La recente ondata di gelo ha causato danni ingenti all’intero comparto agricolo mostrando la fragilità di un Paese non ancora pronto a fare i conti con i cambiamenti climatici
- La gelata che ha colpito il Centro-nord Italia ha causato milioni di danni a ortaggi e alberi da frutta.
- Anche il vino sta sperimentando le conseguenze del riscaldamento globale, con impatti preoccupanti per una delle eccellenze più riconosciute del Made in Italy
- Gli agricoltori per primi dovrebbero chiedere e attuare misure di mitigazione del surriscaldamento globale, invertendo la rotta di un fenomeno che altrimenti rischia di diventare incontrollabile.
«La situazione è veramente drammatica». Mirco Gianaroli è un viticoltore, produce Lambrusco nel modenese ed è il presidente del settore vitivinicolo di Confagricoltura Emilia-Romagna.
Per capire le conseguenze profonde dei cambiamenti climatici, l’impatto che hanno sulla vita quotidiana delle persone, dobbiamo partire dalle sue parole e dall’ondata di gelo che ha colpito il centro-nord Italia nei primi giorni di aprile. Ondata che ha messo in ginocchio l’intero comparto.
«È stato un evento che non si vedeva da trent’anni. Neanche mia madre ricorda nulla di simile». All’indomani della settimana di Pasqua, quando la primavera sembrava ormai aver scalzato l’inverno, le previsioni meteo sono arrivate come una doccia fredda sulle speranze degli agricoltori: «È in arrivo un’irruzione artica con pioggia, gelate e grandine», hanno detto i meteorologi mostrando le immagini satellitari di una enorme massa di freddo proveniente dal mare di Norvegia e dall’Islanda. Un freddo talmente imponente da toccare temperature di meno 4-5 gradi.
Bollettino di guerra
Pierluigi Randi, meteorologo e vice presidente di Ampro, l’associazione meteo professionisti, da anni monitora l’andamento climatico in Emilia-Romagna. Dopo un lungo elenco di numeri, percentuali, statistiche e comparazioni con gli anni precedenti, mi spiega che «l’anomalia principale di questa sferzata di freddo è data dalla rapidità con cui si è manifestata. È arrivata così rapidamente che neanche la protezione delle Alpi è riuscita a frenarne l’avanzata». Non solo: «Il gelo è arrivato dopo giorni di caldo anomalo, con picchi di 28 gradi, assolutamente fuori dalle media stagionale». Insomma, prima il caldo torrido, poi un’ondata di gelo a distanza di poche ore. Secondo Randi è un fenomeno che dimostra come «questi eventi estremi siano dovuti ai cambiamenti climatici». Il risultato è simile a un bollettino di guerra che si ripete anno dopo anno. In Trentino i danni maggiori si sono registrati nel ciliegio e nel melo. Per i ricercatori della Fondazione Edmund Mach si è trattato di «una gelata memorabile durata ben 13 ore, simile solo a quelle del 1997 e del 2017». In Toscana il gelo ha portato le temperature ben al di sotto dello zero, colpendo ortaggi e alberi da frutta. Situazioni simili si sono verificate in Sardegna, Veneto e Piemonte. Lo stesso è accaduto in Emilia-Romagna. Secondo Confagricoltura, «rispetto al disastro delle gelate dello scorso anno, con danni per 400 milioni di euro che hanno messo in ginocchio migliaia di aziende e ha decimato il raccolto di albicocche, susine, pesche, nettarine e ciliegie, quest’anno il bilancio si preannuncia più grave perché sono numerose le specie frutticole danneggiate e tanti i vitigni».
Serena Galassi gestisce insieme al marito un’azienda agricola con frutteti e vigneti nella zona di Faenza. «Quando siamo andati in campo abbiamo trovato le gemme cotte e le foglioline che stavano crescendo erano diventate croccanti». Il calcolo dei danni per la sua azienda è presto fatto, mi dice, «questa gelata ci è costata 250mila euro».
Lo stesso destino è toccato ai produttori di Lambrusco, che hanno trovato i germogli delle loro vigne completamente lessati dal freddo. È presto per quantificare i danni dell’intero comparto. Ma è chiaro che anche il vino sta sperimentando le conseguenze del riscaldamento globale, con impatti preoccupanti per una delle eccellenze più riconosciute del Made in Italy. Solo contando i vini a denominazione di origine controllata (Doc), controllata e garantita (Docg) e con indicazione geografica tipica (Igt), nel nostro paese ne esistono 526. Da quelli siciliani ai toscani, da quelli pugliesi ai piemontesi, non c’è una sola regione che non abbia legato al proprio territorio e alle proprie vigne una parte della sua ricchezza. Gli esperti lo definiscono terroir, ovvero un’area in cui l’intreccio tra zona geografica e condizioni climatiche, naturali, fisiche e chimiche permette di produrre un vino specifico e unico, identificabile esclusivamente con quel luogo e non con un altro. E in Italia, poiché le peculiarità pedoclimatiche variano lungo tutto lo Stivale, di terroir ce ne sono tanti. Sul podio della produzione – e della qualità – l’Italia e al primo posto. Chianti, Barbera, Montepulciano, Nebbiolo, Verdicchio, Barolo, Prosecco, Barbaresco, Franciacorta, Gavi, Cannonau: i vini italiani sono conosciuti ed esportati in tutto il mondo. Tra questi c’è il Lambrusco, che nella classifica dei vini più venduti nei supermercati è ancora al primo posto.
