Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


A settembre gli amici romani ci avevano confermato quello che i più scaltri tra noi avevano già intuito: la decisione del ministro Martelli e del dottore Falcone. E cioè che anche per i processi in Cassazione ci doveva essere la rotazione dei giudici, e che non avremmo avuto sicuramente quel giudice, il dottore Carnevale, che per noi era giusto come papa Giovanni.

Qualcuno ci consigliava: dovete fare come quegli albanesi, prendete una nave e scappate. Oppure restate e fate finta che siete albanesi in Italia. I palermitani erano inferociti. Non possiamo permettere che tutto questo accada: noi siamo il governo più forte del governo.

Fissammo una riunione a Castelvetrano a fine ottobre del 1991. Lì decidemmo: bisognava ammazzare Giovanni Falcone. Ma bisognava anche ammazzare Claudio Martelli. E Maurizio Costanzo, quello del Maurizio Costanzo Show. E allora a un certo punto pare tipo quando c’era il juke box al chiosco del lido di Triscina, e ognuno voleva mettere la sua canzone, e Matteo aveva sempre gettoni per tutti. Ognuno diceva un nome, e Matteo faceva: oh! Come per dire: ecco.

Era seduto alla destra di Totò Riina, come sempre, e c’erano i fratelli Graviano, da Palermo. Tutti parlavano e si lamentavano e facevano nomi, anche di sconosciuti: un secondino vastaso, un commerciante che stava sulle palle. Oppure dicevano: bisogna sterminare i pentiti fino alla ventesima generazione! ’U Zi Totò non riusciva a tenere a bada tutti. Finché Matteo fece di nuovo: oh! Come per dire: calma. E tutti ci calmammo.

Ci vuole tempo, disse allora, ci vuole pazienza, stare accorti, muoversi nell’ombra. Era scuro in volto, Riina, sapeva qualcosa che non ci voleva dire, perché fosse per noi li avremmo ammazzati tutti e subito, quelli della lista. E invece era come se ci fosse un altro tavolo, da qualche altra parte, oltre il sipario di quella commedia che noi stavamo portando in scena, e a quel tavolo ’u Zi Totò non era neanche a capotavola a dare ordini, come dire, ma a fianco di qualcuno. E magari gli ordini li prendeva. Poi disse: va bene. Va bene cosa? Potete andare, ci rivediamo.

Mentre i catanesi erano un po’ timidi, noi, in provincia di Trapani, subito mettemmo a disposizione la nostra forza militare e logistica, gli uomini migliori, le armi, i covi, e tutto quello che potevamo.

La mamma era pronta ad apparecchiare un posto in tavola in più, se c’era bisogno, a cunzare il letto per qualche amico, prendere i soldi dal barattolo che stava nascosto sulla mensola alta dello stipo, i risparmi per le emergenze. La mamma, la nostra mamma, ha un cuore grande.

Riunioni e “avvertimenti”

E ci rivedemmo a Palermo, a casa di Salvatore Biondino. Riina ci disse che aveva una lista, e che gli obiettivi fuori dalla lista dovevano essere concordati con lui. E che bisognava partire per Roma. A Roma infatti c’era Giovanni Falcone, che si era trasferito lì, al ministero della Giustizia guidato da Claudio Martelli, a dirigere gli Affari penali.

E il dottore Falcone aveva convinto il ministro a riportare in carcere quaranta imputati del Maxiprocesso che erano usciti a febbraio per decorrenza dei termini, in attesa del verdetto della Cassazione. Ecco che a tutti noi venne fretta.

Falcone a Roma era pericoloso peggio che a Palermo, per questo bisognava partire. E poi ci avevano detto che aveva tra le mani un altro rapporto, che si chiamava «Mafia e Appalti» e c’erano dentro troppe cose. Angelo Siino aveva nel frattempo parlato di nuovo con Salvo Lima: voleva garanzie dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti. E Lima era stato sprezzante, in un modo che non ci meritavamo, dopo tutto quello che avevamo fatto per lui e il suo partito.

Aveva detto a Siino: «Ma cosa gli pareva a questi quattro pecorai, che il presidente Andreotti si sarebbe dimenticato dello sgarbo che gli hanno fatto alle elezioni quando in Sicilia hanno fatto votare il Psi?».

Nell’86, infatti, era successo che per la prima volta avevamo deciso di voltare le spalle alla Democrazia cristiana. Riina ci aveva detto: «Si cambia cavallo, si vota socialista». Binnu Provenzano non era d’accordo, ma poi si era convinto.

Era per dare una lezione alla Dc. Solo a Palermo eravamo riusciti a fare raddoppiare i voti ai socialisti. Quattro pecorari. Ce lo eravamo segnato.

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