Di solito ci sono milioni di erbivori che scorrazzano e un po’ di lupi, leoni e tigri che si nutrono della loro carne. Adesso siamo sette miliardi, e vogliamo tutti fare la parte del leone, avere la nostra libbra di carne. Questo brano è tratto dall’ultimo volume di The Passenger, “Spazio”, appena uscito in libreria
- L’overview effect, o effetto della veduta d’insieme, è l’effetto che gli astronauti descrivono quando vedono l’intero pianeta dallo spazio. Vedono che casa, la Terra, è un puntino azzurro, fragile, solitario, sconfinato e unico.
- Tutto perde di significato, politica, mode, religioni, guerre, tutto fuorché la profonda comprensione di quanto sia preziosa questa minuscola sfera azzurra.
- La massa «antropogenica», creata dall’uomo, ha superato l’intera biomassa vivente sulla Terra. I nostri prodotti, il nostro cemento, le nostre fabbriche, la nostra agricoltura e la nostra produzione raddoppiano ogni vent’anni.
Stiamo su una sottile crosta di roccia e terreno sopra a una palla fluttuante di magma che viaggia intorno a un sole che brucia. Ci protegge dalle radiazioni uno strato sottilissimo di atmosfera. Ed è qui che viviamo, lavoriamo, ce la spassiamo e poi moriamo, per essere infine riciclati in questo sistema a circuito chiuso e diventare materia prima per qualche altra cosa. Terreno, animali, fossili.
Da bambino bramavo lo spazio. Avevo una voglia matta di fluttuare, in assenza di gravità, di vedere la Terra da lontano, di saltellare sulla Luna. Ricordo un fatto accaduto quando avevo dodici anni, mi allenavo con gli sci e tutte le sere ero sulle Montagne Blu vicino a Reykjavík. A gennaio le giornate duravano pochissimo, così sciavamo alla luce dei lampioni. Me ne stavo seduto nel ronzio della seggiovia a guardare la gente che veniva giù dalla montagna. Gli sciatori illuminati dalla luce artificiale avevano tre ombre, che si muovevano mentre sfrecciavano tra i lampioni, creando uno strano effetto 3D.
Senza luce
Faceva freddo, ero ben attrezzato con muffole e occhiali da sci e li guardavo passare velocissimi quando all’improvviso andò via la luce e la seggiovia sobbalzò, fermandosi di colpo.
I lampioni si spensero e sulla montagna scese la completa oscurità. Tutto tacque e i sedili ondeggiarono dolcemente al buio. Mentre dondolavamo aggrappati al sedile che penzolava dal cavo nel buio più assoluto, realizzai di non essermi mai accorto di quanto la seggiovia fosse rumorosa. Avevamo gli stomaci in subbuglio, io ero terrorizzato che il sedile si staccasse dal cavo o che nell’andare su e giù venissi catapultato in aria. Per una qualche ragione quando guardavo in alto mi sembrava di guardare in basso. La cosa durò solo pochi secondi, durante i quali mi sembrò di avere gli occhi sull’abisso più profondo in cui mi fossi mai imbattuto. Ebbi le vertigini, c’erano stelle tra le stelle che non avevo mai visto prima e l’aurora boreale risplendeva nel cielo con le sue tonalità spettrali di azzurro. In quella gelida quiete capii di essere già nello spazio, ero piccolissimo rispetto a questa vastità infinita.
L’overview effect, o effetto della veduta d’insieme, è l’effetto che gli astronauti descrivono quando vedono l’intero pianeta dallo spazio. Vedono che casa, la Terra, è un puntino azzurro, fragile, solitario, sconfinato e unico. Tutto perde di significato, politica, mode, religioni, guerre, tutto fuorché la profonda comprensione di quanto sia preziosa questa minuscola sfera azzurra.
Quello che sperimentai io non era l’effetto della veduta d’insieme. Era qualcosa di molto più antico, forse la più antica esperienza collettiva dell’umanità. La sensazione che aveva provato ogni singolo bambino della Terra prima dell’era delle città e dell’illuminazione elettrica. Adesso che sempre più persone tra noi crescono in città, ha smesso di essere un’emozione collettiva. Era un raro incontro con la più grande entità della natura intorno a noi: lo spazio.
Dopo quella strana serata, camminando per la città avevo sempre la sensazione di perdermi qualcosa, soprattutto nel buio delle giornate invernali, quando anche l’aurora boreale è pallida. Sentivo questa cupola di luce sopra la città, che creava una barriera tra noi e l’universo.
Sul piano culturale, siamo cresciuti con l’epica spaziale, gli allunaggi, le immagini di Hubble e un sapere che un secolo fa, quando i filosofi si interrogavano sulle civiltà presenti sulla Luna e su Marte, era inimmaginabile. Siamo controllati e monitorati dallo spazio, ogni minuto dai satelliti riceviamo messaggi, intrattenimento e informazioni, previsioni del tempo e coordinate Gps per le nostre passeggiate quotidiane. Tutti i nostri movimenti sono mappati dallo spazio con una risoluzione di pochi centimetri.
