- Il comune di Roma prosegue lungo la strada del nuovo termovalorizzatore. Sarebbe una sconfitta ecologica forse inevitabile, un modo per risolvere tra qualche anno i problemi del presente sulla raccolta differenziata e la frazione umida, cristallizzandoli però per i decenni a venire
- Per immaginarsi senza un nuovo grande termovalorizzatore da 600mila tonnellate all’anno Roma dovrebbe avviare un vasto programma di ripensamento del ciclo dei rifiuti che non sembra in grado di affrontare, con i cittadini esasperati dai cumuli di rifiuti
- Per questo motivo il progetto è diventato una bomba inesplosa nel PD, tra la vecchia gestione che governa Roma (amministrare il presente senza immaginare il futuro) e quella nuova di Schlein (immaginare il futuro andando oltre il presente)
Per usare il linguaggio delle relazioni geopolitiche, con il suo ciclo di rifiuti Roma è diventata da tempo una terra senza opzioni buone, in cui ogni scelta futura contiene un dosaggio di sconfitta.
La decisione del comune di dare il via alla costruzione di un termovalorizzatore (o inceneritore) di grandi dimensioni, da 600mila tonnellate all’anno, è una sconfitta ecologica, e andrebbe raccontata come tale anche dal sindaco Gualtieri, accettata per gestirne una molto più grande, ereditata da decenni di errori: una capitale sommersa dalla spazzatura.
Come dice Francesco Ferrante, vicepresidente di Kyoto Club, una delle tante organizzazioni che si oppongono alla nuova infrastruttura, «C’è disonestà intellettuale nel presentare il progetto come avanzato, tecnologico, europeo - quando in Europa da tempo si è smesso di seguire questa strada - e non per quello che al massimo è: un amaro calice. Ma onestà politica a parte, così si perde l’occasione di fare una città più moderna». Ecco. Si può davvero arrivare a questa Roma modello dell’ecologia? Per la capitale non costruire il nuovo termovalorizzatore sarebbe una scommessa su sé stessa, vorrebbe dire iniziare un programma di trasformazione radicale del sistema rifiuti, a partire dall’azienda pubblica di gestione, l’Ama, avviando un processo ambizioso nelle peggiori condizioni possibili, senza un orizzonte chiaro, in una città non ha più margine di sopportazione.
Secondo un sondaggio Izi di qualche mese fa, l’84 per cento dei romani è favorevole al termovalorizzatore ma, come dice una voce autorevole dentro il comune, «avremmo avuto gli stessi risultati se avessimo chiesto l’opinione su una grande buca per spedirli al centro della Terra». Il termovalorizzatore è l’arma nucleare, la grande infrastruttura che mangia, digerisce e trasforma in (poca) energia il grande rimosso della città e delle sue cattive abitudini. Farne a meno sarebbe la scelta ecologicamente più corretta, ma implicherebbe un patto di cittadinanza per portare la differenziata a livelli europei, guadagnando 25 punti percentuali in un decennio, senza nessuna garanzia di successo.
Servirebbe una capacità di coinvolgimento che a Roma è da tempo impossibile per chiunque. Sarebbe un viaggio verso l’ignoto, che potrebbe avvicinarla al modello aspirazionale Milano o finire di renderla disfunzionale e tossica. L’esasperazione quotidiana che si respira a Roma è la prima nemica dell’ambientalismo. E allora si è scelta la strada del termovalorizzatore, che ha una serie di vantaggi: risultati certi, anche se in tempi non brevi (si parla del 2026), l’autonomia rispetto alla dipendenza dall’esportazione, la libertà dal doppio nodo di dipendenza dal malaffare e da dinamiche di mercati geograficamente sparsi.
Realismo pessimista
Il termovalorizzatore chiuderebbe la partita intorno alla decisione di bruciare in città, senza chiudere aiuto a nessuno, un terzo dei rifiuti, sarebbe allo stesso tempo un’attenuazione e la cristallizzazione delle inefficienze del presente. Come spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente (anche loro contrari, con tanto di ricorso al Tar), «Si parla tanto di chiudere il ciclo dei rifiuti, ma questa attenzione a quello che succede alla fine del processo la distoglie dai veri problemi, che sono quelli all’inizio, come i rifiuti vengono prodotti, differenziati e raccolti». I guasti del sistema sono noti: la raccolta porta a porta della differenziata è un miraggio, i progetti per gli impianti di smaltimento dell’umido – che rende la città così maleodorante – sono fermi.
La domanda di fondo è tra il realismo di chi pensa che Roma non potrà mai essere migliore di quella che è, e allora meglio gestirne i guai che sognare, e l’ottimismo di chi spera che Roma possa arrivare a ridurre drasticamente i rifiuti non riciclabili, arrivando a una quota gestibile senza nuovo termovalorizzatore. Secondo Edo Ronchi, ex ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione sviluppo sostenibile, oggi non c’è alternativa a quel realismo un po’ pessimista. «Esportare, come fa oggi Roma, ha costi ambientali altissimi, la città ha la più grossa concentrazione di rifiuti solidi urbani d’Italia, con oltre 2 milioni di tonnellate all’anno. In queste condizioni o termovalorizzatore o discarica.
Si guarda tanto a Milano, ma in Lombardia di termovalorizzatori ce ne sono tre. Quello di Parma, oggetto di tante polemiche, funziona benissimo». Il punto è che quello di Parma, e quelli di Amsterdam e Copenaghen, per funzionare sono costretti a importare rifiuti. Un termovalorizzatore come quello immaginato da Gualtieri ha il paradosso di aumentare la domanda di rifiuti invece di ridurla.
È un’infrastruttura che si assorbe in trent’anni, costruirlo significa smettere di immaginare che Roma possa evolversi. Sarebbe una sconfitta, forse la sconfitta necessaria di una città che non riesce più pensarsi diversa da quella che è, ma avrebbe bisogno di essere raccontato come tale ai cittadini. Ed è per questo che sta diventando una bomba inesplosa nel PD, tra la vecchia visione che regna in città (amministrare il presente senza immaginare il futuro) e quella nuova di Schlein (immaginare andando oltre il presente). Non c’è una risposta giusta a prescindere, perché la vera domanda che l’inceneritore contiene è: che Roma vogliamo, e che Roma possiamo avere?
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