Quando Daniele De Rossi fu acquistato dal Boca Juniors il quotidiano Clarín scrisse che il Boca non aveva comprato un giocatore ma un «concetto romantico».

Guardando l’accoglienza prima a Trigoria e poi all’Olimpico, sembra che De Rossi continui ad essere un «concetto romantico» prima come calciatore e ora come allenatore.

La sua essenza è diventata un cuscinetto tra la Roma e i suoi tifosi, tra il recupero del campionato e lo tra lo strappo di mandar via José Mourinho, un grande illusionista a livello di David Copperfield che riesce a far sparire il bel gioco e le vittorie in campionato – dove arriva due volte sesto ma con due finali europee, Conference ed Europa League – in funzione di una difesa del romanismo (non si sa bene da quali attacchi) ribadita in quasi tutti gli striscioni esposti allo stadio.

In questo contesto, buttato in mare come un bambino che deve imparare a nuotare, Daniele De Rossi in nome della tradizione è stato chiamato a sostituire San José inventore del cinema calcistico. Ha cambiato subito modulo e la sua Roma ha giocato un buon primo tempo contro il Verona, palla a terra, tanta trama, con uno Stephan El Shaarawy rimesso esterno alto che ha fatto segnare Romelu Lukaku e Lorenzo Pellegrini che è il nuovo De Rossi, cresciuto, coccolato, non risolto. Poi ha molto sofferto nel secondo tempo, ma ha vinto. Ed è cominciato il dopo. La seconda stagione.

Perché la prima, per De Rossi, fu quella dopo Francesco Totti, il «Capitano», senza ulteriori aggiunte, ancora oggi che non gioca più, è lui – a cinema, in tivù, per strada – tanto che per De Rossi ci fu l’invenzione giornalistica di «Capitan Futuro». La seconda è quella dopo Mourinho.

Tanto che tutti gli ricordano una dichiarazione che fece quando sembrava in procinto di lasciare la Roma: «L’unico rimpianto è avere una sola carriera da donare alla Roma», ora sono due.

Rappresenta gli altri

In realtà vedendolo andare sotto la curva – portandoci anche i calciatori giallorossi – in un atto di riappacificazione e deferenza, torna in mente una frase che ha scritto il suo miglior biografo, Tonino Cagnucci, nel libro Daniele De Rossi. Il mare di Roma: «Daniele De Rossi rappresenta gli altri quando è sé stesso», fiero e con le mani in tasca, sembrava dicesse: che ci voleva? In realtà non sarà così facile, ma intanto ci prova, si mette alla prova dopo una mezza esperienza con la Nazionale e una panchina a Ferrara con la Spal, poco, ma De Rossi rappresenta gli altri e conosce Roma, proprio come altri che la videro da lontano, Fellini e Pasolini, lui non palleggiava tra Porta Latina e Porta Metronia come Francesco Totti, ma davanti al mare di Ostia, non è cresciuto al centro di Roma, c’è arrivato, piazzandosi di fianco al Capitano, che gli ha fatto da Virgilio: «Totti mi ricorda spesso cosa è Roma, visto che la conosce bene: una città stupenda, ma anche molto pericolosa».

E insieme ne hanno visti passare tanti di calciatori – romani e non, che «hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro» – e di Rome, di allenatori e di presidenze, rimanendo sé stessi, incarnando quelli che poi li amano, in curva come in tribuna.

I Friedkin, non potendosi affidare a Totti, hanno scelto l’altro, l’unico possibile in grado di reggere la botta del dopo, perché cresciuto nel solco, abituato all’ombra prima e alla gloria dopo.

Non a caso Fernando Acitelli scrisse in versi: «Sei il sublime che dona il litorale, / il biondo che regge col suo busto / ancor di più quell’idea imperiale». Ecco: l’idea imperiale che da Agostino Di Bartolomei e Falcao arriva a Francesco Totti e ora a De Rossi, l’unico chiamato ufficialmente ad essere «padre de Roma», perché allenatore, è successo a Bruno Conti, ma sempre in modo provvisorio.

Di Bartolomei voleva farlo e in tanti gli hanno impedito di arrivarci, fino a quando non si è tolto la vita. De Rossi voleva farlo e ora lo fa e facendolo ha scoperto la difficoltà di passare dal campo dove si è sempre figli alla panchina dove si diventa padri. Ha anche già l’anello successivo nella catena della romanità in campo, Lorenzo Pellegrini – stesso ruolo e fascia da capitano – ma ora gli tocca da esse Augusto, con la maiuscola.

Il paragone con Pirlo

Della generazione di Bruno Conti l’impresa è riuscita solo a Dino Zoff, sponda Lazio. Di quella di De Rossi, che ha vinto un mondiale, allenano molti di più di quelli dell’82, anche se ancora nessuno è stato consacrato venerato maestro di calcio.

Non basta vincere un mondiale e avere due evidenti maestri di calcio come Enzo Bearzot e Marcello Lippi per eguagliarli. Non a caso De Rossi spiegando il suo accettare il tuffo in mare per la Roma ha citato Andrea Pirlo che è stato consumato dalla frenesia della Juventus, sulla scia del guardiolismo che faceva sembrare semplicissimo il passaggio dal centro del campo alla panchina, ma De Rossi ha omesso i cattivi risultati, tenendosi l’esempio di responsabilità.

Ma quello più consumato dalle panchine nella stagione del dopo, tra i ragazzi del 2006, è Rino Gattuso, la sua odissea calcistica ne fa un Ulisse fantozziano che forse ora sulla panchina dell’Olympique a Marsiglia ha trovato una quasi Itaca di pallone.

Consumati sono anche Fabio Cannavaro che, però, non smette di avere un ottimismo e un attivismo zavattiniano, saltando dall’Arabia alla Cina fino a Benevento, in attesa d’essere il De Rossi del Napoli; consumato e stropicciato tra le pieghe della violenza del calcio francese è Fabio Grosso, ultima panchina quella dell'Olympique Lione; consumato e imbiancato è Pippo Inzaghi che allena la Salernitana riuscendo però in una azione mourinhiana: trasferire sempre alle squadre che guida il suo carattere; meno consumati appaiono Alessandro Nesta che allena la Reggiana e soprattutto Alberto Gilardino che col Genoa ha trovato il “contesto” che gli permette l’espressione senza pressione, che è poi una delle grandi difficoltà da superare quando si allena: arrivare a saper sopportare vittorie e sconfitte.

Chi è al riparo

E poi ci son quelli che si son messi in salvo dai tormenti della panchina: come Totti – tormentato dal gossip e marcato strettissimo –, Alex Del Piero e Luca Toni che commentano senza mai rischiare di finire in fuorigioco o essere vittime d’un esonero, hanno scelto la tranquillità; e poi ci sono quelli del campo di mezzo come Gigi Buffon divenuto capo delegazione della nazionale italiana o Simone Perrotta dirigente della Figc o Marco Materazzi che se ne sta in disparte entrando in tackle, questa volta solo parolaio.

È sempre difficile lasciare la palla agli altri. De Rossi è stato un calciatore capace di fare dell’intensità la sua forza, in campo riusciva a resistere alle pressioni e spesso a liberarsi anche con il gomito, in una sincerità fisica che piaceva alla curva, ma col tempo ha imparato a contenersi, si è rieducato in un percorso di crescita. Interiorizzando la romanità.

«Io la crisi della Roma me la porto dentro. Ci convivo anche quando vado a casa». Ora quella crisi la deve risolvere. In un percorso nuovo, quello del dopo, della vita bugiarda degli adulti.
 

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