L'accurata perquisizione effettuata dava la certezza che era stato individuato un laboratorio per la produzione dell'eroina in pieno esercizio e consentiva di rinvenire nei locali al piano terra una rivoltella calibro 357 Magnum con matricola abrasa, carica con proiettili ad espansione, e 17 cartucce per pistola calibro 38, nonché una polizza di assicurazione auto rilasciata a favore di Vernengo Giuseppe...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci
La scoperta del laboratorio di via Messina Marine è stata del tutto casuale, nel senso che è avvenuta nel corso di un’operazione di polizia volta esclusivamente alla cattura dei latitanti. Per meglio comprendere la vicenda occorre prendere le mosse dal c.d. blitz di Villagrazia, una brillante operazione di Polizia di cui soltanto in un secondo tempo si è apprezzato il valore.
Il 19.10.1981 (in un periodo in cui gli omicidi di marca mafiosa a Palermo avevano raggiunto una cadenza impressionante) la Polizia faceva irruzione in una villa sita in questa via Valenza (Villagrazia di Palermo) nel bel mezzo di un summit mafioso e traeva in arresto, dopo un conflitto a fuoco, Profeta Salvatore, Pullarà Giovanbattista, Capizzi Benedetto, Vernengo Ruggero, Fascella Pietro, Lo Jacono Pietro, Gambino Giuseppe, Di Miceli Giuseppe, Urso Giuseppe. Di questo episodio si parlerà più diffusamente in seguito, ma in questa sede è opportuno evidenziare taluni elementi processuali riferibili ai citati imputati che vanno attentamente vagliati e coordinati tra di loro:
- Capizzi Benedetto ha emesso un assegno di lit. 32.000.000 a favore di Giacomo Grado ed ha dichiarato di non ricordare nulla in proposito;
- Gambino Giuseppe, pochi mesi dopo l'arresto (25.2.1982), ha consumato con spietata ferocia, insieme con altri, l'omicidio di Pietro Marchese nel Carcere dell'Ucciardone;
- Urso Giuseppe, spacciatosi nella circostanza per un elettricista chiamato ad effettuare delle riparazioni, è stato nuovamente arrestato, il 25 marzo 1985, a Crotone insieme con Di Fresco Onofrio e con Cosimo Vernengo, con i quali trascorreva la latitanza e verosimilmente stava per impiantare in quel centro un laboratorio per la produzione di eroina.
L'Urso sarebbe in seguito divenuto genero di Pietro Vernengo, avendone sposato la figlia Rosa. Di Miceli Giuseppe, qualificatosi come giardiniere della villa, è in realtà un corleonese definito "liggiano di ferro". Le indagini sulla villa hanno dato risultati di estremo interesse.
L'immobile, che sorge su terreno venduto da Antonino Sorci ("rappresentante" della famiglia di Villagrazia ed ucciso il 12.4.1983), è circondato da altre ville, tutte appartenenti a personaggi di spicco della mafia (Marchese Rosario e Salvino Mondino Girolamo - Greco Tommaso, padre di Greco Carlo – Sorci Carlo figlio di Antonino ucciso il 12.4.1983, Di Maggio Ippolito, zio dei fratelli Mafara e fratello di Giuseppe Di Maggio, rappresentante della famiglia di Brancaccio e ucciso il 19.10.1982) ed è dotato di un impianto televisivo a circuito chiuso, che consente di tenere sotto controllo per centinaia di metri la strada di accesso.
Per quanto attiene, poi, al titolare della villa, giova rilevare che lo stesso Di Miceli Giuseppe, pur dichiarando di non conoscerne il nome, essendo semplicemente il giardiniere, ne ha indicato il domicilio in Via Sacco e Vanzetti, n 36, piano quarto, ossia nello stesso pianerottolo del proprio appartamento. Questa ammissione ha grandissimo significato, perchè, a parte la palese inattendibilità del fatto che il Di Miceli non conoscesse il nome del suo dirimpettaio, l'intestatario dell'appartamento indicato dal Di Miceli è Giorgio Aglieri, suocero di Pietro Vernengo, mentre il proprietario della villa di via Valenza risulta formalmente Ruggero Vernengo, cugino del Pietro ed arrestato nel citato blitz di Villagrazia.
