L’uragano Helene è stato una tempesta diversa dalle altre. È stata forte (categoria 4 su 5), ma è stata anche estesa, fino a oltre 700 chilometri, praticamente quanto metà dell’intero Golfo del Messico, e ha portato la sua scia di distruzione molto lontano dalla costa e dal punto del suo primo impatto, in luoghi che si ritenevano al sicuro da questo tipo di eventi estremi.

Sarà uno dei disastri più gravi nella storia degli Stati Uniti: 250 miliardi di dollari di danni, 180 vittime accertate. Il luogo simbolo è Asheville, in North Carolina, cittadina sugli Appalachi sulla quale via Google si trovano due tipologie di notizie. Quelle uscite prima di Helene la descrivono come un «paradiso climatico», una comunità il cui principale problema era la gentrificazione ecologica, perché la mitezza del clima e la sicurezza dagli eventi estremi della costa (600 metri di altitudine, 500 chilometri dall’Atlantico) aveva fatto volare i prezzi immobiliari.

Le notizie uscite dopo l’uragano invece sono quelle che abbiamo letto in questi giorno: decine di morti (nella contea il conteggio finale è arrivato a 54), quartieri che rimarranno isolati per settimane, perfino il centro studi sul clima (uno dei motori dell’economia locale) è andato offline e non è chiaro quando tornerà a essere operativo per fornire i suoi servizi agli agricoltori, alla Nasa e alla Noaa.

In North Carolina il passaggio di Helene renderà difficile anche le operazioni di voto per le elezioni presidenziali che si terranno tra un mese, e non è nemmeno il paradosso climatico più grande della politica degli Stati Uniti in questo momento. La campagna elettorale si sta tenendo alla larga dal riscaldamento globale, anche il dibattito tra i due candidati alla vice-presidenza è stato un confronto tra due opposti modi di preservare lo status quo. Il democratico Tim Walz ha rivendicato (come Kamala Harris prima di lui) le estrazioni fossili degli Stati Uniti, come se non fossero collegate ai disastri di queste ore.

Zona di guerra

La politica Usa ignora il clima, ma il clima non ignora gli Usa, che sono diventati una specie di zona di guerra dal punto di vista degli eventi estremi. Tra il 2019 e il 2024 ogni singolo stato dell’Unione è stato colpito più volte da un disastro naturale di grandi dimensioni (cioè di costo superiore al miliardo di euro).

Ancora una volta, il North Carolina colpito da Helene è un esempio di questa fragilità ecologica: secondo i dati del National Centers for Environmental Information, tra il 1980 e il 2009 lo stato veniva colpito in media da un evento estremo all’anno. Ora lo stesso stato viene colpito in media tra sei o sette eventi estremi all’anno. Le infrastrutture (strade, ponti) sono collassate, scrive Bloomberg, perché erano semplicemente progettate per un altro mondo.

Uno dei punti fermi delle analisi climatiche negli ultimi anni è stato il dato che gli eventi estremi stanno aumentando in frequenza e intensità, e stanno diventando più costosi, ma stanno anche facendo meno vittime. Una nuova ricerca, pubblicata su Nature e non collegata a Helene (ma ovviamente molto pertinente al suo impatto futuro), ha mostrato come dobbiamo iniziare a cambiare anche il modo in cui si contano le vittime di un evento estremo.

Un’analisi su 500 cicloni che hanno colpito gli Stati Uniti negli ultimi decenni ha calcolato che si continua a morire, nei luoghi colpiti, anche quando l’acqua si è ritirata, il fango è stato asciugato e le case sono state ricostruite.

Un uragano in media porta a 11mila vittime in eccesso, molto più delle stime ufficiali. Secondo gli studiosi, non esistono solo le morti dirette e traumatiche delle tempeste, ma anche quelle indirette, che continuano a essere elevate per quindici anni dopo l’evento, soprattutto tra le persone più vulnerabili: anziani, minoranze, persone malate.

Le conseguenze legali 

Tra le conseguenze nascoste delle tempeste ci sono anche quelle legali: non solo l’aumento delle migrazioni interne, ma anche della povertà, della marginalità, del numero di persone che perdono la casa non perché è distrutta, ma perché non sono più in grado di pagare mutuo e riparazioni e finiscono così in strada. Il New York Times ha raccontato di un’unità di volontari che dopo l’uragano Katrina ha iniziato a diventare operativa dopo il passaggio di ogni evento estremo.

È una squadra di legali e avvocati esperti in servizi post-disastro per la American Bar Association Young Lawyers Division. Lavorano pro bono e supportano i sopravvissuti nella lunga catena di incombenze con le compagnie assicurative, ma anche per difenderli dagli sciacalli della truffa che si attivano su quei territori. Questa unità fino al 2016 si attivava in media sei volte l’anno, ora il numero di disastri a cui rispondere è raddoppiato.

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