Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dal 29 luglio è iniziata la prima serie dedicata alla sentenza della corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini per la strage di Bologna e ha squarciato il velo su alcuni mandanti


Nella sentenza dei giudici veneziani agli atti di questo processo, nella sintesi della Corte milanese, Maggi assunse un ruolo di assoluta preminenza tra la fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta e oltre; assume la carica di ispettore di Ordine Nuovo per il Triveneto.

Le sentenze confermano, dunque, la permanenza di una struttura politica facente capo a ON, nonostante l’ufficiale rientro e indicano tutti gli elementi di prova a sostegno. Maggi mantenne solidi rapporti con i maggiori esponenti delle altre cellule del Triveneto: Massagrande, Besutti e Soffiati a Verona, De Eccher a Trento, Neami, Portolan e Forziati a Trieste, i fratelli Vincenzo e Gaetano Vinciguerra, Cicuttini, Flaugnacco e Turco a Udine.

Maggi aveva pure tentato di unificare le varie componenti della destra eversiva, incontrando a Barcellona Stefano Delle Chiaie. Strettissimi - secondo la ricostruzione dei giudici veneziani - i rapporti di Maggi col gruppo ordinovista udinese, di cui era "il principale referente", sin dai primi anni ’70. Su questo punto esamineremo le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra che dell’azione di ON darà una visione dall’interno che contrasta rigorosamente con le enunciazioni ideologiche del gruppo; lo inquadra in una sorta di manovalanza stragista, a disposizione degli strateghi della strategia della tensione; una condizione che avrebbe indotto il Vinciguerra a uscire dal gruppo, pur mantenendo inizialmente i contatti.

Maggi per tutti gli anni Settanta mantenne un impegno totale rivolto all’obiettivo di sovvertire l’ordinamento dello Stato che l’associazione si proponeva. A questo scopo intrattenne rapporti con esponenti di spicco di altre sedi quali Fachini, Raho, Melioli, Freda, Signorelli e Rognoni.

Prova indiretta dell’importanza strategica della posizione del Maggi, secondo le sentenze, consiste "nella circostanza che egli, pur coinvolto in tutte le attività poste in essere dal gruppo, conservi <le mani pulite>, nel senso che mai le armi, le munizioni, i detonatori, i documenti falsi, gli arnesi per l’alterazione delle armi passano per le sue mani, tanto è vero che, pure essendosi egli recato più volte a Cologno/a ai Colli nel corso dell’estate 1972, è il Bressan che si reca a Venezia, almeno per due volte, a ritirare la roba ’che scotta’",

Le sentenze milanesi sulla strage di piazza Fontana del 30.6.2001 della Corte d’assise di primo grado e del 12.3.2004 della Corte d’assise d’appello, relative alla strage di piazza Fontana confermano le predette acquisizioni veneziane, pur giungendo a verdetti antitetici sulla responsabilità diretta di Maggi per la strage. In quei processi si erano aggiunte nuove testimonianze, di Sergio Calore, Edgardo Bonazzi, Marco Affatigato e Martino Siciliano circa l’esistenza di un gruppo operativo di Ordine Nuovo a Venezia, mentre in ordine al ruolo di vertice del Maggi si erano aggiunte quelle di Piero Battiston, Guido Busetto, Martino Siciliano e di Gabriele Forziati.

Analoghe conclusioni si ricavavano dalla sentenza della Corte d’assise d’appello di Milano dell’1.12.2004 relativa alla strage di via Fatebenefratelli che, pur prosciogliendo Maggi dalla strage, confermava il ruolo di vertice del Maggi e il legame dell’organizzazione con quella strage. Secondo la Corte, le testimonianze assunte avevano delineato la figura di Maggi come quella di un capo militare, provvisto di un servizio di tutela armata affidato ai militanti, composto da Dedemo, Tettamanzi e Boffelli. Il Maggi rivestiva una posizione di assoluto rilievo non solo a Venezia, ma in tutta l’Italia del Nord.

La Corte di appello milanese del 2015 espone infine nuovi elementi acquisiti con riferimento al periodo strage di Brescia. Se ne trae conferma del ruolo di leader assoluto di Maggi in tutta l’Italia del Nord, capo carismatico e indiscusso, riconosciuto sia dagli appartenenti al gruppo La Fenice, che dagli appartenenti alle S.A.M.