Va, inoltre, rilevato che una immediata perquisizione domiciliare eseguita nell'appartamento dell'Aglieri ha consentito di sequestrare, in contanti, la somma di lit. 130.000.000 e quella di $ Usa 147.200, fatto questo estremamente sintomatico del coinvolgimento dell'Aglieri, nonchè di Pietro Vernengo, nel traffico di eroina cogli Usa.
Va ricordato, inoltre, che il padre di Pietro Vernengo, Cosimo, già sposato con Nuccio Rosa (deceduta 1'1.3.1967), ha contratto seconde nozze con Di Miceli Maria, sorella proprio Di Miceli Giuseppe. Queste nozze sono il segno evidente della saldezza dei vincoli fra i Vernengo ed i Corleonesi. E, in proposito, sembra opportuno richiamare che l'Agrosicula S.p.A., di cui erano azionisti Vernengo Giuseppe e Mondì Vincenza (fratello e cognata di Vernengo Pietro), era affidata alle cure del rag. Giuseppe Mandalari, azionista di maggioranza della “zoosicula RI.SA”, nella cui sede venne tratto in arresto Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina.
Ma le sorprese per gli inquirenti, indagando sulla titolarità della villa di via Valenza, non finivano qui. Si accertava, infatti, che la villa era appartenuta a Verace Teresa (vedova di Riccobono Giuseppe, ucciso a Palermo il 27.7.1961, e cognata di Rosario Riccobono, "rappresentante" della "famiglia" di Partanna Mondello) la quale l'aveva successivamente venduta a Vernengo Ruggero, mentre l'utenza telefonica, installata nella villa, era intestata a Palmeri Maddalena, moglie di Vitamia Paolo, cognato, quest'ultimo, di Rosario Riccobono, che ne ha sposato la sorella, Vitamia Rosalia.
Le assurde, assolutamente inattendibili, dichiarazioni di Verace Teresa e di Vitamia Paolo per giustificare, rispettivamente, la titolarità della villa e dell'utenza telefonica, sono la migliore dimostrazione, ove ve ne fosse stato bisogno, che la villa era in realtà appartenuta a Rosario Riccobono il quale, con tali artifizi, aveva tentato di occultarne la effettiva titolarità e l'aveva poi ceduta a Pietro Vernengo.
Del resto, quando ci si occuperà approfonditamente del ruolo e delle attività di Rosario Riccobono in seno alla mafia, si vedrà che non è questo il solo caso in cui il Riccobono ha cercato di occultare i suoi investimenti immobiliari, ben consapevole dell'illiceità della provenienza della sua ricchezza.
La "storia" della villa di via Valenza, quindi, ha svelato l'esistenza degli stretti legami tra Rosario Riccobono e la famiglia di S.Maria di Gesù cui appartengono i Vernengo, offrendo un inoppugnabile riscontro alle rivelazioni fatte al riguardo da Tommaso Buscetta.
Se si ferma, poi, l'attenzione sull'identità delle persone tratte in arresto nell'operazione in esame si trova una ulteriore conferma degli schieramenti nella c.d. guerra di mafia che, al contrario di quella esplosa negli anni 1962-63, non si è concretata in uno scontro tra "famiglie", bensì in un'alleanza, realizzatasi orizzontalmente, fra "uomini d'onore" appartenenti alle diverse famiglie e che è servita ai Corleonesi per distruggere, in seno ai clan più disparati, tutti coloro che per la loro personalità e per la propria potenza si potevano opporre alle loro mire egemoniche.
Fra i partecipanti alla riunione di via Valenza, infatti, vi erano Lo Jacono Pietro, Pullarà G. Battista, Urso Giuseppe, Aglieri Giorgio, facenti capo alla "famiglia" di S.Maria di Gesù (quella stessa di Stefano Bontate), Gambino Giuseppe, appartenente alla "famiglia" di Michele Greco (Ciaculli Croce Verde Giardini) e Di Miceli Giuseppe (certamente legato ai Corleonesi), rappresentanti, tutti di famiglie diverse.
Le successive indagini svolte hanno consentito di acquisire prove sempre più certe ed univoche delle responsabilità di Vernengo Pietro e dei suoi correi. Fra queste, la più significativa è certamente la scoperta del laboratorio di eroina di via Messina Marine, insieme col rinvenimento di 147.200 dollari Usa. nell'appartamento di Giorgio Aglieri.
