Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dal 29 luglio è iniziata la prima serie dedicata alla sentenza della corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini per la strage di Bologna e ha squarciato il velo su alcuni mandanti


Dal contenuto della trascrizione di altri nastri emerge il ruolo affidato a Licio Gelli nel progetto del 1970, la cattura del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e la presenza a Roma di un gruppo di mafiosi siciliani incaricati di uccidere il Capo della Polizia, Angelo Vicari.

I colloqui vertono tra il colonnello Romagnoli da un lato e degli Innocenti e Nicoli dall’altro. Muovono dalla nascita del Fronte nazionale e dei suoi scopi. Nel corso della conversazione il tenente colonnello Romagnoli sostiene essere necessario mettere a disposizione dell’Autorità Giudiziaria molti dei dati di cui sono in possesso i suoi interlocutori, persone come l’avv. Degli Innocenti e Torquato Nicoli, ma nello stesso tempo che occorra "troncare la catena", "sviluppare una contro-manovra", "condurre un’azione di frenaggio", impedendo che certi giudici trovino le "chiavi" o "l’anello di congiunzione" che rischi "di dare un colpo feroce alle Forze Armate".

Nella sentenza si sostiene che il riferimento sia all’Autorità Giudiziaria di Padova, che in quei mesi stava procedendo in direzione ascendente nel ricostruire non solo le trame golpiste, ma anche le strutture parallele del SID e delle Forze Armate.

Ribadisce che la linea del Servizio è di mettere "alcune persone, che potrebbero venire coinvolte, in condizioni di non esserlo" e "trovare degli strumenti di ricatto nei confronti di coloro che potrebbero aprire quel determinato cassetto" e cioè collaborare senza remore con l’Autorità Giudiziaria. Esattamente l’esplicitazione dei metodi di depistaggio attuati in quel periodo. Il riferimento esplicito è al colonnello Amos Spiazzi che starebbe "annaspando" ed era sul punto di dire quello che, nell’interesse globale delle Forze Armate e dei Servizi di Sicurezza, non era consentito.

Il riferimento è più che pertinente. Nella primavera del 1974, Amos Spiazzi è detenuto a Padova, messo alle strette dalla confessione fiume di Roberto Cavallaro; incalzato dai giudici, aveva fatto ammissioni sulla struttura parallela anticomunista esistente all’interno del SID e delle Forze Armate, struttura cioè sovraordinata ed in grado di muovere ed indirizzare gruppi come quello della Rosa dei Venti.

Tale organizzazione esisteva e non avrebbe avuto finalità eversive, ma soltanto di protezione delle istituzioni contro il comunismo e il marxismo, secondo quella definizione di "anticomunismo di Stato", cui era orientato il livello occulto di una parte dell’apparato politico militare, di cui vi è menzione nelle memorie di Edgardo Sogno, di cui peraltro non facevano parte altri esponenti politici di grande rilievo che questo livello organizzativo si sforzavano di contenere. Il richiamo evidente è ad Aldo Moro.

Questo organismo, secondo Spiazzi, non si identifica con il SID, ma in gran parte coincide con il SID. L’esistenza di una struttura del genere, distinta dall’organizzazione Gladio, emersa nella sua completezza solo quindici anni dopo, non poteva all’epoca essere rivelata.

Si trattava dell"’Organizzazione di Sicurezza" denominata Nuclei di Difesa dello Stato, struttura parallela della quale avevano riferito diverse fonti oltre a Spiazzi (Ferro, Stimamiglio ed altri).

Ricorda la sentenza che in piena guerra fredda l’esistenza di tale struttura segreta non doveva venire alla luce e in proposito ricorda il famoso confronto del colonnello Spiazzi con il superiore generale Alemanno, - allora Capo dell’Ufficio Sicurezza del S.l.D. - allorché l’ufficiale inviò un esplicito invito al silenzio al vacillante Spiazzi: racconta solo le cose che "facevate voi privatamente, senza coinvolgere altri". Da quel giorno il colonnello Spiazzi avrebbe taciuto.

Le trame degli apparati dovevano essere ridotte a iniziative di singoli infedeli che si erano lasciati scoprire. Secondo il colonnello Romagnoli, bisognava alzare un "muro" oltre il quale i magistrati non potessero andare. Bisognava fermare operazioni terroristiche come la strage di Brescia e vicende come gli attentati che stavano preparando gli uomini sorpresi a Pian del Rascino, rientranti in un disegno terroristico di cui l’ufficiale dava atto; al contempo impedire che fossero colpite da un’ondata repressiva le "forze sane".

In sostanza, abbandonare le frange estreme del terrorismo ordinovista, fino a quel momento strumentalizzate, ma mantenere in piedi il "deep state" necessario a contenere qualsiasi slittamento politico della situazione italiana, non consentito dalla situazione internazionale.