Gli appunti del C.S. SID di Padova danno la misura di quanto attiva e centrale fosse, in ambito ordinovista, la figura di Maggi nel periodo precedente, concomitante e susseguente i fatti di Brescia. Nel rapporto della fonte Tritone, Maggi è indicato come colui che nella riunione del 25 maggio 1974, in una sorta di soliloquio espone la composizione, la strategia e gli obiettivi della neoformazione terroristica, detta la linea politica, seleziona i componenti del gruppo e la rete di relazioni con esso. Lo stesso si ricava da altre acquisizioni giudiziarie.

Siciliano ha descritto Ordine Nuovo come una struttura gerarchica; ha precisato, con riguardo al gruppo di Venezia-Mestre, che Zorzi riferiva a Maggi, il quale aveva a sua volta come referente Paolo Signorelli, che verosimilmente faceva capo a Rauti. Si trattava di una struttura parallela inserita all’interno del MSI, rispetto alla quale Maggi era il referente per il Nord come Signorelli lo era per tutto il territorio nazionale. Al di sopra di tutti era Rauti, col quale nessuno dei militanti aveva contatti diretti.

L’ideologia stragista di Maggi era ben conosciuta dagli uomini del SID.

La Corte milanese richiama l’appunto allegato a una nota del C. S. padovano dell’8 luglio 1974, nel quale si

riporta l’affermazione di Maggi "quell’attentato non deve rimanere un fatto isolato". È Tramonte a riferire la frase che secondo la Corte milanese è espressiva di un imperativo categorico a ripetere, più ancora che manifestazione di esultanza per quanto accaduto in piazza della Loggia. La fonte offre un quadro raccapricciante della strategia terroristica da attuare, basata sul lancio di reiterati, falsi allarmi di attentati, seguiti, infine, quando l’opinione pubblica si fosse convinta dell’inconsistenza di quegli allarmi, dall’effettiva esecuzione delle "azioni terroristiche di grande portata", in precedenza preannunciate.

Vedremo come il silenzio del SID, l’evidente collusione del servizio con gli uomini della destra, la scelta di tenere nascoste alla magistratura queste informazioni e la stessa gestione di esse siano all’origine della terrificante vicenda della strage dell’Italicus, quella che più di ogni altra vede forse la responsabilità e l’incredibile impunità degli uomini del SID legati alla destra, sotto l’incombente regia della P2.

Sulla figura di Maggi, sulla sua incontrastata egemonia sulla componente stragista della destra e sulla agevole strumentalizzazione della sua azione da parte dei servizi e dei fautori della strategia del rovesciamento istituzionale, più o meno cruento, riferiscono al processo milanese gli uomini che lo avevano assecondato e sui quali aveva esercitato influenza.

Ricordiamo che a fronte delle teorizzazioni e delle azioni che gli sono state attribuite, l’uomo è stato condannato definitivamente solo per la strage di Brescia, oltre cinquanta anni dopo l’inizio della sua attività eversiva.

Marzio Dedemo, Pietro Battiston, Martino Siciliano e Angelo Izzo hanno riferito nel processo milanese che Maggi teorizzava la strage come strumento di lotta politica. Il guardaspalle armato Dedemo nel resoconto della Corte aveva accompagnato Maggi a Milano nel 1972 ad una cena fra ex appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, restando ad aspettare fuori del locale. Aveva in seguito appreso da Pio Battiston che l’intento di Maggi era di ottenere finanziamenti dagli ex appartenenti alla RSI per continuare a compiere "attentati dimostrativi", da camuffare come di opposta matrice politica, al solito scopo di creare caos e tensione e favorire l’intervento dei militari, già opportunamente preparati.

Secondo la fonte in quell’occasione Maggi non aveva ottenuto alcun risultato per la contrarietà dei partecipi a quella strategia. Secondo gli stessi collaboratori, Maggi riteneva la strage uno strumento con il quale fare politica e per questo qualcuno lo definì un "pazzo".

Questi giudizi sono peraltro resi ex post o comunque riferiti ex post. Sappiamo che Tramonte, dopo avere formulato quel giudizio, partecipò ugualmente alla strage di Brescia. È evidente che nell’ambiente, pur cogliendosi i rischi e gli aspetti estremi della strategia promossa da Maggi, vi era la sensazione che potesse portare vantaggi, vista 1’ impunità goduta e i sostegni.