Era ben noto alla Polizia che l'autovettura R18, targata CS 260418, era in uso eslusivo della famiglia di Pietro Vernengo: infatti, il 7.12.1981 alle ore 9.45 ed il 3.2.1982, alle ore Il,00, l'autovettura era stata controllata dai cc. proprio in via Sacco e Vanzetti ed alla guida era stata sempre trovata Aglieri Provvidenza, moglie del Vernengo.
La circostanza sarebbe stata confermata, in seguito, dalla stessa Aglieri Provvidenza, la quale dichiarava ai verbalizzanti (che la interrogavano il giorno in cui era stato scoperto il laboratorio di eroina di Via Messina Marine) di essere la sola ad usare quella vettura.
L'autovettura in oggetto risultava intestata a Di Caccamo Benedetto, un palermitano residente a Castrovillari del quale Stefano Calzetta ha parlato in questi termini: "conosco i due Di Caccamo che hanno tutti e due lo stesso nome, Benedetto. Uno dei due esegue trasporti per conto dei miei fratelli, ma entrambi appartengono al gruppo di mafia di Pietro Vernengo".
Ebbene, la mattina del 9.2.1982, alle ore 8,45, il m.llo CC. Pietro Giordano ed il brigo CC. Spezia Salvatore, nel percorrere la via Messina Marine, notavano che l'autovettura predetta era ferma davanti alla villetta in costruzione contrassegnata col n.66JH e che, proprio al loro passaggio, un uomo vi saliva a bordo allontanandosi rapidamente.
Il pomeriggio di quello stesso giorno la medesima autovettura veniva notata parcheggiata in uno spiazzale di fronte alla villetta di cui sopra. è da notare che sia la villetta in questione sia quella finitima apparivano dall'esterno in fase di ristrutturazione e che, in particolare, era stato innalzato un ponteggio, intorno alle due ville, in maniera tale che era possibile accedere, attraverso le impalcature, da una villa all'altra, mentre il retro dei villini, invece, prospettava sul lido del mare. Sospettando fondatamente che l'uomo da essi notato potesse essere Pietro Vernengo o Giorgio Aglieri, i cc decidevano di effettuare una perquisizione domiciliare nella villetta, allo scopo di catturare uno od entrambi i ricercati e comunque di accertare i motivi della loro presenza in quel luogo.
E così 1'11.2.1982, e, cioè, due giorni dopo avere notato la vettura del Vernengo, i cc. intervenivano e si introducevano nella villa adiacente col pretesto di controllare la regolarità della costruzione.
Il C.re D'Antoni Pietro, rimasto davanti all'ingresso delle ville per sorvegliare gli automezzi militari, poteva notare che, mentre i muratori presenti davano ai cc. le solite risposte evasive sui lavori in corso, un giovane sui trent'anni con un giubbotto scuro usciva dal piano superiore del fabbricato e si immetteva nell'impalcatura per passare nell'attigua villetta (quella sospetta), al cui interno si dileguava; dopo pochi minuti, da quest'ultima costruzione non ancora oggetto d'ispezione da parte dei CC. - usciva un uomo che, con fare indifferente, si intratteneva nel giardino antistante.
Il C.re D'Antoni immediatamente avvertiva i commilitoni i quali, passati nella villetta sospetta, identificavano l'uomo nel proprietario della villa, Di Salvo Nicola.
Questi tentava di convincere il m.llo cc. Giordano a desistere dall'ispezione, impegnandosi ad esibire il giorno dopo in caserma tutti i documenti richiesti, ma i carabinieri decidevano egualmente di controllare la villa e, portatisi al primo piano, ove avvertivano un odore acre e soffocante, scoprivano un complesso di apparecchiature.
Frattanto il Di Salvo, approfittando del trambusto determinatosi per effetto dell'inaspettata scoperta, riusciva a dileguarsi dalla parte posteriore del villino.
