Nasa, Noaa e l’International Solar Cycle Prediction Panel hanno confermato che il Sole ha raggiunto il “massimo solare”, leggermente prima del previsto nel suo ciclo di 11 anni. E lo si può dire perché grazie ad alcune sonde e a telescopi terrestri stiamo studiando il Sole come non abbiamo mai fatto in precedenza.

Il “massimo solare” è il momento in cui il Sole raggiunge il picco di attività nel ciclo solare, con un numero impressionante di macchie solari sulla superficie e il rilascio di un maggior numero di radiazioni, brillamenti solari, espulsioni di massa coronale e altri eventi esplosivi che si stanno verificando tutti con maggiore potenza e frequenza in questi ultimi mesi.

Quello a cui stiamo assistendo è il massimo attuale del Ciclo Solare 25 (il 25° ciclo dal 1755, quando è iniziata la registrazione dell’attività delle macchie solari) iniziato a dicembre 2019. Si prevede che durerà fino al 2030. Sapremo quando il ciclo ha effettivamente raggiunto il picco solo dopo che sarà passato completamente, ma questo sarà il “massimo” meglio studiato di qualsiasi altro mai registrato.

Abbiamo telescopi e veicoli spaziali e terrestri che stanno osservando il Sole in modi e con procedure senza precedenti e stanno già fornendo intuizioni rivoluzionarie sulla nostra stella e su cosa accade durante il suo periodo più intenso.

I tre attori

Ci sono tre grandi attori in questo lavoro che sono all’avanguardia.

Sulla Terra, il Daniel K. Inouye Solar Telescope della National Science Foundation alle Hawaii, che è il più grande telescopio solare al mondo e ha già scattato le immagini del Sole con la più alta risoluzione.

Nello spazio, la Parker Solar Probe della Nasa, l’oggetto più veloce creato dall’uomo nello spazio, sta documentando e catturando immagini e filmati di interesse unico mentre orbita attorno al Sole, mentre, infine, il Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea, il laboratorio scientifico più complesso mai inviato in prossimità della nostra stella, sta catturando viste dettagliate mai avute prima. Le due sonde hanno obiettivi complementari ma indipendenti.

L’obiettivo di Parker è “toccare il Sole”. L’astronave è l’oggetto più vicino al Sole che abbiamo mai inviato e vola attraverso la sua atmosfera raccogliendo misurazioni mentre gli ruota attorno. Da dicembre di quest’anno, si avvicinerà ancora di più, passando a soli 6,9 milioni di chilometri dalla superficie della stella.

«Fino a poco tempo fa osservavamo il Sole da lontano, non potevamo avvicinarci così tanto, ma ci sono alcune misurazioni di fondamentale importanza di cui abbiamo bisogno, in particolare dell’attività esplosiva del Sole, come i brillamenti e le espulsioni di massa coronale, che è possibile ottenere solo con misurazioni il più vicino possibile a esso», ha spiegato Nour Rawafi, tra i ricercatori del progetto per Parker Solar Probe. Questo non è mai stato possibile dall’alba dell’era spaziale. È stato solo quando Parker Solar Probe è diventata realtà che si è potuto avvicinarsi molto al Sole. Parker non ha telecamere che puntano direttamente alla stella. Una telecamera che puntasse al Sole a quelle distanze, infatti, farebbe cuocere la navicella stessa dall’interno verso l’esterno.

Ma per le foto, è lì che Solar Orbiter sta facendo un lavoro senza precedenti. La navicella dell’Esa nel suo punto più vicino è ancora diverse volte più lontana dal Sole di Parker, ma può fornire immagini senza precedenti grazie alla serie di telecamere poste a bordo. «L’unicità fondamentale di Solar Orbiter è duplice: in primo luogo, ci avviciniamo molto al Sole e quindi possiamo studiare la relazione tra il Sole stesso e il cosiddetto vento solare (il materiale che viene espulso dalla stella).

La seconda cosa è che, a partire dall’anno prossimo, potremo effettivamente osservare il campo magnetico dei poli del Sole», spiega David Williams, responsabile scientifico degli strumenti di bordo della Solar Orbiter. La sonda, infatti, andrà dove nessun veicolo spaziale è mai arrivato prima, allontanandosi sempre di più dal piano dell’eclittica. In pratica, l’orbita del veicolo spaziale sarà inclinata rispetto all’orbita della Terra, e questo gli consentirà di vedere e studiare i poli del Sole.

Questa è certamente una prospettiva unica da dove studiare la stella, dagli eventi esplosivi che il Sole rilascia, come le espulsioni di massa coronale, che, se sono molto forti e colpiscono la Terra, causano anche le spettacolari aurore che abbiamo visto quest’anno, a quel che avviene in quell’area della stella poco conosciuta. Solar Orbiter è stato determinante nel misurare come si comportava la macchia solare responsabile dell’evento aurorale globale di maggio. Ha registrato uno dei brillamenti più potenti degli ultimi 20 anni, che ha messo in difficoltà persino i robot su Marte.