Non bisogna dimenticare la vicenda di Silvio Ferrari: secondo una ricostruzione, aveva visto troppo, la riunione degli ordinovisti con ufficiali italiani e americani e ne aveva parlato con un funzionario di polizia che ne aveva prontamente riferito a uno degli interessati, poco dopo lo scoppio dell’esplosivo che stava trasportando che lo uccise.

Ricorda ancora la Corte che le dichiarazioni di Dedemo sull’ideologia stragista di Maggi trovavano riscontri in altre testimonianze che riferivano per diretta conoscenza della linea stragista di Maggi. Collaboratori che avevano assistito ai suoi discorsi ricorrenti sul punto, sia nelle riunioni politiche, che negli incontri privati e perfino durante le partite a carte a casa dello stesso, cui aveva partecipato più volte nel periodo veneziano della sua latitanza, unitamente a personaggi noti dell’eversione nera come Digilio, Boffelli e, talvolta, Soffiati.

Proprio tale sua propensione gli era valso l’appellativo di "stragista" da parte del padre di Pietro Battiston, il quale, con riguardo ali’ episodio di Milano, si era doluto del fatto che lo stesso fosse andato alla riunione dei reduci ed avesse parlato "solo di bombe".

Battiston ha, peraltro, chiarito come la strategia terroristica propugnata da Maggi fosse finalizzata alla realizzazione di un preciso obiettivo politico: "ll fine ultimo era il collasso dello Stato e qua ci sono due teorie, o l’ intervento militare interno ed il cosiddetto colpo di stato, o anche suscitare una reazione nella sinistra in modo tale che ci fosse un tentativo di presa del potere della sinistra, che in quel momento era molto forte, pensiamo al movimento studentesco, sindacati, eccetera, giustamente in situazione di crisi dello Stato, di scontento generale della popolazioni, che chiedesse o il governo forte, o che provocasse una reazione di sinistra".

Il che evidenzia come le tesi propugnate da Maggi fossero tutt’altro che le farneticazioni di un pazzo, ma si inserissero in un contesto di strategie condivise ad altissimi livelli e in ambienti del tutto diversi da quello ordinovista. Basti pensare ai progetti di Edgardo Sogno, al suo anticomunismo viscerale e condiviso negli alti gradi della gerarchia militare.

Come ricorda nelle sue memorie 1’on. Taviani, i programmi di "golpe bianco" di Sogno che riuniva ex partigiani bianchi e importanti uomini di governo della prima repubblica fallirono ma solo perché, malgrado il sostegno della maggior parte degli alti ufficiali, non aveva considerato che gli mancava il sostegno degli ufficiali inferiori e dei graduati.

Per concludere occorre ricordare che le tesi di Maggi erano condivise da Freda, secondo quanto riferito dal compagno di prigione Angelo Izzo nel periodo in cui era processato per piazza Fontana. Freda aveva indicato Maggi come persona a lui vicinissima, uno dei capi della cellula ordinovista veneta, parlandone anche in termini molto positivi, quale medico che curava i poveri, molto benvoluto nell’ ambiente veneziano. Nel contempo, lo aveva rappresentato come un "pazzo scatenato", un "bombarolo", "uno dei sostenitori più accaniti della strategia della tensione, cioè di mettere le bombe per ottenere poi il golpe. E nella medesima direzione convergono le dichiarazioni di Martino Siciliano. Questi ha indicato in

Maggi e Zorzi i maggiori sostenitori, all’interno di Ordine Nuovo, della propensione di Giancarlo Rognoni per "azioni eclatanti, tipo gettare bombe o cose del genere, o sparare ad avversari politici in modo da innescare una catena, una spirale di violenza tale da indurre le autorità a reprimere con mano severa le contro manifestazioni che si sarebbero verificate in questi casi e così generando un’azione-reazione fino ad arrivare a contrapposizione, per il terrore che si suscitava nella gente. Cioè creare una quella che nelle speranze era la proclamazione di uno Stato forte, di uno Stato dove l’esercito avrebbe avuto la sua parte etc.".

Per concludere bisogna riaffermare che la leadership di Maggi su tutte le articolazioni della destra eversiva del nord Italia era incontestata.

La sentenza milanese fornisce ampia prova testimoniale e documentale di quest’egemonia non solo teorica, ma di effettiva direzione politica che si congiungeva ai rapporti che Maggi e i suoi mantenevano con apparati militari anche in ambito NATO.

