Il linguaggio della politica degli ultimi tempi sembra aver subito una radicale trasformazione ma qualcuno ha capito come i ministri “ecologisti” del governo Draghi vogliono costruire questa rivoluzione?
- Parole che fino a poco tempo fa erano appannaggio di pochi, sparuti ecologisti, sono entrate nei titoli di testa dei tg della sera e hanno un peso sempre più rilevante nelle dichiarazioni del governo, soprattutto di quello appena insediato.
le politiche, ovvero scelte e indirizzi che i singoli ministeri mettono in atto, vanno in una direzione diversa. Soprattutto quando si parla di cibo e agricoltura.
Il valore del settore alimentare mondiale è 8 trilioni di dollari. i costi nascosti – ambientali e sanitari – che genera ammontano però a 6 trilioni di dollari.
Transizione ecologica, green, riduzione delle emissioni, piani di adattamento. Il linguaggio della politica degli ultimi tempi sembra aver subito una radicale trasformazione. Parole che fino a poco tempo fa erano appannaggio di pochi, sparuti ecologisti, sono entrate nei titoli di testa dei tg della sera e hanno un peso sempre più rilevante nelle dichiarazioni del governo, soprattutto di quello appena insediato.
Oggi tutto parla di sostenibilità ed ecologia: il ministro dei Trasporti Enrico Giovannini ha modificato il titolo del suo dicastero, che ora si chiama “delle infrastrutture e della mobilità sostenibili”. E sostenibile diventa – almeno a parole - anche quello assegnato a Roberto Cingolani, l’ormai famoso ministero della transizione ecologica.
Perfino il ministro dell’Agricoltura ora punta forte sul “green”. Martedì Stefano Patuanelli è intervenuto in Commissione al Senato per ribadire l’importanza di mantenere un “equilibrio ecologico” dell’agricoltura, riconoscendo che «gli allevamenti intensivi, concentrati soprattutto nel Nord Italia, hanno una responsabilità importante in termini di emissioni di gas serra».
Dello stesso avviso il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani che, nel corso della recente Conferenza preparatoria della Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile, ha declinato quella che, secondo i suoi auspici, sarà la road map della transizione ecologica. «L’indicatore principale da tenere ben presente in tutte le scelte politiche e tecniche è che la bio-capacità del nostro pianeta tra luglio e agosto sarà terminata - ha detto Cingolani - Significa che viviamo in un’era di debito ambientale, oltre che economico, spaventoso».
Parlando del ruolo del cibo e dei sistemi alimentari, Cingolani ha poi affermato che «fatta 100 la massa di animali selvatici, quella degli animali da allevamento vale 700, la massa di esseri umani vale 300. Noi che eravamo una delle tante specie su questo pianeta, oggi rappresentiamo il triplo di tutti gli animali selvaggi e quello che noi mangiamo, la nostra riserva alimentare, vale 700». Insomma, conclude il ministro, «c’abbiamo dato giù duro». Come dargli torto?
L’insostenibilità dei consumi alimentari
A confermarlo è il recente studio pubblicato su Nature Food, che ribadisce ancora una volta che i sistemi agricoli e del cibo sono responsabili di un terzo delle emissioni di CO2 con un peso crescente nei paesi in via di sviluppo, divenuti fabbriche di commodity per l’occidente, che ha esternalizzato qui buona parte del suo impatto ecologico.
I paesi industrializzati, infatti, mantengono consumi alimentari insostenibili, come dimostra uno studio di Demetra Onlus realizzato per conto della Lav, secondo cui in un anno gravano sulla collettività ben 36,6 miliardi di euro di costi “nascosti” generati dall’impatto ambientale e sanitario del consumo di carne in Italia.
Se il lessico, il linguaggio, le parole d’ordine, rispondono positivamente a queste preoccupazioni, le politiche, ovvero scelte e indirizzi che i singoli ministeri mettono in atto, vanno in una direzione diversa. Soprattutto quando si parla di cibo e agricoltura.
Prendiamo il caso della “Strategia italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra”. Trasmessa a Bruxelles il 10 febbraio con un anno di ritardo e nel silenzio generale, è stata elaborata per mettere in pratica gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Il documento, alla luce dei nuovi piani europei di riduzione delle emissioni, traccia un quadro delle azioni utili a «raggiungere una piena decarbonizzazione al 2050».
Già dalle prime pagine, però, si dichiara «la sostanziale difficoltà a comprimere le emissioni da agricoltura/zootecnia e da processi industriali».
Come a dire: gli allevamenti intensivi non si toccano, le riduzioni vanno fatte in altri settori. Ma questa intoccabilità dell’agricoltura non fa i conti con la responsabilità del comparto.
In Italia, il primario è il settore dell’economia che manda in atmosfera più metano (44,7 per cento) e protossido di azoto (59,4 per cento) (due gas con un potenziale effetto serra molto più alto della CO2): il primo deriva dalla digestione degli animali (in particolare i bovini), il secondo viene liberato a seguito dello spargimento dei loro reflui sui terreni.
