Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Il 30 maggio 1978 venne ucciso a Palermo un importante esponente di Cosa nostra. Si trattava del boss Giuseppe Di Cristina, detto la “tigre” di Riesi per la sua ferocia, capomafia di quel paese, alleato e amico dei fratelli e “colleghi” catanesi Giuseppe e Antonio Calderone, ma acerrimo nemico dei “Corleonesi”, di Luciano Leggio in particolare.

Ben prima di quella data, avvertito e spaventato dopo l’uccisione di due suoi guardaspalle, Di Cristina aveva cominciato a sentire sul collo il fiato dei nemici, che lo braccavano da tempo (era già miracolosamente scampato a un attentato), e pensò di trovare rifugio e salvezza affidandosi allo Stato. Iniziò così a collaborare con il capitano dei Carabinieri Alfio Pettinato in un casolare della campagna di Riesi appartenente al fratello Antonio, anche egli ucciso dai “Corleonesi”.

È di tutta evidenza che Di Cristina non rimase folgorato sulla via per Damasco come Saulo di Tarso, divenuto poi San Paolo, perché il suo non era un sentito pentimento per le atrocità commesse, ma la collaborazione mirava soltanto a mettersi al sicuro e a vendicarsi fornendo agli inquirenti le informazioni giuste per mettere con le spalle al muro gli odiati nemici Leggio, Riina e Provenzano.

E anche se non gli servì a nulla, come si è avuto modo di ricordare, Di Cristina fece in tempo a profetizzare l’omicidio del giudice Terranova, a indicare la sede di una raffineria e, più in generale, a fornire un quadro completo delle attività del gruppo di “viddani” che ormai aveva conquistato il capoluogo siciliano a colpi di pistola.

Il capitano Pettinato e il brigadiere Di Salvo, che aveva assistito all’incontro, descrissero Di Cristina come un animale braccato e in preda al terrore. I suoi uomini più fidati erano già stati uccisi e lui stava attendendo la consegna dell’auto blindata che non arrivò abbastanza in fretta.

“L’eliminazione del boss di Riesi – si legge nella ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 – costituisce il primo passo di un lucido piano, attuato con feroce determinazione dai Corleonesi, per eliminare a uno a uno tutti i più potenti alleati di Stefano Bontate di modo che la programmata eliminazione dello stesso Bontate non avrebbe scatenato reazioni di sorta.

E l’errore di Stefano Bontate, in questa tragica partita a scacchi, è stato proprio di non avere capito in tempo il perverso piano dei suoi avversari”.

Le rivelazioni del Di Cristina furono importanti ma, anche in questo caso, non lasciarono il segno. I “Corleonesi” poterono continuare indisturbati, ancora per qualche anno, nel loro perverso disegno di conquistare la leadership in Cosa nostra. Se le informazioni ricevute dai collaboratori di giustizia fossero state recepite, riscontrate, traendone le dovute conseguenze, oggi racconteremmo una storia diversa. Perché tutte quelle notizie, sempre concordanti, sulla esistenza di una societas sceleris con le sue regole inviolabili, sono le medesime alle quali ha fatto riferimento nel 1984 Tommaso Buscetta.

Disattenzione, inettitudine, ignavia, incompetenza, chissà cos’altro, hanno impedito una efficace azione repressiva che avrebbe cambiato la storia. E purtroppo questi non sono stati gli unici casi.

Data la superficialità e, quasi, la noncuranza, con cui sono state considerate le “testimonianze” dei pentiti citati sopra, prima della collaborazione di Tommaso Buscetta non si aveva ancora un’idea precisa di come fosse organizzata Cosa nostra.

C’era quasi la contezza della sua esistenza da notizie che risalgono alla notte dei tempi, ma le regole interne, i rapporti tra gli “uomini d’onore”, le gerarchie non erano del tutto noti. Come constatò Falcone, “prima di lui, non avevo ‒ non avevamo ‒ che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare coi gesti”.

Grazie al “professore di lingue” e alle complesse indagini effettuate dal pool, appena costituito, è stato invece possibile indagare, finalmente, a fondo: i numerosi, efferati omicidi, il traffico di sostanze stupefacenti e di armi, i sequestri di persona, le rapine. E poi le estorsioni consistenti nell’imposizione del “pizzo”, cioè il pagamento di somme di denaro, a commercianti, imprenditori e professionisti, le cui attività si svolgevano nel territorio sotto la giurisdizione delle numerose “famiglie” mafiose operanti a Palermo e provincia.

Le indagini hanno consentito, soprattutto, di far luce sulla guerra di mafia combattuta tra il 1981 e il 1983, nel corso della quale vennero uccisi, a opera dei “picciotti” di Riina e Provenzano, “uomini d’onore” della fazione avversa quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.

Allora fu consumata una vera e propria mattanza, una chirurgica resa dei conti che insanguinò la città di Palermo in nome del predominio egemonico di un clan, quello dei “Corleonesi”. Delitti che provocarono anche la fuga di centinaia di membri delle cosche perdenti, e che purtroppo sono stati considerati da troppi con indifferenza, quasi fossero una naturale conseguenza di un violento gioco di potere, quasi che quei poveri corpi strangolati, sfigurati, incaprettati (cioè legati con una corda stretta tra il collo e gli arti inferiori) o sciolti nell’acido, uccisi nelle maniere più atroci, non appartenessero anch’essi alla comunità umana e non fosse compito della società civile impedire quel massacro.

Il generale Dalla Chiesa, in un’intervista resa al quotidiano “l’Unità”, disse: “Il primo pentito lo abbiamo avuto nel ’70 proprio fra i mafiosi siciliani. Perché escludere che questa struttura possa esprimere un gene che finalmente scateni qualcosa di diverso dalla vendetta o dalla paura?

Ma questo può verificarsi soltanto nei momenti più alti dell’iniziativa dello Stato”.

Una frase profetica. Buscetta e poi gli altri collaboratori di giustizia non spuntarono fuori per un caso fortuito, ma perché compresero che stavolta lo Stato faceva sul serio, al contrario di quanto avvenuto in passato (ricordate le “voci” nel deserto di Alagna, Raia, Vitale e, in parte, Di Cristina?). E, soprattutto, erano scesi in campo magistrati credibili come Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, che avevano dimostrato con il loro quotidiano impegno di voler perseguire con forza Cosa nostra, incuranti dei pericoli ai quali sicuramente sarebbero andati incontro.

Ed è altresì da riconoscere che un apporto decisivo nel contrasto al crimine organizzato di stampo mafioso è venuto dalla collaborazione di “uomini d’onore” attendibili, passati dalla parte dello Stato.

I pentiti furono un chiodo fisso per Totò Riina, disposto a tutto pur di tappare loro la bocca. Il boss capiva che avrebbero potuto fare molto danno all’organizzazione, perché “si poteva mettere tutto il mondo contro di noi e non ci poteva fare niente”, soleva affermare con orgoglio, ma, aggiungeva, “se un uomo d’onore iniziava a parlare era un disastro”.

Per questo motivo ‒ oltre alla volontà di imporre alla politica l’annullamento del carcere duro per i mafiosi, regolato dal 41 bis e dell’ergastolo ‒ uno dei suoi obiettivi fu l’eliminazione della legislazione premiale sui collaboratori di giustizia. Per contrastarli decise che, se non si poteva ricorrere all’eliminazione diretta dei “pentiti”, gli si sarebbe fatta terra bruciata intorno eliminando i loro familiari, gli amici o le persone più care.

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