La sentenza fornisce puntuali riscontri ai rapporti con i camerati veronesi che ruotavano intorno ai Soffiati. Marcello Soffiati era stato posto dal Maggi a capo della cellula veronese.

Il Soffiati era il tramite tra il Maggi e gli apparati militari. La sentenza ricorda la testimonianza di Sergio Latini che accomuna Soffiati e Maggi, spiegando che Soffiati riteneva che l’esercito fosse disponibile per un colpo di stato, essendovi numerosi ufficiali di destra. Riteneva fosse perciò necessario creare nel paese le premesse per un intervento militare di normalizzazione, attraverso l’esecuzione di atti di terrorismo. Il Soffiati sosteneva che ’i ragazzini di destra’ avrebbero potuto dar sfogo alla loro carica rivoluzionaria con la esecuzione di atti di terrorismo e stragi. Con ciò si sarebbero create automaticamente le premesse per un intervento militare. Il Soffiati sosteneva che la destra rivoluzionaria da sola non sarebbe stata in grado di prendere il potere e che era quindi necessario promuovere un intervento militare.

Da qui la conferma delle dichiarazioni del Digilio su riunioni e luoghi di incontro di civili e militari, anche americani, per la tessitura di trame eversive nella comune ottica anticomunista, La sentenza ricorda le numerose testimonianze sulle entrature di Soffiati nella base NATO di Verona. I Soffiati (padre e figlio) erano noti per i rapporti con i militari; Marcello aveva un lasciapassare per la base militare di Camp Derby e una tessera d’accesso alla base NATO di Vicenza.

Si legge ancora testualmente: "Dei rapporti di Marcello Soffiati con la C.IA. ha parlato Marco Ajfatigato, riferendo, fra l’altro, che lo stesso l’aveva messo in contatto con il capo area della C.IA. a Milano, George Stevenson. Del pari, Nico Azzi aveva dichiarato di avere appreso da Freda che a mantenere i contatti con i Servizi Segreti erano Marcello Soffiati, Carlo Maria Maggi e Cristiano De Eccher.

Sui rapporti tra Maggi e Freda la sentenza si diffonde a lungo citando il collaboratore Martino Siciliano, il quale: "Le idee politiche di Freda e quelle di Maggi non si distinguevano particolarmente l’una dall’altra, cioè da una parte Maggi era più concreto, Freda più teorico, portava al riguardo le sue teorie politiche, che avevano sempre una spiegazione soggiacente e basata su pensieri filosofici, vuoi di Evola, vuoi di Guenon, vuoi di quello che vuoi.

Mentre invece le idee del Dottor Maggi, che peraltro, per un certo punto, sono state anche le mie idee e le idee di Delfo Zorzi, convergevano per quanto atteneva alla necessità di distruggere lo Stato borghese pluteo o giudocratico, come lo definiva il Freda, e di distruggerlo da un punto di vista non solamente con la lotta politica, ma con la lotta armata, se necessario, cioè di ritornare a quello che era stato uno scontro diretto negli anni 1943 - 1945, di ricominciarlo"".

Maggi e Freda, dunque, pur in presenza di differenze ideologiche, non erano su posizioni diverse per ciò che concerne i compiti dell’estrema destra, fungere da detonatore della rivincita degli sconfitti del 194 5 da attuarsi contro l’odiato nemico comunista, alleandosi con chiunque pur di raggiungere il rivolgimento desiderato.

Maggi aveva infine rapporti con i bresciani, con i padovani, con gli udinesi, i triestini e i trentini, con Giovanni Melioli e il gruppo di Rovigo. Ma aveva soprattutto forti rapporti con i milanesi. Il gruppo de La Fenice promanava da Ordine Nuovo veneto. Secondo testimonianze raccolte dalla Corte d’appello era Maggi a sostenerli economicamente e politicamente, dettando anche la linea politica ed editoriale del giornale La Fenice.

Strettissimi, anche i legami politici e personali fra Maggi e Giancarlo Rognoni, perduranti pure in epoca successiva alla strage, e durante la latitanza di Rognoni in Spagna che Maggi sosteneva.

Quanto alle S.A.M la sentenza ricorda che circa un mese e mezzo prima della strage di

Brescia si era tenuta a Verona una riunione, cui aveva partecipato lo stesso Digilio, con Carlo Fumagalli (M.A.R.), Amos Spiazzi, Maggi, Bovolato (capo delle S.A.M.) e il gen. Frasca, coordinatore dello scudo mediterraneo per conto della C.I.A. Lo scopo della riunione era il coordinamento degli sforzi per attuare un colpo di Stato in chiave anticomunista. Di riunioni simili ve ne erano state altre, e con SAM e Ordine nero, l’organizzazione che aveva recuperato gli ordinovisti, vi era piena sintonia di intenti.

