Come sarà Gaza tra un anno, se americani ed europei non sventeranno i piani di Netanyahu? Proviamo a immaginarlo ricavandolo da dichiarazioni e indiscrezioni apparse sulla stampa israeliana.
Siamo nel 2025 e l’esercito israeliano è ancora nella Striscia, trincerato in due linee parallele. È a nord di Gaza City, sul limite della zona-cuscinetto che protegge Israele da incursioni nemiche; e a sud, lungo la frontiera con l’Egitto, dove controlla che dal Sinai non entrino armi nella Striscia. Tra le due linee, i palestinesi. E un paesaggio lugubre. Distese di macerie triturate dalla guerra. Cenciose, brulicanti tendopoli. Ospedaletti e cucine da campo allestiti da governi stranieri.
Non si vede in giro un solo tutore dell’ordine, termine del resto improprio in quel caos frastornato. Quanto rimane della polizia di Hamas è confluito nei “comitati popolari”, l’unico simulacro di autorità. I comitati sovrintendono alla distribuzione del cibo operata da agenzie internazionali, reprimono i furti e ovviamente non disturbano la guerriglia. Quest’ultima non fatica a reclutare, troppi gli uccisi e troppo spietati i tormenti subiti perché la gioventù palestinese possa dimenticare i lutti e introiettare la sconfitta.
Di notte, quando si spara, i tank israeliani escono dalle fortificazioni a nord e si avventurano lungo la pista che corre al centro della Striscia, traversando i laghi di detriti che un tempo erano città. Appostati tra i calcinacci, franchi tiratori palestinesi combattono con un armamento ormai rudimentale. Ma combattono, e finché non cedono possono sperare che la loro guerra si saldi alla guerra condotta da Hezbollah e alle manifestazioni pro Palestina nella capitali arabe, incubatrici di tumulti. Temendole, i sovrani mediorientali sono sempre più inclini ad assecondare l’ira delle masse, per non diventarne il bersaglio.
Fossa comune
Se di notte la zona palestinese della Striscia torna a essere un campo di battaglia, di giorno è la fossa comune dove restano sepolti chissà dove i tanti spariti che i familiari non hanno smesso di cercare, scavando con strumenti di fortuna. Non si vede traccia di attività produttive. Nessuno, sia stato estero o grande impresa, accetta di accollarsi i rischi economici e politici che comporterebbe la ricostruzione in un territorio che resta terra di nessuno. Occorrerebbe dispiegare una forza multinazionale, verosimilmente Onu e araba, autorizzata quantomeno dall’Autorità palestinese.
Ma perché quei contingenti entrino nella Striscia l’esercito israeliano dovrebbe uscirne, altrimenti sarebbero inevitabilmente percepiti dai palestinesi come complici del nemico e combattuti di conseguenza.
Mancando una “forza di pace” internazionale che garantisca la sicurezza e l’ordine, tutto è fermo. Non arrivano investimenti, macchinari, materiali, nulla. Ma sulla costa qualcosa si muove: un lavorio di fabbri e carpentieri segnala il moltiplicarsi di piccoli cantieri navali. Fabbricano imbarcazioni rudimentali con il metallo strappato dalle macerie. L’unica industria di Gaza: l’industria delle migrazioni. Partono ogni mattina barchini sovraccarichi di famiglie. Cipro, la Turchia, la Grecia, Bengasi e da lì l’Italia. La possibilità di un futuro. Il rischio di naufragare non appare più alto o più spaventoso del rischio di perire in una battaglia notturna tra esercito israeliano e guerriglia.
Così la Striscia si va spopolando. Come annunciato durante la guerra da alcuni ministri di Netanyahu, Israele fa il possibile per favorire l’“emigrazione volontaria”, esito finale, inevitabile della crisi umanitaria prodotta dall’esercito israeliano. È sempre più evidente che si è trattato di una “pulizia etnica”, ma non ricorrono le condizioni per arrestarla.
Il porticciolo dal quale salpano i migranti con un visto per il paese di destinazione – quelli regolari, quelli “incentivati” dalle autorità israeliane attraverso accordi bilaterali – paradossalmente è nato intorno ai pontili temporanei costruiti durante la guerra dagli americani per permettere l’arrivo di aiuti alimentari. Dovevano aiutare la popolazione di Gaza a sopravvivere e ora l’aiutano a scegliere l’esilio.
