La conferenza Onu sul clima parte sotto i peggiori auspici, tra tentativi di inquinare i risultati da parte dei paesi produttori di combustibili fossili, distrazione causata dalle guerre e in corso e assenze dei leader più importanti
Sotto i peggiori auspici: è così che parte oggi a Dubai, negli Emirati Arabi, la Cop28, la conferenza annuale dell'Onu sui cambiamenti climatici. L'avvicinamento al vertice è stato segnato dagli scandali, un fiume di documenti riservati ha fatto emergere diversi tentativi di svuotare il processo e minare i risultati, a partire dai memo sulle proposte di vendita di petrolio e gas a margine degli incontri governativi dell'arbitro e guida diplomatica del summit, gli Emirati, passando per il piano saudita di convincere le economie emergenti a rallentare le loro transizioni e affidarsi ancora di più ai combustibili fossili, principale causa dell'emergenza climatica.
Il conflitto di interessi del paese organizzatore sarà uno dei temi centrali di queste due settimane: quanto è credibile affidare i negoziati sulla decarbonizzazione a un paese che ha costruito tutta la propria prosperità sull'esportazione di petrolio e gas?
Sarà quasi del tutto assente la società civile, la cui pressione è uno dei motori di funzionamento di questo tipo di vertici, qui scoraggiata dalla scarsa propensione al dissenso e alle proteste che si respira a Dubai. Ci saranno figure carismatiche dell'ambientalismo, come re Carlo, ne mancheranno troppe di politiche: non ci saranno i leader del primo e secondo paese per emissioni, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e quello cinese Xi Jinping.
Infine, il contesto: il mondo arriva più fratturato e distratto che mai a questa Cop28. L'Onu non ha strumenti coercitivi per imporre o forzare la transizione globale, attraverso le Cop per trent'anni ha costruito e mandato avanti un percorso basato sulla cooperazione e la fiducia, materie prime che oggi non abbondano. Ed è sempre più difficile tenere il clima isolato dalle altre tensioni internazionali.
Le questioni sul tavolo
La Cop27 del 2022 in Egitto si era chiusa con un cliffhanger, uno di quei finali a sorpresa da stagione di una serie Tv: l'inattesa creazione di un fondo per compensare i danni e le perdite causati dalla crisi climatica ai paesi più poveri, fragili e vulnerabili.
Lo strumento è stato solo formalmente istituito, per renderlo operativo a Dubai i paesi dovranno mettersi d'accordo su come vada finanziato, chi sono i donatori, chi ha diritto a ricevere i fondi, a quali condizioni. Sono domande che aprono voragini politiche: la Cina può ancora considerarsi un «paese in via di sviluppo», quale formalmente è tutt’ora a dispetto di ogni evidenza, e quindi rimanere fuori dalla lista di chi è tenuto a riparare i danni climatici, o si può finalmente prendere atto del suo status di prima economia al mondo per emissioni di gas serra?
Le aziende energetiche possono rimanere fuori da queste riparazioni o dovranno contribuire? Avranno diritto alle compensazioni solo i microstati insulari del Pacifico e i più poveri di Asia e Africa o potranno accedervi anche grandi economie emergenti come Indonesia, Nigeria, Kenya, Filippine? Può davvero essere la Banca Mondiale a gestire questo fondo? Ognuna di queste domande nasconde un conflitto, ci saranno due settimane per risolverli.
L'istituzione di un fondo danni e perdite in Egitto era stata presa anche come un segnale: la comunità mondiale si sta rassegnando a non poter fermare gli effetti peggiori dell'emergenza climatica. Nelle ultime Cop il tassello mancante è stato quello più importante: la mitigazione del danno climatico, cioè la riduzione delle emissioni.
Da anni alle Cop si parla molto più di finanza che di gas serra. Gli ultimi rapporti rispecchiano questa realtà: le emissioni globali crescono, la quantità di Co2 in atmosfera pure, l'aumento di temperature è superiore a quello che prospettavano i modelli e la traiettoria delle policy attuali ci porta verso territori inesplorati e pericolosi, nella zona di +3°C entro fine secolo.
Uno degli elementi più importanti di questa Cop28 sarà un processo tecnico, si chiama Global Stocktake, è la misurazione ufficiale dei progressi fatti dall'accordo di Parigi sul clima (2015) a oggi. Non si attendono sorprese sui risultati, che saranno deludenti.
La parola chiave di questa Cop28 sarà: «phase-out». La sua menzione o meno nel documento finale sarà l'asticella principale per misurare i risultati del vertice. Arrivarci è la posizione negoziale di partenza dell'Unione europea e di una coalizione di decine di paesi, tra cui i più vulnerabili agli effetti peggiori della crisi. Sarebbe il risultato più ambizioso e produttivo: un patto globale per l'uscita dalla produzione e dall'utilizzo di combustibili fossili.
Non avrebbe effetti immediati, il corso dell'energia globale si indirizza sulla scala dei decenni, ma sarebbe una sterzata diplomatica per rimettere il mondo in asse. La Cop28 sarà una battaglia al cuore della transizione: l'obiettivo di triplicare le rinnovabili (già concordato informalmente tra Usa e Cina) sarebbe inutile se in parallelo non si creassero le condizioni per una sostituzione di energia sporca con energia pulita (per ora abbiamo solo sommato le due). Le condizioni tecnologiche ci sono, finora sono mancate quelle politiche.
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