In pratica, le attività connesse alla zootecnia coprono i due terzi delle emissioni del comparto agricolo, che nel nostro paese valgono 30 milioni di tonnellate di CO2eq.
L’allevamento intensivo si basa su un meccanismo che scarica i costi sull’ambiente e l’animale, per portare sugli scaffali del supermercato un prodotto a basso costo. Ma questa esternalizzazione dei costi ambientali innesca un circolo vizioso: più si mantiene artificialmente basso il costo dei prodotti animali, più ne aumenta il consumo, con una conseguente crescita dell’impatto sul pianeta.
False soluzioni
Le soluzioni tecnologiche - richiamate nella relazione del ministro Patuanelli - rischiano di rivelarsi una perdita di tempo, prolungando la via al settore grazie alle sovvenzioni pubbliche.
La trasformazione dei reflui in biogas, ad esempio, viene promossa come risposta sostenibile, ma cela alcuni rischi: è vero che riduce in (minima) parte il problema dell’inquinamento determinato dallo spandimento dei reflui, ma è altrettanto vero che i generosi sussidi stanno alimentando un fenomeno speculativo: gli impianti a biogas producono più energia se alimentati a colture come sorgo e mais piuttosto che a deiezioni animali. Per questo assistiamo a un crescente utilizzo di aree agricole per colture destinate alla produzione di energia.
La politica agricola comune (PAC) va nella stessa direzione. Per i prossimi 7 anni l’Italia percepirà circa 40 miliardi di euro, con i quali potrebbe impostare rapidamente la transizione ecologica, riducendo la produzione di carne e aumentando quella di alimenti a base vegetale. Invece, anche qui si va verso tutt’altra direzione
A questo proposito, associazioni e movimenti sociali, come Terra!, i Fridays For Future, Greenpeace, ARI e la coalizione Cambiamo Agricoltura, si sono mobilitati per chiedere trasparenza al ministro Patuanelli e una voce nella stesura del piano strategico nazionale, che dettaglierà le modalità con cui saranno spesi i fondi della Pac.
La società civile, supportata da buona parte del mondo scientifico che con una lettera firmata da 3.600 scienziati ha criticato fortemente la nuova Pac, è infatti fermamente convinta che il settore agricolo e agroalimentare debba essere parte della soluzione e non più del problema climatico. Anche perché, se opportunamente orientato dalle politiche e dai fondi pubblici, può riconvertirsi relativamente in fretta.
Sembra invece che l’unica priorità sia l’agricoltura di precisione. Decantata anche dagli attuali ministri in carica, pare l’unica arma per riformare l’agricoltura. Ma l’agricoltura di precisione, così come la digitalizzazione del settore - che pure hanno degli elementi positivi -, si basano sul principio dell’aumento delle rese che, seppure con una diminuzione nell’uso degli input chimici, deteriorano ulteriormente i suoli, ovvero quel patrimonio inestimabile di magazzino di carbonio. Si continua insomma a perpetuare la strategia dell’intensificazione sostenibile, raccontandola come operazione green.
Il mito del consumatore verde
Le strategie e gli obiettivi europei, dunque, sebbene ancora insufficienti, pongono le premesse per una azione di riforma profonda dei nostri sistemi produttivi. Ma al momento tutto si ferma alle buone intenzioni dei ministri e ai nomi altisonanti dei ministeri, che rischiano di non avere ricadute concrete. Anzi, quando si parla di cibo e agricoltura la responsabilità viene sempre messa sulle spalle dei consumatori, come se il semplice cambiamento degli stili di vita potesse portare a un cambiamento concreto.
«Sappiamo che chi mangia troppa carne subisce degli impatti sulla salute - ha sottolineato il ministro Cingolani, in linea con questa fiducia generale e mal riposta nel ‘consumatore verde’ - Allora si dovrebbe diminuire la quantità di proteine animali sostituendole con quelle vegetali. Modificando il modello di dieta e aumentando le proteine vegetali avremmo quindi un co-beneficio, migliorando la salute pubblica, diminuendo l’uso di acqua e producendo meno CO2».
La realtà è che i migliori co-benefici si innescano con solide misure di regolamentazione pubblica della produzione e sostegno alla transizione dei settori inquinanti tramite la tutela dei posti di lavoro e la promozione del ricambio generazionale. Qualcuno ha capito come i ministri “ecologisti” del governo Draghi vogliono costruire questa rivoluzione?
La prova di quanto il cibo e i sistemi alimentari contribuiscano profondamente sulla crisi climatica è sotto gli occhi di tutti. A testimoniarlo con forza è una recente stima della Banca mondiale che attribuisce al settore alimentare un valore di 8 trilioni di dollari. A cui vanno però aggiunti i costi nascosti - quelli ambientali e sanitari - dell’attuale sistema produttivo. Costi, che secondo le stime dell’istituto internazionale, ammontano a 6 trilioni di dollari.
Leonardo Sciascia sosteneva che se tutto è mafia, niente è mafia. Oggi stiamo attraversando lo stesso rischio per cui se tutto è transizione ecologica, niente è transizione ecologica. Per scongiurarlo, non resta che mettere in atto scelte coraggiose, magari iniziando dall’ascolto della società civile.
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