L’autorità dell’amministrazione gerarchica dello stato fedele solo all’imperatore era giustificata come un baluardo a difesa della Kultur contro la Civilisation francese, ovvero l’impulso a subordinare ogni aspetto della vita civile agli ideali democratici ed egalitari. Il dibattito sull’eredità del Kaiserreich è, in questa ottica, assolutamente strumentale: l’idea di un’essenza umana libera di svilupparsi pur in assenza di emancipazione politica è certo discutibile, ma non così grottesco da rendere l’ammirazione per il Reich allarmante
- L’impero Guglielmino ha sempre ricoperto un ruolo secondario nella storiografia tedesca. I quarantasette anni dalla proclamazione dell’Impero nella sala degli specchi di Versailles fino alla proclamazione della Repubblica di Weimar nel 1918 sono stati un’era di cambiamenti sociali, economici e politici senza precedenti nella storia della Germania.
- Giudicare l’impero è infatti allo stesso tempo più semplice e più azzardato che intraprendere riflessioni sul nazionalsocialismo. Più semplice perché, oggettivamente, ben poco (i tedeschi direbbero: nulla) è paragonabile allo angosciante strapiombo in cui il paese più avanzato d’Europa ha trascinato il mondo fra il 1933 e il 1945.
- Le contraddizioni dell’impero – feudale ma industriale, autoritario ma plurale, militarista ma letterato – non assomigliano neanche lontanamente a quelle che deve affrontare oggi la Bundesrepublik. Ma l’incertezza su come giudicare le incoerenze del diciannovesimo secolo la dice lunga sul conflitto politico che attanaglia un paese ancora incerto su come affrontare il ventunesimo secolo.
La sala è angusta, popolata da uomini un po’ attempati, vestiti di grigio, dai capelli brizzolati e i baffi preponderanti. Il loro aspetto è poco marziale, ma sono sudditi di un impero fieramente nato «nel sangue e nell’acciaio» e fedele all’imperatore per grazia divina. Anche se non esistono foto della prima sessione del Reichstag, la dieta imperiale, l’immagine del primo parlamento della Germania unita aleggia per tutto il continente, ancora catatonico dalla drammatica sconfitta francese a Sedan. Solo tre settimane prima le truppe bavaresi avevano concluso l’occupazione di Parigi, lasciandosi dietro una città attanagliata dai moti rivoluzionari. Il 18 marzo, tre giorni prima della prima sessione parlamentare tedesca, le tensioni sfoceranno nell’insurrezione di Montmartre e la proclamazione della Comune. Barricate in Francia, sottomissione in Germania: questa è l’immagine che peserà sull’immaginario collettivo dell’epoca.
L’impero Guglielmino ha sempre ricoperto un ruolo secondario nella storiografia tedesca. I quarantasette anni dalla proclamazione dell’Impero nella sala degli specchi di Versailles fino alla proclamazione della Repubblica di Weimar nel 1918 sono stati un’era di cambiamenti sociali, economici e politici senza precedenti nella storia della Germania, che nel bene e nel (molto) male hanno posto le basi per tutto ciò che è venuto dopo. Proprio per questo, l’impero è spesso servito da punto di riferimento ideale per contestualizzare le convulsioni politiche del lungo secolo tedesco. È impossibile comprendere il fallimento di Weimar senza conoscere il conservatorismo introiettato dalla monarchia nelle istituzioni civili. Come lungamente dibattuto nell’Historikerstreit degli anni Ottanta, anche il nazismo ha un grosso debito ideologico nei confronti dell’ideologia autoritaria e reazionaria dell’epoca.
Celebrazione controversa
Sarebbe tuttavia sbagliato trascurare quello che è stato, se consideriamo la caduta del Muro come uno spartiacque socioculturale, il sistema politico longevo della storia nazionale tedesca. Sarebbe egualmente miope pensare che la celebrazione dell’impero sia semplice appannaggio di nostalgici e criptonazisti in cerca di un mitico passato. Wolfgang Schäuble nella sua vita ha rappresentato tanti valori deprecabili, ma non si può certo definire un pericoloso fascista. Il settimanale social-liberale Die Zeit ha infatti pubblicato un pezzo da lui firmato nel quale l’anziano presidente del Bundestag celebra quella prima sessione parlamentare di centocinquant’anni fa come primo germe della democrazia tedesca, pur con tutti i limiti dell’epoca. La cautela di Schäuble è forse intimata dalle furibonde discussioni scatenate da Demokratie: Eine Deutsche Affäre, saggio della storica Hedwig Richter pubblicato nel 2020 e accusato di sminuire l’autoritarismo della società guglielmina.
