleta in un attimo: chi ha tempo per preoccuparsi del riscaldamento globale quando la priorità è riscaldare casa propria a un costo sostenibile.
Invece proprio la crisi russa ci ricorda che la transizione ecologica non è una partita per rendere il mondo un posto più gradevole, ma che in gioco c’è la nostra sopravvivenza.
Per troppo tempo abbiamo scambiato gli utili dell’Eni con la misura dell’interesse nazionale.
Dobbiamo emanciparci non dalla Russia soltanto, ma dal gas, dal petrolio e da una base energetica che è insostenibile per l’ambiente quanto per le nostre democrazie liberali. Passare dalla dipendenza dalla Russia a quella dal Qatar, come sta facendo la Germania sul gas, è ben magra soddisfazione.
Il prezzo del greggio in un anno è aumentato del 90 per cento, quello del gas del 102. I prezzi alti del petrolio e del gas di queste settimane possono avere due ripercussioni: stimolare nuovi investimenti in energie fossili, perché molto più remunerativi, o accelerare la ricerca di alternative. Finora abbiamo scelto la prima opzione.
Nell’ultimo mese l’indice che raccoglie i titoli del settore petrolio e gas della borsa americana è salito del 12,35 per cento, tre volte più dell’indice generale Dow Jones.
Nel clima di guerra si è scatenata una feroce azione di lobbying per annacquare gli impegni alla transizione appena presi al vertice Cop26, spostare la spesa pubblica dall’economia verde a quella militare, sussidiare i grandi consumatori di energia (per quanto?) e finanziare a debito sconti nelle bollette.
Il fragile consenso intorno alla necessità di sostenere qualche sacrificio nel breve periodo per arrivare alla sostenibilità nel medio si sta sgretolando. Ma non ce lo possiamo permettere, altrimenti Putin avrà la responsabilità dei morti in Ucraina ma noi quella di aver abbandonato la battaglia decisiva per la sopravvivenza dell’intera specie umana senza neppure provare davvero a combatterla.
Lo sciopero per il clima del 25 marzo e la battaglia di movimenti come i Fridays for future devono rimanere in cima alla nostra agenda politica. Anche e soprattutto ora che si combatte una guerra finanziata esclusivamente dai proventi della vendita di gas e petrolio.
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