La strategia di Maletti e Romagnoli fu, dunque, di indirizzare le istruttorie in corso su binari compatibili con gli interessi globali dei settori politico-militari all’epoca predominanti, disattivando linee di indagine, come quelle dei giudici di Padova che puntavano a rivelare il cuore segreto della struttura, nello stesso tempo occulta e ufficiale, costituita nel quadro della difesa degli interessi dell’Alleanza Atlantica.

Una parte del colloquio è dedicata al compito specifico affidato a Licio Gelli (quello di privare della libertà personale il Presidente della Repubblica del tempo, Giuseppe Saragat).

Nella sentenza-ordinanza viene riportata l’integrale trascrizione del colloquio tra Romagnoli, Labruna, Degli Innocenti e Nicoli. Il racconto (31.5. I 974), ricco di dettagli, fornisce una chiara e plausibile spiegazione della manovra: Saragat doveva cadere nelle mani del Fronte Nazionale per appoggiare l’operazione. Da precisare che Gelli già nel 1970 disponeva di un pass per accedere liberamente al Quirinale, ma la cattura poteva avvenire nella sua residenza privata.

L’obiettivo era ottenere dal Presidente un decreto di scioglimento delle camere. Il compito affidato a Gelli era dunque preciso e di decisiva importanza: la cattura del Presidente Saragat come azione autonoma all’interno del progetto golpista, della quale non erano incaricati i nuclei del Fronte Nazionale, ma un nucleo specifico diretto da Licio Gelli. Emerge dal dialogo il diverso atteggiamento atteso dal Presidente della Repubblica, in occasione dei due diversi progetti golpisti del 1970 e del 1973/74.

Con Saragat non si poteva sperare in uno spontaneo cedimento ai congiurati del Presidente e quindi doveva semplicemente essere catturato e messo in condizione di non opporsi ai golpisti. Nel 1973/74, il quadro era diverso. Il Presidente Giovanni Leone poteva essere convinto, senza necessità di usare la forza, ad assumere un determinato atteggiamento di arrendevolezza o passività, essere indotto a sciogliere le Camere e a comparire alla televisione annunciando che la "Repubblica aveva cambiato indirizzo". Si poteva contare in un avallo presidenziale.

Nonostante la chiara indicazione sul ruolo di Gelli emergente dal colloquio con i congiurati, il colonnello Romagnoli rendeva dichiarazioni reticenti sul conto di Gelli: tale nome comunque non aveva suscitato in lui alcun interesse. La risposta elusiva induce il magistrato a svolgere ragionevoli e convincenti considerazioni.

L’assenza di informativa, accertamento o approfondimento su Licio Gelli si spiega con l’immenso potere che nel corso del decennio Gelli aveva progressivamente accumulato; tale crescente influenza e potere di condizionamento gli consentì di agire in maniera sempre più spregiudicata e criminale come centro di riferimento di uno Stato occulto. Per la sentenza il silenzio omertoso dell’ex uomo del SID su Gelli porta alla conclusione che la sua figura fu volutamente espunta dagli accertamenti e dal rapporto conclusivo del SID.

Del resto si trattava, secondo le parole del generale Maletti, di una "persona sacra per il Servizio", come emerge dal racconto del capitano Santoni, l’ufficiale di uno dei Centri C.S. di Roma che aveva "incautamente" osato svolgere alcuni accertamenti su Gelli. […].

La precoce morte dell’avvocato Degli Innocenti impediva di approfondire attraverso questa fonte primaria il ruolo di Gelli nel golpe. La fonte Degli Innocenti, seria, informata e attendibile, aveva reso un’importante testimonianza nel processo per piazza Fontana. A proposito di Mario Merlino aveva dichiarato che in seguito ad un’inattesa visita nell’estate del 1969, costui, in contatto con uomini del Fronte Nazionale, gli aveva parlato dell’opportunità di compiere attentati contro le banche.

Altro argomento, emerso con chiarezza fu la presenza a Roma, la notte del 7.12.1970 e nei giorni immediatamente precedenti, di un gruppo di mafiosi siciliani incaricati di eliminare il Capo della Polizia. Fu Torquato Nicoli a fornire notizie dettagliate al colonnello Romagnoli su tale argomento, benché l’ufficiale ne fosse già informato. I mafiosi provenienti dalla Sicilia avevano lo specifico compito di "fare fuori" Vicari. Erano confluiti a Roma il giorno 6 Dicembre e vi avevano alloggiato. I mafiosi avrebbero fatto capo al Ministero dell’Interno dove si sarebbero armati; i complici avrebbero aperto le porte del palazzo. Il gruppo proveniente dalla Liguria si sarebbe occupato del Ministero della difesa, mentre i forestali della RAI.