Giudicare l’impero è infatti allo stesso tempo più semplice e più azzardato che intraprendere riflessioni sul nazionalsocialismo. Più semplice perché, oggettivamente, ben poco (i tedeschi direbbero: nulla) è paragonabile allo angosciante strapiombo in cui il paese più avanzato d’Europa ha trascinato il mondo fra il 1933 e il 1945. Più azzardato, perché una prospettiva critica sull’impero va a toccare una lotta fra cultura progressista e conservatrice che ha trovato espressione in fissazioni prosaiche come la cancel culture, il “politicamente corretto fuori controllo” e altre amenità del dibattito intellettuale moderno. È infatti difficile ignorare i paralleli fra l’attuale atmosfera e quel conflitto alla base della legittimazione culturale dell’impero. L’autorità dell’Obrigkeitsstaat, dell’amministrazione gerarchica dello stato fedele solo all’imperatore, era giustificata come un baluardo a difesa della Kultur contro la Civilisation francese, ovvero l’impulso a subordinare ogni aspetto della vita civile agli ideali democratici ed egalitari. Il dibattito sull’eredità del Kaiserreich è, in questa ottica, assolutamente strumentale: l’idea di un’essenza umana libera di svilupparsi pur in assenza di emancipazione politica è certo discutibile, ma non così grottesco da rendere l’ammirazione per il Reich allarmante.
Repressione boomerang
A complicare ulteriormente il giudizio storico e politico dato all’Impero è indubbiamente il fatto che nessun sistema politico, neppure il più autoritario, può restare invariato nel corso di quarant’anni. La politica repressiva nei confronti di cattolici e socialdemocratici, voluta da Otto von Bismarck, ne è l’esempio più lampante: le due formazioni politiche passeranno da essere nemici dello stato a principali forze politiche dell’impero, provocando riforme sociali piuttosto progressiste per l’epoca. Il sistema di protezione sociale e la legge elettorale, entrambe all’avanguardia in Europa, erano state inizialmente concesse perché considerate dall’impatto modesto. Esse diventeranno però un volano per la democratizzazione politica e sociale del paese, stimolando la mobilitazione di quegli elettori liberali e socialisti a cui lo stato voleva concedere solo contentini di facciata. Questa è solo una delle numerose contraddizioni che attraversavano il giovane paese: la Germania era quindi il paese in cui la paura di una rivoluzione socialista era accompagnata da strabilianti risultati elettorali del Spd, una società patriarcale in cui l’imperatrice e donne socialiste facevano fronte comune sull’oppressione delle sarte, obbligate al lavoro da casa e quindi incapaci di organizzare un sindacato, in cui la rigidità della cultura officiale conviveva con l’espressionismo, in cui la nazione guardava con orgoglio a Thomas Mann, massimo narratore della propria stessa corruzione morale.
Perfino l’ethos autoritario alla base della Costituzione imperiale fu spesso posto in discussione. L’edificio del Reichstag (oggi sede del parlamento federale) ne è un simbolo. Costruito negli anni Novanta dell’Ottocento, il suo impianto architettonico ha rappresentato una svolta intrapresa contro il volere del Kaiser, che avrebbe preferito un edificio più modesto. L’architetto Paul Wallot decise invece di ispirarsi alla borghesissima galleria Vittorio Emanuele di Milano, cuore commerciale di un paese il cui parlamento godeva di poteri politici ben più ampi del Reichstag (ne scrive Horst Bredekamp nel suo libro sull’architettura mediterranea a Berlino). Come ricorda anche Schäuble, il parlamento tedesco riuscì nel corso degli anni a raccogliere sempre più prerogative politiche, andando ad affievolire lo strapotere del cancelliere (nominato dal Kaiser) e sfruttando l’affermarsi del corporativismo tedesco per trasformare la propria funzione di rappresentanza in vero potere.
Non sorprende che l’interesse nei confronti dell’impero riemerga proprio in un momento storico che vede la Germania ancora una volta alla guida del continente, durante una competizione fra grandi potenze a livello planetario. Non è nemmeno un caso che ciò avvenga grazie a due sviluppi diametralmente opposte nella cultura tedesca contemporanea, lo storicismo e il post colonialismo. Il primo si riferisce a quel desiderio, soprattutto architettonico, di creare una continuità fra la Bundesrepublik e la cultura antebellica, basti pensare alla ricostruzione del centro di Francoforte e del palazzo degli Hohenzollern a Berlino, falsi storici modestamente aggiornati con accozzaglie di vetro e acciaio. Il post colonialismo, invece, si concentra soprattutto nella ricerca e nella condanna senza appello delle pratiche oppressive in Africa e, seppur in minor misura, nei territori polacchi. Andare a rimestare le atrocità e repressioni commesse quando la Germania era un paese “normale”, o scegliere proprio di relativizzare ciò che oggi considereremmo crimini contro l’umanità, significa decidere la risposta politica che una comunità deve dare alle proprie contraddizioni. Le contraddizioni dell’impero – feudale ma industriale, autoritario ma plurale, militarista ma letterato – non assomigliano neanche lontanamente a quelle che deve affrontare oggi la Bundesrepublik. Ma l’incertezza su come giudicare le incoerenze del diciannovesimo secolo la dice lunga sul conflitto politico che attanaglia un paese ancora incerto su come affrontare il ventunesimo secolo.
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