Maggi e Tramonte sono stati definitivamente condannati come concorrenti per la strage di Brescia, ma lo spaccato che emerge finalmente dalla sentenza milanese descrive in modo esauriente qual era l’effervescenza del!’ eversione nera alla metà degli anni Settanta di quali sostegni godesse e come si andasse consolidando l’idea che si trattava di un’area cui si potesse ricorrere per provocazioni e iniziative eversive di ogni genere e livello.

La sentenza della Corte d’assise d’appello milanese, a conclusione del travagliato iter processuale per la strage del 28 maggio 1974 a Brescia finisce con il confermare, all’esito del contraddittorio, la pagina con la quale i pubblici ministeri bresciani iniziano la loro memoria di circa 1200 pagine nella quale esaminano un imponente materiale documentale e probatorio, a partire da documenti ufficiali di Archivi americani:

"Nell’ambito delle vicende oggetto del presente procedimento si vedrà che molto spesso gli uomini della destra eversiva viaggiano accanto a quelli delle istituzioni e, in particolare, dei servizi segreti. Vediamo che anche i soggetti coinvolti nella presente indagine non fanno eccezione a questa regola: Soffiati, così come Digilio, avrebbe avuto rapporti con apparati di intelligence americani; inoltre collabora sia con i Carabinieri che con la Questura di Verona; vi è un M.llo dei Carabinieri che si aggira costantemente a Colognola ai Colli; Fachini ha rapporti con il SID; Tramante è una fonte del SJD; Zorzi, secondo questa accUsa, ha rapporti con gli Affari Riservati; Delfino ne fa addirittura parte, dal I 978. Maggi, secondo Vinciguerra, non poteva non avere rapporti istituzionali, avendogli promesso che la scorta di Rumor non sarebbe intervenuta in caso di attentato. All’esterno di questo processo i casi si moltiplicano all’infinito.

Ci si chiede come ciò possa essere avvenuto, ma la risposta è abbastanza semplice. Vi è, infatti, una sorta di coincidenza tra le finalità che i servizi segreti e la destra eversiva si propongono, e cioè quello di bloccare l’avanzata delle sinistre, problema molto sentito all’epoca. Questo fine, che appare naturale per la destra eversiva, lo è altrettanto anche per i Servizi, nonostante siano un apparato delle istituzioni: come si vedrà tra poco, esistono documenti dai quali si desume una costante attenzione degli Usa nei confronti delle evoluzioni politiche italiane, e la possibile avanzata delle sinistre viene vista con grande preoccupazione dai massimi vertici, non solo militari e dei servizi, ma delle stesse istituzioni. Ciò si traduce, con un ’inevitabile influenza, sul comportamento dei nostri servizi.

Tutto ciò ha rilievo nell’ambito di questo procedimento in quanto sia Digillo che Tramonte (quest’ultimo ha poi ritrattato le suddette dichiarazioni) riferiscono di un ’attività di Ordine Nuovo finanziata, e in qualche modo controllata e supportata, dai servizi militari americani.

Agli atti esistono numerose consulenze e perizie che rendono l’idea del/’ esistenza di una notevole sudditanza di servizi e addirittura di altre istituzioni italiane nei confronti di servizi ed istituzioni degli Usa, con riferimento al suddetto problema della possibile avanzata delle sinistre. I fatti, come il referendum sul divorzio, che avrebbero potuto spostare l’ago della bilancia verso il comunismo, venivano visti con preoccupazione.

Venivano seguiti con interesse anche i militari italiani che, pur contrari al comunismo, rimanevano inerti, e quindi si auspicava un loro intervento. Sono stati sottoscritti protocolli che sanciscono una collaborazione tra i capi di stato maggiore dei due eserciti, ai fini di una comune collaborazione per debellare il comunismo. Si parla di partiti democratici intendendo tra questi escluso il partito comunista. Analoghi accordi nel dopoguerra sono intervenuti anche tra i vertici dei servizi statunitensi, e non solo italiani. "

Ci sembra una sintesi interessante del contesto che stiamo provando a ricostruire.

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