- Le nuvole di Venere, che sono per lo più composte da acido solforico, hanno molta meno acqua (e molto più acido) di quanto necessario anche alle forme di vita più estreme sulla Terra per poter sopravvivere.
- Questo è il risultato di una nuova analisi sull’abitabilità dell’atmosfera del pianeta. Questa scoperta mette un freno alle recenti ipotesi che hanno sostenuto che nell’alta atmosfera di Venere potesse esserci qualche forma batterica.
- Quelle nuvole sono 100 volte più secche del deserto di Atacama, che è il luogo più arido della Terra. Secondo i ricercatori se tra quelle nubi di Venere ci fosse vita sarebbe completamente diversa rispetto alla vita che conosciamo.
Le nuvole di Venere, che sono per lo più composte da acido solforico, hanno molta meno acqua (e molto più acido) di quanto necessario anche alle forme di vita più estreme sulla Terra per poter sopravvivere. Questo è il risultato di una nuova analisi sull’abitabilità dell’atmosfera del pianeta. Questa scoperta mette un freno alle recenti ipotesi che hanno sostenuto che nell’alta atmosfera di Venere potesse esserci qualche forma batterica.
Nel 2020, un gruppo di ricercatori, guidato da Jane Greaves dell’Università di Cardiff nel Regno Unito, aveva trovato prove di un composto chiamato fosfina nelle nubi tossiche di Venere. Sulla Terra, la fosfina è un sottoprodotto della vita e il gruppo di lavoro non era riuscito a trovare un altro modo per spiegare la sua presenza su Venere se non quello di ipotizzare che vi fossero dei batteri dispersi nell’aria venusiana. Ma ora un nuovo studio di John Hallsworth della Queen’s University di Belfast, nel Regno Unito, basato su una combinazione di esperimenti di laboratorio e osservazioni di sonde inviate su Venere alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, suggerisce che la vita potrebbe essere impossibile in quelle nuvole.
I ricercatori sono giunti a questa conclusione in base a calcoli sulla quantità di acqua presente nelle nuvole. Hanno dato il valore uno alla quantità d’acqua necessaria per sostenere la vita e il valore zero nel caso di totale assenza. Le simulazioni hanno trovato che per le nuvole di Venere il valore è inferiore a 0,004. «Si tratta di una concentrazione di acqua 100 volte inferiore a quella necessaria per la sopravvivenza dei microrganismi più resistenti alla mancanza d’acqua che esistono sulla Terra», ha affermato Hallsworth. «È un valore incolmabile da quello necessario affinché vi possa essere vita». In un ambiente così arido, le membrane che tengono insieme le cellule cadrebbero a pezzi. «Anche il microbo più tollerante al secco sulla Terra non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivere su Venere».
Quelle nuvole sono 100 volte più secche del deserto di Atacama, che è il luogo più arido della Terra. Secondo i ricercatori se tra quelle nubi di Venere ci fosse vita sarebbe completamente diversa rispetto alla vita che conosciamo. «Certamente qualsiasi forma di vita simile a quella esistente sulla Terra, anche i nostri estremofili più robusti, non resisterebbe a lungo lassù. Morirebbe in men che non si dica», afferma Clara Sousa-Silva dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics. C’è solo un elemento di speranza: il fatto che non sappiamo quali siano le leggi universali della biologia e dunque non possiamo escludere una qual forma di vita in grado di sopravvivere senza l’acqua. Sfortunatamente non sappiamo però come rilevare una vita non simile a quella terrestre. In ogni caso, per svelare questo e altri misteri che circondano Venere, sono in programma tre missioni verso il pianeta, due della Nasa e una dell’Esa che saranno lanciate il prossimo decennio. La loro esplorazione potrebbe aiutare a svelare il mistero dell’abitabilità delle nuvole.
I ghiacci si sciolgono
La criosfera, ovvero la superficie terrestre occupata dai ghiacci, si restringe ogni anno di 87mila km quadrati, una superficie estesa come poco meno di un terzo di quella italiana. È a questo ritmo che il cambiamento climatico, tra il 1979 e il 2016, ha fatto sparire grandi aree di coperture ghiacciate da tutta la Terra. Lo certifica uno studio pubblicato su Earth’s Future, il primo a fornire una stima globale molto accurata dell’estensione della criosfera. Nel sistema climatico terrestre la superficie occupata dai ghiacci è estremamente importante perché permette la riflessione di una grande quantità di radiazione solare rallentando così il riscaldamento del suolo. La maggiore o minore estensione dei ghiacci influisce anche sulla temperatura dell’aria e sul livello del mare, con tutte le conseguenze che ne derivano. La riduzione della criosfera misurata interessa soprattutto l’emisfero nord. È in questa parte del pianeta che ogni anno sono spariti in media 102mila km quadrati. Per fortuna tali perdite sono parzialmente compensate da una crescita della criosfera nell’emisfero meridionale. Il luogo dove l’espansione del ghiaccio marino fa recuperare circa 15.000 km quadrati all’anno è il mare di Ross.