L'accurata perquisizione effettuata dava la certezza che era stato individuato un laboratorio per la produzione dell'eroina in pieno esercizio e consentiva di rinvenire nei locali al piano terra una rivoltella calibro 357 Magnum con matricola abrasa, carica con proiettili ad espansione, e 17 cartucce per pistola calibro 38, nonchè una polizza di assicurazione auto rilasciata a favore di Vernengo Giuseppe, cugino di Pietro e fratello di quel Vernengo Ruggero al quale, come si è visto, era formalmente intestata la villa di via Valenza; venivano altresì rinvenute tre tazzine con tracce di caffè.
Si accertava, ancora, che il contatore della energia elettrica era stato disinserito e che la energia veniva prelevata direttamente dalla rete esterna attraverso cavetti e conduttori appositamente allacciati.
Dalle successive indagini emergeva che i lavori edilizi nella villa attigua a quella di Di Salvo Nicola erano stati commissionati da Alfano Pietro, padre di Alfano Paolo, il quale ultimo veniva riconosciuto fotograficamente dal C.re D'Antoni per l'uomo che era passato da una villetta all'altra attraverso i ponteggi esterni. [...].
Giova a questo punto sottolineare che il laboratorio di via Messina Marine è ,finora, l'unico scoperto mentre era in corso di svolgimento il processo chimico di trasformazione della morfina base in eroina, tanto che i Carabinieri si sono trovati in presenza di pentole in ebollizione, beccucci che distillavano e di un'aria resa irrespirabile dai vapori emanati dalle sostanze chimiche in trasformazione.
Ciò induceva logicamente a ritenere che al momento dell'irruzione dei cc. doveva essere presente un chimico, riuscito però a sfuggire all'arresto essendo stato tempestivamente avvertito da Paolo Alfano. La presenza di una terza persona, del resto, è confermata dal rinvenimento, al pianterreno della villa del Di Salvo, di tre tazze di caffè usate.
In ordine, poi, all'allacciamento abusivo dell'impianto elettrico della villa dei Di Salvo con la rete esterna giova rilevare che, come è stato puntualizzato da Lopez Antonio, tecnico dell'Enel, ciò corrispondeva ad una necessità, in quanto che, se non fosse stato disattivato il contatore dell'energia elettrica, il gran numero e la quantità degli apparecchi elettrici impiegati nel laboratorio avrebbero posto fuori uso il contatore stesso e ciò avrebbe determinato sicuramente un intervento di personale dell'Enel, con ovvii rischi.
è di tutta evidenza che un laboratorio del genere richiede un'organizzazione complessa ed articolata che, oltre a curare l'approvvigionamento della morfina e la produzione dell'eroina, si occupi della commercializzazione del prodotto finito, attraverso canali collaudati e costituisce, quindi, un obiettivo riscontro dell'esistenza e del controllo di tutte le altre fasi in cui si articola il traffico di stupefacenti.
Nell'ambito delle indagini tendenti ad individuare i canali attraverso i quali pervenivano alle organizzazioni mafiose siciliane i prodotti chimici e le attrezzature necessarie per il funzionamento dei laboratori clandestini da alcuni adesivi applicati ai sacchi contenenti Soda Solvay leggera, è stato possibile rilevare che la ditta fornitrice era quella di Mangini Giuseppe, sita in questa via A.Di Rudinì (zona di Corso dei Mille).
Il Mangini ha ammesso di conoscere Nicola Di Salvo, precisando anzi che quest'ultimo una decina di anni prima era stato arrestato quale autore di un furto di tabacchi in danno di esso Mangini, ma ha negato di avergli mai venduto prodotti chimici. è stato, però, accertato che il Mangini ha acquistato, come risulta dalle relative fatture,
nell'anno 1981, kg.2560 di anidride acetica e, nei primi sei mesi del 1982, ben kg.4299 della medesima sostanza, che, come si è accennato, è indispensabile per il procedimento di raffinazione.
Egli naturalmente si è giustificato dichiarando di averla rivenduta al minuto e di non ricordare il nome di nessuno degli acquirenti. è risultato, inoltre, che tale Michele Ditta, titolare di una farmacia in via Armando Diaz (e, quindi, nello stesso quartiere "Sperone" della villa del Di Salvo), ha acquistato, dal 15.12.1980 al 30.11.1981, ben kg.1707 di anidride acetica.