Anche la presenza dei mafiosi era stata omessa dal rapporto. Labruna aveva dichiarato all’istruttore che questo particolare finiva per dare risalto alla figura del dr. Salvatore Drago, medico siciliano in servizio al Ministero dell’Interno che aveva permesso una ricognizione preventiva a una squadra di AN. Le ragioni dell’omissione erano da individuare quindi nella volontà di occultare i rapporti fra il dr. Drago e la mafia siciliana. Il particolare è di rilievo nella diagnosi del contesto storico in cui si colloca la strage del 2 agosto, di cui ci stiamo occupando. In sentenza si afferma che Salvatore Drago non solo "era molto vicino all’epoca al capo dell’Ufficio Affari Riservati, dr. Federico Umberto D’Amato, ma era iscritto alla P2, come del resto lo stesso D’Amato".

"E’ quindi probabile - prosegue la sentenza - che il generale Maletti, il quale aveva già espunto il nome ed il ruolo di Licio Gelli dal rapporto sul golpe, censurando l’intero episodio relativo alla presenza del gruppo di mafiosi collegato allo stesso dr. Drago, non abbia voluto aggravare la posizione di quest’ultimo e soprattutto abbia inteso recidere un altro elemento di collegamento fra il livello più alto della congiura, rappresentato da alcuni uomini vicini a Licio Gelli e gli avvenimenti del 7/8 dicembre 1970".

Questa censura su una tale ingombrante presenza appare anomala anche oggi. Specie dopo le confessioni di Buscetta e Calderone, che hanno reso importanti rivelazioni sul ruolo e il significato che l’impegno della mafia con Borghese ebbe in quegli anni e nei successivi, a conferma del ruolo politico che Cosa nostra svolse nel paese fino al 1992. Secondo i due collaboratori il ruolo dei mafiosi nel golpe sarebbe stato di controllare, al momento della sua attuazione, alcune zone della Sicilia; sostituire i Prefetti con uomini di fiducia del Principe Borghese, impedire contrattacchi di civili o comunque di forze fedeli al Governo legittimo e rastrellare gli oppositori politici.

Nel corso dell’azione, gli elementi mafiosi sarebbero stati muniti di un bracciale verde in segno di riconoscimento. In cambio sarebbe stata alleggerita la posizione processuale di alcuni importanti esponenti mafiosi detenuti e sarebbe stata forse concessa dal nuovo Governo un’amnistia. La proposta era stata discussa nel corso di riunioni, svoltesi anche a Milano, con la partecipazione di capi mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti, Luciano Liggio e Salvatore Greco.

Qualche vecchio mafioso aveva ricordato la storica opposizione della mafia al fascismo e soprattutto fu considerata provocatoria la richiesta di elenchi di nomi di mafiosi delle varie famiglie da inserire nel piano. In conseguenza di ciò ci fu solo un’adesione tiepida al progetto, senza la consegna di liste, ma con la promessa ai golpisti di un generico sostegno. Siamo all’evidenza all’origine della massima ascesa della mafia politica e in definitiva alla prima trattativa con Cosa nostra.

Questi contatti sono stati in seguito confermati da fonti attendibili nell’ambito dei processi in cui si è verificata l’attendibilità di Buscetta, che attraverso le dichiarazioni sul Golpe Borghese ha acquisito ulteriore credibilità.

Deve perciò considerarsi verosimile che un gruppo di mafiosi interessati al progetto, fosse stato presente a Roma il 7 dicembre 1970, a disposizione dei congiurati. Delle deposizioni Buscetta, la sentenza ricorda un altro particolare importante, che merita di essere citato.

"Tommaso Buscetta ha ricordato un altro particolare importante. Subito dopo la riunione in cui si era discusso in merito alla partecipazione al progetto. egli era rientrato negli Stati Uniti e, appena sbarcato, era stato arrestato. Per prima cosa i funzionari della Polizia americana, invece di interrogarlo su vicende di droga o omicidi, gli avevano chiesto "Lo fate o no, questo golpe?" e, alla sua prudente risposta "Quale?", era stato aggiunto "Quello con Borghese!".

Buscetta, ovviamente, aveva ad ogni buon conto negato, ma aveva compreso che gli americani erano perfettamente a conoscenza del progetto", (id. 195).

Anche i rapporti fra AN ed ambienti mafiosi a Roma erano stati stretti da tempo, secondo le testimonianze di Vincenzo Vinciguerra e Carmine Dominici, sui quali la sentenza fornisce riscontri, ma che conosciamo direttamente dalla deposizione di Vinciguerra.

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