Lambrusco gelato
Quando chiedo a Mirco Gianaroli quale sarà l’impatto di questa gelata sul mercato del Lambrusco, sorride sapendo che questo è solo l’ultimo degli eventi in ordine di tempo che hanno messo a dura prova il settore. «Il paradosso è che dobbiamo ringraziare il Covid», dice con un certo rammarico, «perché potremo compensare le perdite dovute a questa gelata rimettendo sul mercato il vino che non abbiamo venduto durante la pandemia, visto che metà del nostro mercato, fatto di bar e ristoranti, è rimasto chiuso». Insomma, il mercato si stabilizzerà. Le aziende agricole no: «La cosa che più mi preoccupa è che ci sono novemila piccole aziende che rischiano di chiudere». Sono piccoli produttori di vino che hanno attraversato l’anno della pandemia senza poter vendere a ristoranti e bar e senza avere ristori. Non hanno incassato nulla pur continuando a lavorare nei campi «perché la terra non si ferma mica per via del lockdown». E ora, con questa gelata, rischiano di perdere il raccolto. Quei pochi che si sono assicurati riusciranno a recuperare qualcosa, gli altri – la maggior parte – no. Soprattutto i produttori di vino perché, come spiega Serena Galassi, «di solito le gelate di questo periodo fanno danni alla frutta, non alle vigne, per cui non assicuriamo i vigneti». Di solito. Non quest’anno però, perché l’ondata di calore delle settimane precedenti ha anticipato la fase vegetativa delle vigne. Le piante vivono in stretta correlazione con l’ambiente esterno con momenti che segnano, anno dopo anno, il passaggio dalla fase di letargo invernale a quella produttiva e sono strettamente interconnessi ai segnali che la pianta riceve dalle condizioni ambientali, in particolare dalla temperatura.
Conoscere queste fasi, essere in grado di prevederle e accompagnarle, è fondamentale per avere una materia prima, l’uva, che abbia il giusto equilibrio tra zuccheri e acidi. Ogni minima variazione ha un impatto sulla qualità e dunque sul gusto del vino. Il problema è che prevedere è diventato sempre più difficile in agricoltura: ogni anno è diverso da quello precedente e gli eventi estremi – gelate, grandinate, siccità – sono ormai all’ordine del giorno, mettendo in serio pericolo la tenuta stessa del settore primario.
Reagire alle avversità
Dal canto loro gli agricoltori sono abituati a reagire alle avversità, è il loro mestiere da sempre. Lo fanno con le assicurazioni, si dotano di teli protettivi, arrivano a bruciare le balle di fieno per riscaldare gli alberi da frutta durante le gelate, sparano aria da cannoni per frenare l’arrivo della grandine, chiedono – giustamente – lo stato di calamità e l’intervento delle istituzioni. Ma gli aiuti, quando arrivano, intervengono sulle conseguenze o, peggio ancora, quando ormai il danno è fatto. La sola idea di veder fallire novemila aziende agricole dovrebbe farci sobbalzare, perché questo vuol dire famiglie senza lavoro e persone che hanno dedicato la loro vita ai campi che si arrendono per sfinimento. Novemila aziende in più in un cimitero economico che si popola in maniera spaventosa a ogni censimento Istat. Ed è così per tutta l’Europa. Pur essendo un continente che ha fatto – e continua a fare – dell’agricoltura uno dei suoi pilastri centrali (non è un caso se un terzo del bilancio europeo è destinato proprio a questo settore), sta già sperimentando gli effetti del cambiamento climatico, in particolare nell’area del Mediterraneo. Secondo uno studio dell’Agenzia europea dell’ambiente, l’Europa ha già visto la riduzione di migliaia di aziende agricole e nei prossimi trent’anni registrerà perdite economiche in agricoltura del 16 per cento. Parliamo di miliardi di euro, se consideriamo che attualmente il valore dell’agroalimentare è di oltre 400 miliardi. È chiaro che, nell’immediato, è necessario dare risposte concrete alle fatiche dell’agricoltura, mettere i produttori nelle condizioni di assicurarsi e di proteggere i propri campi dalle avversità. È necessario ma non sufficiente.
Cause profonde
Questo è il tempo di intervenire sulle cause profonde della crisi climatica in atto. Anzi, prima di tutto capirle fino in fondo, in tutta la loro drammaticità. Gli effetti negativi del cambiamento climatico si riverberano – tra le altre cose – sulla nostra alimentazione: dalla frequenza e intensità degli eventi estremi che colpiscono i suoli agricoli italiani, europei e mondiali dipenderà anche la qualità, la quantità, il prezzo e la provenienza di ciò che mettiamo nel carrello della spesa. La proposta più gettonata per migliorare l’impatto ambientale e climatico del nostro cibo è nella promozione di miglioramenti tecnologici a livello della produzione o di far leva su consumi e diete più sostenibili.
Ma dotare un allevamento intensivo di impianti a biogas e pannelli solari, utilizzare i droni sui campi o mettere bollini di sostenibilità sui prodotti alimentari non è sufficiente a cambiare una struttura produttiva lanciata a tutta forza verso il degrado delle risorse naturali ed esposta alle ritorsioni di un clima impazzito. Affrontare la crisi in atto richiede un’impostazione trasversale delle politiche pubbliche, capace di comprendere la complessità della sfida e innescare una profonda trasformazione del settore.
Gli agricoltori per primi dovrebbero chiedere e attuare misure di mitigazione del surriscaldamento globale, invertendo la rotta di un fenomeno che altrimenti rischia di diventare incontrollabile. Ridurre le emissioni – anche quelle del settore primario – deve essere l’imperativo categorico delle istituzioni. È, prima di tutto, un dovere morale.
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