Quella misurazione è stata fatta grazie al nostro spettrometro a “raggi X duri” (raggi X con una determinata lunghezza d’onda) a bordo della sonda. Ci offre una visione del massimo solare da un altro punto di osservazione, a seconda di dove ci troviamo nell’orbita. Quando la sonda sarà fuori dal piano dell’eclittica, a partire dal 2025, avremo un altro punto di osservazione per studiare le tempeste solari che possono provenire da quelle regioni attive, qualcosa che sta molto a cuore agli astronomi.

Non è la stessa cosa, infatti, che osservare quelle espulsioni di massa coronale dal piano dell’eclittica. Le incredibili capacità di queste sonde spaziali non devono però far sottovalutare il modo in cui possiamo osservare il Sole da Terra. Il telescopio solare Daniel Inouye della National Science Foundation degli Stati Uniti, con la sua apertura di 4 m di diametro, ha già fornito immagini senza precedenti del Sole, tra cui una macchia solare più grande della Terra. E, proprio come nello spazio, l’approccio sulla Terra è multi-lunghezza d’onda.

Dalle onde radio ai raggi X duri, il Sole è tenuto sotto stretta osservazione. «L’Inouye Solar Telescope è il più grande telescopio solare di un certo margine, e fornisce osservazioni del Sole con una risoluzione senza precedenti. Anche le capacità alle lunghezze d’onda radio e microonde hanno fatto molta strada, grazie ai miglioramenti in più strutture, tra cui l’Expanded Owens Valley Solar Array e il Low-Frequency Array», ha spiegato Ryan French, del National Solar Observatory.

Un momento da sfruttare

Tutti i team con cui abbiamo parlato hanno sottolineato che queste sonde spaziali e telescopi non sono stati progettati con l’obiettivo specifico di studiare il massimo solare, ma sono dotati degli strumenti giusti per sfruttare al meglio questo periodo emozionante e attivo. Parker e Solar Orbiter sono stati lanciati durante l’ultimo minimo solare, e il telescopio Inouye ha avuto la sua prima luce proprio in quel periodo.

Quando il Sole è calmo è il momento perfetto per lanciare una sonda per studiarlo. Il motivo è che, per sua natura, l’ambiente del Sole è così complesso che è meglio iniziare dallo stato di base di quell’ambiente. Quando l’attività solare aumenta, ne consegue una maggiore complessità e quindi si amplia la comprensione man mano che si osserva la stella nel suo evolversi. Solar Orbiter ha molti strumenti a bordo in grado di osservare la massima attività in atto, sia che si tratti di riprendere i raggi X duri o le particelle che vengono espulse dal Sole. I dati raccolti da quando questi strumenti sono stati messi online sono stati a dir poco rivoluzionari.

Ci stiamo avvicinando alla risoluzione di misteri di vecchia data come, ad esempio, il problema del riscaldamento coronale, ossia il fatto che la “corona solare” è molto più calda (milioni di gradi) che non la superficie del Sole (migliaia di gradi), e gli scienziati solari continuano a esaminare attentamente i dati raccolti negli ultimi cinque anni. Sebbene la maggior parte delle missioni solari avrà una durata che si estende oltre il ciclo solare, i dati ottenuti durante questo massimo solare saranno fondamentali per iniziare a rispondere a queste domande fondamentali sulla nostra stella locale.

I prossimi mesi saranno estremamente interessanti perché ci si aspetta grandi brillamenti, espulsioni di massa coronale e aurore ancora più spettacolari di quelle osservate durante l’ultimo anno.

Incendi sempre più a nord

Gli incendi sono da tempo una parte naturale degli ecosistemi forestali, ma qualcosa sta cambiando. Un nuovo studio mostra che gli incendi boschivi sono diventati più diffusi e gravi a causa del riscaldamento globale, in particolare alle alte latitudini settentrionali come Canada e Siberia, dove gli incendi sono più sensibili a condizioni più calde e secche. Le implicazioni di ciò sono allarmanti, non solo per gli ecosistemi interessati o per le città avvolte dal fumo sottovento, ma anche per la capacità del pianeta di immagazzinare carbonio e regolare il clima.

Questa tendenza contrasta con la diminuzione dell’estensione degli incendi a livello globale e soprattutto nelle praterie delle savane. Le ricerche dicono che dal 2001 le emissioni derivanti dagli incendi nelle foreste al di fuori dei tropici, come parti della foresta boreale nell’estremo nord del Nord America e dell’Eurasia, sono quasi triplicate.

Questo aumento è in gran parte dovuto al fatto che il clima più caldo e secco si verifica più frequentemente, combinato con foreste che crescono in modo più efficiente in luoghi in cui il freddo un tempo ne bloccava la rapida crescita. Il cambiamento climatico dunque, sta creando le condizioni ideali per incendi più grandi e intensi, che a loro volta accelerano il cambiamento climatico rilasciando più carbonio nell’atmosfera.

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