Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dal 29 luglio è iniziata la prima serie dedicata alla sentenza della corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini per la strage di Bologna e ha squarciato il velo su alcuni mandanti


Le indagini del giudice istruttore milanese dei primi anni ’90 permettono di attribuire un ruolo di assoluto rilievo a Licio Gelli nel progetto di colpo di Stato dei primi anni ’70, un ruolo che permette ex post di delineare la posizione e il condizionamento di Gelli sulle istituzioni repubblicane, ben diverso da quello risultante da indagini che al tempo dei fatti furono approssimative, incomplete e soprattutto deviate dal deliberato occultamento di fonti di prova.

Riguardando a ritroso, alla luce delle nuove indagini e delle nuove scoperte probatorie degli ultimi anni, si comprende come questa presenza debba essere radicalmente rivalutata e riletta, al di là della posizione pur rilevante che fin qui è stata attribuita, poiché Gelli e i suoi uomini appaiono, con effetti devianti e inquinanti, in tutti gli eventi e le determinazioni politico-giudiziarie degli anni Settanta e Ottanta, prolungandosi fino a oggi, come sostengono diversi storici, costituendo il sistema di potere sviluppato da Gelli e dalla P2, la norma fondamentale dell’attuale assetto istituzionale.

A Gelli, come abbiamo visto, era stato affidato l’incarico di privare della libertà personale il Presidente della Repubblica, un compito primario nell’ambito di qualsiasi progetto di colpo di stato; che un tale incarico fosse affidato proprio a Gelli è indicativo della qualità, natura e molteplicità dei suoi collegamenti con i vertici e gli apparati militari dello Stato, con i servizi segreti anche internazionali, ancora a quel momento del tutto sconosciuti.

Le coperture di cui Gelli si giovò sia da parte dei vertici dei servizi (Maletti e Romagnoli), sia da parte del Ministro della difesa Andreotti nel corso della famosa riunione nella quale il "malloppone" di Labruna si trasformò in "maloppino", sono eloquenti.

Sembra quasi che più che di copertura si sia trattato di un’operazione interna allo stesso ambiente in cui il progetto di colpo di stato era stato costruito, se si considera come il gen. Maletti abbia potuto affermare nelle sue memorie, testualmente: «Andreotti sapeva tutto. Su questo non ci sono dubbi. Avendo informatori dappertutto, dal Vaticano fino al SID, al Sios e via dicendo. Ma Andreotti sapeva anche nella sua scienza, nella sua convinzione politica, che tutto si sarebbe risolto in un flop. Quindi non intervenne: lasciò che le cose prendessero il loro corso».

Una sorta di chiamata in correità postuma nei confronti del politico al quale aggiustò le carte, ma che poi non lo tutelò al momento della caduta. Anzi, secondo lo stesso Maletti, Andreotti fu "l’eminenza grigia dietro le quinte della politica italiana", non aveva affatto gradito le indagini sul golpe Borghese e quindi l’esposizione di Gelli; il "malloppone" non era stato affatto gradito negli ambienti Nato. Non è necessario trarre qui conclusioni.

Sta di fatto che dietro al tentativo di Borghese c’erano gli americani, come sostiene Maletti; fu da lì che arrivò il contrordine, inoltrato da un altro personaggio che ritroviamo insieme a Gelli fino a questo momento processuale, Federico Umberto D’Amato, per Maletti colui che trasmise a Borghese il contrordine proveniente dai livelli del Ministero della difesa, o dello stato maggiore dell’esercito o ancora più in su" e quindi sostanzialmente dagli americani (circostanza che non contraddice la fonte d’informazione che attribuisce proprio a Gelli il contrordine, essendo evidente che i due agissero allo stesso livello).

Nonostante le modalità confuse di realizzazione dei primi passi del colpo di Stato, Maletti sostiene che fu tutt’altro che un "golpe da operetta", come dissero i primi provvedimenti giudiziari, ma un’autentica mobilitazione di migliaia di armati; per questo il SID indagò a fondo e pervenne a una completa ricostruzione degli avvenimenti, ma non certamente per denunciare, sanzionare e costruire argini a potenziali nuovi tentativi, ma per mettere al sicuro chi si era esposto, al fine di consentirgli di rimanere al proprio posto nelle trame di potere del sistema, a partire appunto da Licio Gelli e passare poi agli ufficiali.

D’altra parte, nessuno può escludere e anzi appare assai probabile che nel 197 4 insieme alla distruzione dei dossier del Sifar di De Lorenzo fossero incenerite molte altre carte più attuali.

Maletti svolse dunque un doppio gioco che gli costò la carriera, poi compromessa definitivamente dalle indagini giudiziarie. Maletti era iscritto alla P2 e non poteva certo permettere che fosse coinvolto nell’istruttoria insieme alla manovalanza uno dei suoi più importanti referenti politico/strategici. Al contempo ne aveva portato alla luce la piena corresponsabilità nelle trame golpiste e le complicità di santuari intoccabili (Andreotti, NATO, gli Affari Riservati).