Interrogato, il Ditta ha dichiarato di avere rivenduto la sostanza a persona a lui sconosciuta che, volta per volta, gli commissionava il prodotto e di ignorare, benché laureato in farmacia, che l'anidride acetica è indispensabile per la produzione di eroina.
Trattasi di due esempi che fanno comprendere di quali e quante connivenze e complicità si giovano le organizzazioni mafiose nelle loro illecite attività. Anche le testimonianze degli operai addetti alla ricostruzione delle ville del Di Salvo e dell'Alfano sentiti anche al dibattimento, hanno destato molte perplessità.
Canale Paolo ha dichiarato che eseguiva per conto di Nicola Di Salvo, da circa quattro mesi (e, quindi, dall'ottobre 1981), i lavori di sopraelevazione della villa e che quest'ultimo gli aveva corrisposto finora, con assegni e con danaro contante, circa 35 milioni mentre era ancora debitore di circa dieci milioni; che la famiglia del Di Salvo non abitava regolarmente nella villa, perchè, quando la mattina si recava al lavoro con gli operai, talvolta vi trovava qualcuno dei Di Salvo e talaltra no; che l'impianto elettrico della villa era stato eseguito da un elettricista che egli non aveva mai incontrato; che, per sue esigenze, aveva sospeso i lavori nella villa del Di Salvo qualche giorno prima dell'irruzione da parte dei Carabinieri.
Mastrogiovanni Domenico ha dichiarato che i lavori di costruzione della villa attigua a quella del Di Salvo gli erano stati commissionati dal suo amico Alfano Pietro e che erano iniziati verso la metà del gennaio 1982 (e, quindi, meno di un mese prima della scoperta del laboratorio); che l'Alfano, per la paga agli operai, gli corrispondeva, in contanti, circa un milione alla settimana; che i lavori nell'attigua villa del Di Salvo erano completamente distinti dai suoi.
Naturalmente, nessuno si era curato della mancanza delle licenze edilizie nei due immobili; nessuno si era accorto dell'allacciamento abusivo alla rete esterna dell'Enel; nessuno ha chiarito chi avesse autorizzato gli operai della villa dell'Alfano a prelevare dal Di Salvo l'acqua occorrente per la costruzione; nessuno ha saputo spiegare perchè nelle due ville fosse stata innalzata una impalcatura contigua.
Al riguardo, è bene premettere che la stessa ubicazione del laboratorio, in una zona controllata dalla famiglia di Corso dei Mille, di cui è "reggente" Filippo Marchese, da un lato, non può far meraviglia circa l'omertà imperante, come frutto dell'intimadazione diffusa nell'ambiente, dall'altro è indicativa della non estraneità del Marchese a tale iniziativa, essendo impensabile che i Vernengo i quali, come si dimostrerà tra breve, sono gli effettivi titolari del laboratorio - potessero impiantarlo senza il preventivo consenso di Filippo Marchese.
E comunque il fatto che i Vernengo avessero installato la raffineria in zona non controllata dalla loro "famiglia" di appartenenza è eloquentemente dimostrativo degli ottimi rapporti esistenti fra predetti e Filippo Marchese.
Tali considerazioni sui collegamenti tra gli imputati sono approfondite in altra parte di questa sentenza-ordinanza, ma va qui ricordato quanto ha testualmente riferito Stefano Calzetta: «La raffineria riguardava senza meno il gruppo dei Vernengo, ma è impossibile che alla stessa non fossero interessate anche tutte le altre famiglie mafiose Ritengo che il chimico della raffineria fosse Nino Vernengo; anzi, ciò mi fu detto esplicitamente dagli Zanca, i quali mi spiegarono che non si fidavano dell'opera di persone estranee al loro ambiente».
Deve essere puntualizzato, poi, che il Di Salvo, se è certamente un fidatissimo elemento dell'organizzazione (altrimenti, non sarebbe stato impiantato un laboratorio nella sua villa) è, comunque, una figura di secondo piano; è significativo al riguardo, che, all'atto dell'irruzione dei cc., proprio lui apparve nel giardino, cercando di far desistere i militari dall'ispezionare la villetta, in modo da consentire all'Alfano ed al chimico di fuggire.
Infatti, è dimostrato da altri episodi che in situazioni di emergenza, sono sempre i gregari a sacrificarsi per coprire la fuga degli elementi più importanti dell'organizzazione.
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