È paradossale che mentre lo spazio è diventato una parte sempre più grande della nostra vita quotidiana, e mentre la conoscenza di supernove, buchi neri e altri elementi dell’universo non è mai stata così accurata, noi come esseri umani non siamo mai stati così disconnessi dal cielo sopra di noi. Mio zio faceva il pilota di aerei e mi raccontava come negli anni Sessanta si attraversava l’Atlantico coi Jumbo jet orientandosi con le stelle; poi i sistemi satellitari presero il controllo. Mio zio mi sembrava l’ultimo esemplare di un’ininterrotta tradizione lunga ventimila anni di navigazione astronomica.
Senza stelle
Siamo la prima generazione senza stelle sopra le nostre teste, sopra le nostre città abbiamo una volta fluorescente. Il lato oscuro della Terra adesso di notte è illuminato. Che effetto ha sulla nostra psiche non avere accesso a un cielo nero e profondo? Che effetto filosofico, estetico, spirituale ha? Non passare mai ore a guardare l’infinito, stupefatti? Che cosa significa crescere un’altra generazione di esseri umani senza questa influenza o stimolo? Come misuri l’assenza? Avere accesso al cielo notturno è un diritto dell’uomo?
Il nostro pianeta è costantemente bombardato da piccoli meteoriti e una volta ogni qualche milione di anni può essere colpito da un esemplare più grande. L’asteroide che ha distrutto quasi tutta la vita sulla Terra, che con il suo impatto ha creato il cratere Chicxulub 65 milioni di anni fa, ha disturbato il ciclo terrestre del carbonio e ha rilasciato all’incirca seicento-mille miliardi di tonnellate di anidride carbonica nell’atmosfera, causando l’acidificazione degli oceani e spazzando via più o meno il 75 per cento degli esseri viventi. La flotta dei nostri trasporti rilascia più o meno dieci miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno. Per cui basterà una sessantina di anni perché le nostre automobili portino la Terra al limite, verso i livelli di stress dell’impatto di un asteroide. Con tutte le nostre attività messe insieme, ci vorrà una ventina di anni per immettere seicento miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera. L’asteroide siamo noi.
Se gli alieni monitorassero il nostro pianeta all’incirca ogni cinquant’anni, quello che scoprirebbero sarebbe a dir poco inquietante. Se fossero venuti nel 1820 e poi nel 1870, nel 1930, nel 1980 e nel 2020, avrebbero osservato una trasformazione al di là di ogni loro possibile immaginazione.
La massa «antropogenica», creata dall’uomo, ha superato l’intera biomassa vivente sulla Terra. I nostri prodotti, il nostro cemento, le nostre fabbriche, la nostra agricoltura e la nostra produzione raddoppiano ogni vent’anni. Il sessanta per cento di tutti i mammiferi sulla Terra sono bestiame, soprattutto suini e bovini, il trentasei per cento sono esseri umani, solo il quattro per cento sono animali selvatici. Il settanta per cento di tutti gli uccelli sono pollame di allevamento, solo il trenta per cento sono selvatici. Quando abbiamo cambiato gli habitat o colonizzato nuove terre per i nostri allevamenti, spesso eravamo convinti che gli animali selvatici se ne sarebbero andati «via», in altri posti. Ma non è questo che è successo. Hanno semplicemente smesso di esistere.
Quello che era un pianeta di diversità e fauna e piante selvatiche è diventato una enorme monocultura. Invece di uccelli liberi, abbiamo polli in gabbia che superano per volume tutti gli altri uccelli, invece di leoni e bufali, elefanti e zebre, abbiamo bovini nei recinti e maiali che nemmeno stanno in stie ma dentro gabbie. E vedranno, gli alieni, che abbiamo anche capovolto le leggi naturali. In natura i predatori dominanti sono rari. Di solito ci sono milioni di erbivori che scorrazzano e un po’ di lupi, leoni e tigri che si nutrono della loro carne. Adesso siamo sette miliardi, e vogliamo tutti fare la parte del leone, avere la nostra libbra di carne. Non era mai successo sulla Terra prima d’ora. E di fatto è insostenibile sul lungo periodo.
Gli alieni potrebbero chiedersi, che cosa è successo? E scoprirebbero che gran parte dell’evoluzione di questi animali è inutile nel contesto di ciò di cui un essere umano ha bisogno per sopravvivere. Scriverebbero di questo regime di esseri umani sul pianeta, che domina ogni forma di vita e fa deragliare i sistemi non per necessità, ma per via di idee, di costumi, di cultura. Si gratterebbero il capo davanti a simili scoperte, sì, direbbero, gli esseri umani sono dotati di una certa intelligenza, sanno essere anche brillanti, e belli – ma la nostra intelligenza collettiva non gli sembrerà tanto diversa dalle forme più semplici presenti in natura. Come la fioritura di quell’alga che cresce fino a consumare tutte le sue risorse per poi semplicemente sfiorire quando ha esaurito quelle stesse risorse.
Ed è un po’ deludente. Siamo così semplici?
Traduzione di Tiziana Lo Porto
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