Il consistente numero di iscritti alla P2 facenti parte della struttura golpista, che le indagini del SID aveva portato alla luce già nei primi anni Settanta, permette di affermare come già a metà anni Settanta vi fossero tutte le condizioni per denunciare, se non l’organizzazione occulta, quanto meno la parte che si era esposta nel golpe e ne costituiva la componente militare.

La sentenza milanese elenca alcuni degli iscritti alla P2 coinvolti nelle trame dell’operazione Borghese. Erano iscritti o erano stati iscritti alla P2, il costruttore Remo Orlandini, l’avv. Giancarlo De Marchi, l’ammiraglio Giovanni Torrisi (scampato, grazie al generale Maletti, all’incriminazione grazie all’occultamento del testo integrale del rapporto Giannettini), il generale Ugo Ricci, il generale Francesco Nardella, il generale Giuseppe Lo Vecchio, il generale Giuseppe Casero, il dott. Salvatore Drago, l’avv. Filippo De Jorio, Sandro Saccucci e lo stesso Direttore del Servizio generale Vito Miceli (protettore e favoreggiatore della struttura golpista).

Era altresì iscritto alla P2 buona parte del Comando della Divisione Pastrengo dei Carabinieri, centro motore all’epoca di molte deviazioni, fra cui la costante protezione di un’altra componente dei progetti golpisti e cioè il MAR di Carlo Fumagalli. Erano iscritti lo stesso Comandante della Divisione, generale Giovanbattista Palumbo, il suo aiutante, maggiore Calabrese (citato nei colloqui fra Orlandini e il cap. Labruna quale fornitore di armi ai congiurati), il generale Luigi Bittoni (Comandante della Brigata Carabinieri di Firenze e molto legato al generale Palumbo ), lo stesso Vice Comandante dell’Arma generale Franco Picchiotti.

Calabrese, Bittoni, Picchiotti e Musumeci erano presenti alle riunioni tenute nella primavera del I 973 a Villa Wanda, nel corso delle quali Gelli aveva intrattenuto i suoi ospiti sulla gravità della situazione politica del Paese e la necessità di intervenirvi anche con misure eccezionali ed anche con i mezzi a disposizione dell’Arma. Riunione alle quali partecipavano anche magistrati.

[…] Per concludere è necessario ricordare come nella sentenza del giudice milanese sono riportate tutta una serie di altre testimonianze che non solo confermano i fatti del 7-8 dicembre 1970, ma evidenziano l’ampiezza e la ramificazione della trama in ogni parte d’Italia.

Nel corso di quella istruttoria emerse che gruppi armati, provvisti di divise militari, erano pronti ad occupare in ciascuna località i più importanti edifici pubblici, le vie ed i mezzi di comunicazione, le sedi dì partito ed a rastrellare le personalità dell’opposizione. Costoro secondo la testimonianza del capitano Labruna, avrebbero dovuto essere imbarcate su alcune navi messe a disposizione da un armatore e condotte in stato di detenzione in piccole isole. Anche in questo caso un testimone ha parlato di un diretto coinvolgimento di Licio Gelli nell’operazione.

Rispetto alla sottovalutazione giudiziaria degli elementi emersi e come critica tuttora attendibile delle risposte giudiziarie date nell’immediatezza dei fatti e sulla base di indagini approssimative e, come si è visto, amputate di gran parte degli elementi di prova più pregnanti, vanno riportate le acute osservazioni del giudice milanese che consentono di comprendere come sul finire degli anni Settanta il potere di Gelli era cresciuto in misura inversamente proporzionale all’inefficacia e alla manifesta inconcludenza delle indagini; il che induceva alla ragionevole certezza dell’assoluta libertà di azione concessa al Gelli.

Nella sentenza-ordinanza si legge, dunque, che "dopo il trasferimento a Roma nel 1974 dell’istruttoria del dr. Tamburrino sulla Rosa dei Venti, indagine che comunque toccava i progetti golpisti nel loro complesso posto che la congiura della Rosa dei Venti era in sostanza una prosecuzione dei tentativi del 1970, la ricerca della verità sugli apparati golpisti civili e militari aveva rapidamente perso di incisività ed era stato adottato un approccio frammentario che portava a perdere di vista il quadro nel suo insieme.

Erano così usciti dall’istruttoria personaggi come Hugh Fenwich e il dr. Pierfrancesco Talenti, che erano gli elementi di collegamento con gli americani, i fratelli De Felice e l’avv. Filippo De Jorio; non erano state approfondite le indagini sul "SID parallelo", pur indicato dal col. Spiazzi e da Roberto Cavallaro quale centro motore e direzionale di tutti i progetti golpisti e, con riferimento agli avvenimenti del 1973 e 1974, erano usciti di scena Gianfranco Bertoli, l’intero gruppo La Fenice e Carlo Fumagalli, e cioè i primi, gli autori degli attentati che dovevano funzionare da detonatore al progetto di mutamento istituzionale, e Carlo Fumagalli, il responsabile della struttura che doveva essere impiegata come sostegno territoriale in Valtellina ed in genere in Lombardia.