Il livello “minimo”
Quanti palestinesi devono partire perché la popolazione si “assottigli” nella proporzione desiderata da Netanyahu? Qual è insomma il “livello minimo” auspicato dal premier in una riunione di cui ha raccontato il secondo giornale israeliano per diffusione, Israel Ha Yom? Un milione, due milioni? La metà, i nove decimi? Di sicuro Israele può attendere. Il governo valuta in una decina di anni la permanenza militare nella Striscia, riferiva nel marzo 2024 la stampa israeliana.
I futuri “coloni” israeliani sono impazienti. Hanno progettato i piani urbanistici per due insediamenti turistici sulla costa. Sono gente pia, ovviamente elettrizzata dall’idea di abitare lì dove Iddio medesimo esercitò le sue grandiose vendette sin dalla notte dei tempi (“E io manderò il fuoco sulle mura di Gaza, e il fuoco divorerà le roccaforti” del nemico: Amos 1:6-7). Se poi ci si può guadagnare con i b&b, ne guadagnerà anche la fede.
Invece al largo di Gaza il futuro sembra già cominciato. Una volta accertato che Hamas non ha più i missili per colpire a distanza le piattaforme offshore, a trenta miglia dalla costa sono cominciate le prospezioni per sfruttare un giacimento di gas. Non è chiaro chi sia già all’opera. Certamente l’israeliana Ratio. Ma nel consorzio cui il governo israeliano ha attribuito le concessioni sono presenti anche Bp ed Eni.
È successo dopo l’inizio della guerra, mentre Roma ribadiva l’appoggio alla nascita di uno stato palestinese. Ma questo non è parso un impedimento a un accordo per il quale Eni, partecipata per il 30 per cento dallo stato, pagherebbe le royalties a Israele per sfruttare un giacimento che non è in acque israeliane.
I legali di quattro ong palestinesi hanno fatto presente che annettendosi de facto quel tratto di mare Israele ha commesso un crimine di cui anche le compagnie petrolifere potrebbero essere chiamate a rispondere.
Un business assai più smodato eccita i siti e l’immaginario arabi dall’inizio del 2024 (ma ne raccontò anche Times of Israel). Si tratterebbe di scavare un canale parallelo al canale di Suez. Ma più largo, più profondo, così da permettere il passaggio anche a navi mastodontiche che non possono transitare per Suez. Da Eilat al mare di Gaza: oltre 200 chilometri. Il progetto, nato nel 1963 negli Usa ma declassificato solo nel 1999 dal governo americano, è noto come il “Canale Ben Gurion”.
Perché torna d’attualità? Perché se il percorso passasse per la Striscia risulterebbe meno costoso. Perché sarebbe “il canale dell’Occidente”, l’alternativa a Suez se l’Egitto implodesse o si alleasse con Mosca. O perché dilaga un complottismo che invera la definizione di Adorno: l’antisemitismo come “dicerie sugli Ebrei”. Avidi come sempre, avrebbero raso al suolo la Striscia per rendere realizzabile il ciclopico “Canale Ben Gurion”.
Rabbia
Però per oltre un terzo degli edifici Gaza è stata rasa al suolo. E, anche se il governo Netanyahu non permette ai giornalisti di condurre indagini a Gaza, nel 2025 se ne sa abbastanza per concludere che le atrocità commesse dai soldati israeliani rivaleggiano con la atrocità commesse da Hamas.
In pochi mesi Israele ha dilapidato un soft power non meno poderoso e intimidente delle sue bombe atomiche. Ora è il paese che il tribunale Onu (Icj) processa per “acts of genocide”, inteso come “pulizia etnica”, imputazione che all’inizio sembrò ai più irrilevante e invece «ha plasmato il dibattito internazionale sulla guerra di Gaza» (così Comfort Ero, presidente del Crisis Group).
E intorno alla nazione ebraica adesso il Medio Oriente cova vendette. Scriveva nel marzo 2024 uno che conosce bene l’area, David Hearst: «Una pericolosa e potente mistura sta fermentando nei cuori arabi ovunque nel mondo: rabbia, profonda umiliazione e senso di colpa. Sono gli ingredienti per una guerra esistenziale quale questa generazione di israeliani non ha mai sperimentato e che certo non desidera».
Non è scritto nel destino che la guerra di Gaza entrerà nella storia come il detonatore di uno sconvolgimento grandioso e devastante. Ma, nell’eventualità, sarebbe previdente che gli incerti europei si domandassero cosa stanno facendo per scongiurarlo.
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