Lo studio ha messo anche in luce che c’è una profonda variazione nella durata dei periodi dove la neve o il ghiaccio è stagionale. Nella maggior parte delle aree del pianeta, infatti, il primo giorno medio di congelamento si verifica ora circa 3,6 giorni dopo rispetto al 1979 e il ghiaccio si scioglie circa 5,7 giorni prima. Spiega Xiaoqing Peng, responsabile della ricerca: «La criosfera è uno degli indicatori climatici più sensibili e il primo a dimostrare un mondo che cambia. Non è un problema regionale o locale». L’Italia ovviamente non fa eccezione. L’ambiente alpino ha evidenti tendenze alla deglaciazione a causa dell’effetto combinato delle elevate temperature estive e della riduzione delle precipitazioni invernali, inoltre c’è una perdita costante di massa nei ghiacciai. A questi fenomeni si aggiunge una chiara tendenza al degrado del permafrost con un’elevata probabilità della sua totale scomparsa entro il 2040.
L’arte di Neanderthal
Come esseri umani abbiamo tratti piuttosto unici nel regno animale. La lingua ci permette di comunicare in modo efficiente tra noi. La cultura conserva e accumula la conoscenza attraverso le generazioni. La tecnologia e gli strumenti ci aiutano a risolvere i problemi. Simboli e arte rivelano indizi sulle nostre complesse esperienze. Ma un numero crescente di prove suggerisce che i tratti che tendiamo ad assumere come unici per l’homo sapiens di oggi, potrebbero essere stati presenti anche nei nostri cugini ominidi.
Un gruppo di ricercatori ha ora annunciato la scoperta di un osso di cervo gigante inciso 51mila anni fa, che venne prodotto dagli uomini di Neanderthal che vivevano sulle montagne dell’Harz, nel nord della Germania. Le incisioni sull’osso di cervo sono disposte in modo preciso e artistico in ”motivi chevron”, ossia onde a spigoli vivi. Fino a oggi c’erano scarsi tratti simbolici e artistici fatti risalire ai Neanderthal. Erano comunque già un indizio che quegli ominidi avevano tratti comportamentali complessi, come la capacità di produrre e ascoltare suoni simili al linguaggio degli umani moderni o come la produzione di strumenti tecnologici e il culto per i morti. Le nuove scoperte sollevano domande entusiasmanti su quanto possa essere stato veramente complesso il comportamento dei Neanderthal.
Gli archeologi Dirk Leder, Thomas Terberger e i loro colleghi, oltre ad aver datato l’osso, hanno potuto stabilire, tramite l’analisi microscopica e la replica sperimentale, che l’osso venne bollito per farlo ammorbidire prima di essere inciso. Fino a ora, le prove artistiche di Neanderthal ammontavano a motivi minimalisti di disegni fatti a mano sulle pareti delle caverne in tre siti spagnoli: La Pasiega, Maltravieso e Ardales. Gli autori del nuovo studio ritengono che l’incisione delle linee del “disegno a chevron”, combinato con il fatto che a quel tempo i cervi giganti (Megaloceros giganteus) erano rari a nord delle Alpi, «rafforzi l’idea che le incisioni abbiano avuto un significato simbolico importante e mostrino prove a sostegno dell’immaginazione concettuale nei Neanderthal», spiega Silvia Bello dal Natural History Museum di Londra, in un articolo di News & Views che si affianca al lavoro principale pubblicato su Nature. «La scelta del materiale, la sua preparazione prima dell’intaglio e la sapiente tecnica utilizzata per l’incisione sono tutti indice di sofisticata perizia e grande abilità nella lavorazione dell’osso».
Una domanda al centro di questa ricerca è se questi uomini di Neanderthal siano stati influenzati o meno dagli antichi, ma contemporanei, Homo sapiens nella produzione di quel tipo di osso intagliato.
Leder, che lavora al Servizio statale per i beni culturali della Bassa Sassonia, e i suoi colleghi ritengono che i Neanderthal avessero le capacità manuali e intellettuali per produrre il manufatto indipendentemente da qualsiasi influenza umana moderna. Sostengono la loro ipotesi con prove archeologiche che suggeriscono che l’Homo sapiens arrivò in quei luoghi diversi millenni dopo la datazione dell’osso inciso. Tuttavia, date le recenti prove dello scambio di geni tra Neanderthal e umani moderni oltre 50mila anni fa,
Bello pensa che non possiamo escludere la possibilità che l’Homo sapiens abbia avuto una qualche influenza sui Neanderthal nel produrre quel tipo di artefatti. «La possibilità di una conoscenza sulla tecnologia dell’intaglio acquisita dall’uomo moderno non sottovaluta, a mio avviso, le capacità cognitive dei Neanderthal», sottolinea Bello. «Al contrario, la capacità di apprendere, integrare l’innovazione nella propria cultura e adattarsi alle nuove tecnologie e ai concetti astratti dovrebbe essere riconosciuto come un elemento di complessità comportamentale».
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