Le sentenze della Corte d’Assise di Roma in data 14.11.1978 e della Corte d’Assise d’Appello in data 27.11.1984, nonostante l’emergere in varie istruttorie allora già in corso, di elementi nuovi e meritevoli di essere acquisiti, avevano già iniziato a svuotare quanto rimaneva dell’istruttoria, affermando l’insussistenza del delitto di insurrezione armata in relazione ai fatti del 7/8 dicembre 1970 ed escludendo progressivamente per molti imputati, anche in relazione ai fatti del 1973 e 1974, il delitto di cospirazione politica mediante associazione.

"La Corte di Cassazione aveva fatto il resto e alla fine tutto era stato ridotto ad un complotto di pensionati e tutti gli imputati erano stati assolti, compresi i rei confessi quali Roberto Cavallaro, come se in Italia nel 1970 e negli anni 1973/1974 non fosse accaduto nulla di rilevante sul piano penale. Una vasta e continuativa trama golpista, corroborata sul piano probatorio anche da numerosi elementi documentali, era stata così ridotta a progetti velleitari di qualche anziano Ufficiale nostalgico e di poche Guardie Forestali.

Certamente non è stato così [...]. Emerge infatti che, quasi in ogni regione d’Italia, erano stati attivati la notte del 7 dicembre gruppi numerosi e ben armati, dotati delle necessarie coperture e collegamenti e pronti ad intervenire in quello che era tutt’altro che un sommovimento velleitario e da operetta, come si è voluto far credere."

Seguono puntuali testimonianze sulle diverse mobilitazioni da nord e sud d’Italia, di Carlo Digilio, che parla di seicento persone disponibili ad entrare in azione con numerosi simpatizzanti in ambienti istituzionali. Si trattava di civili e militari, concentrati all’Arsenale di Venezia e che rimasero delusi dal contrordine. Degli avvenimenti Digilio informò puntualmente il comando FTASE di Verona.

Di Marcello Soffiati e di Enzo Ferro per Verona. Di Giuseppe Fisanotti, veronese legato al gruppo ordinovista che fa riferimento peraltro a mobilitazioni del ’73-’74, a conferma del "golpe lungo". Di Andrea Brogi, ordinovista del gruppo Toscano, che racconta dei compiti assegnati al suo e ad altri due gruppi, delle armi ricevute e dell’attività di armiere di Augusto Cauchi. Vale la pena riportare il testo di questa deposizione del Brogi, tratta dal medesimo documento: "Anni dopo, e cioè dopo il finanziamento di Gelli nei confronti di Augusto Cauchi tramite l’intermediazione dell’Ammiraglio Birindelli e del Cap. Pecorelli, ricevetti sugli avvenimenti del 1970 una confidenza del Cauchi.

Questi mi disse che, Gelli aveva fermato, nel 1970, i "ragazzi", cioè i civili di destra e i militari, sfruttando comunque la situazione per averne vantaggio e cioè per mantenere un forte credito anche dopo la sospensione del golpe".

[…] L’operazione Borghese fu quindi effettiva e non un sogno effimero, secondo la vulgata minimizzatrice. Tanto più che, come ricorda la sentenza Salvini, è possibile affermare che gli attentati del 12 dicembre fossero funzionali ad un colpo di Stato che sarebbe dovuto avvenire subito dopo e che era già da tempo in preparazione, secondo una deposizione di Sergio Calore che la sentenza riporta ed un’acuta osservazione di Vinciguerra nello stesso testo fin qui esaminato, secondo cui l’apparente trascuratezza degli attentatori del 12 dicembre a Milano nel lasciare traccia dell’acquisto dei timers, era stata indotta dal clima di sicurezza e copertura in cui gli autori operavano, nella convinzione che il loro colpo sarebbe stato seguito da un’azione più ampia, di carattere politico-militare nella quale il loro attentato sarebbe rientrato senza conseguenze, in ragione del successo dell’intera operazione.

Lo stesso argomento è sostenuto mediante un documento del SID del 16 giugno 1969 del generale Miceli, recuperato a seguito delle indagini del giudice istruttore di Padova ove si legge del programma del Fronte di attuare un colpo di Stato nella seconda metà del 1969. Il che significa, secondo la ragionevole interpretazione del giudice milanese, che il progetto stragista e il progetto golpista correvano su binari strategicamente paralleli, mentre i militanti di Ordine Nuovo e soprattutto di Avanguardia restavano la base operativa civile sulla quale contavano i golpisti del Fronte Nazionale.

© Riproduzione riservata