Le imprese del settore stanno fiorendo, trascinate dal successo di BioNtech e Curevac, che ha attratto l’interesse di investitori privati ma anche dello stato tedesco. La chiave dell’efficacia del loro lavoro arriva dalla stretta collaborazione con gli istituti di ricerca universitari, che spesso partecipano ai profitti
- Il Covid ha impresso una svolta. Grazie ai vaccini di Biontech e Curevac l’industria biotech tedesca è rinata.
- Università collegate ad imprese, capitali stranieri, capitani d’industria esperti: sono questi gli ingredienti dietro il successo.
- Il modello comincia a dare i suoi frutti: le startup attraggono lavoratori non solo tedeschi ma anche internazionali.
«Questa pandemia ha dimostrato che l’industria biotecnologica tedesca ha una forza che può risolvere i problemi che l'umanità si trova a dover affrontare». Ne è convinta Helga Rübsamen-Schaeff, chimica, virologa ed ex vicepresidente della Bayer, che scommette sul futuro delle 400 aziende biotecnologiche tedesche: «Possiamo essere l’industria del futuro», dice.
I dati sembrano confermare la sua teoria. Le imprese tedesche del settore, che nel 2019 davano lavoro ad appena 34mila dipendenti e contavano appena 5 miliardi di euro di vendite, sono improvvisamente esplose nel 2020 riuscendo ad ottenere oltre tre miliardi di euro in investimenti, di cui 942 milioni di euro da capitali di rischio e 2,11 miliardi da offerte pubbliche iniziali sul mercato azionario. Una crescita incredibile, se si pensa che la cifra costituisce più del triplo rispetto al 2019 e più del doppio rispetto al 2018, che ha già portato immediati benefici al settore, con le vendite cresciute del 10 per cento e la forza lavoro del 16 per cento secondo l’associazione di categoria Bio Deutschland. A dare un’incredibile spinta è stato il Covid-19: infatti BioNtech e Curevac, le due aziende che stanno producendo vaccini, sono coloro che hanno ottenuto la fetta più grossa, ben 1,5 miliardi di euro. La loro importanza è testimoniata dai numeri: lo stato tedesco ha investito 300 milioni di euro per ottenere il 23 per cento di Curevac, che non ha ancora avuto l’autorizzazione per il suo vaccino da parte dell’Ema, mentre il fatturato di BioNtech è arrivato alla cifra record di 403 milioni di euro grazie anche alla distribuzione di 200 milioni di dosi del suo medicinale in oltre 65 paesi.
La situazione prima della pandemia
Prima del boom, legato all’emergenza sanitaria, l’industria biotech non ha sempre vissuto momenti floridi. Uno dei problemi con cui il settore ha dovuto fare i conti è stata per esempio la presenza di alcuni startupper gelosi delle loro scoperte. «Nove su dieci sono innamorati della loro tecnologia, ma non hanno un modello di business funzionante per usarla», dice Matthias Kromayer, specialista del fondo d’investimento Mig e tra i primi finanziatori di BioNtech.
A livello universitario e aziendale le criticità maggiori sono state soprattutto l’incapacità di alcuni istituti di ricerca di fare il salto dalle aule agli studi clinici e la cronica assenza di investimenti internazionali, che hanno per lungo tempo lasciato un intero settore nel limbo. Senza la presenza di magnati come il fondatore del produttore di Software Sap Dietmar Hopp e i fratelli Strüngmann, Thomas e Andreas, che hanno dato vita all’azienda farmaceutica Hexal, anche le industrie dei vaccini ne avrebbero risentito. «Eppure la ripresa del biotech tedesco è iniziata già da alcuni anni», sottolinea Harpreet Singh, amministratore delegato di Immatics, azienda specializzata nella ricerca di una terapia contro il cancro e quotata lo scorso luglio per la cifra record di 212 milioni di euro al Nasdaq. «La pandemia ha portato un cambiamento dirompente», ha dichiarato l’amministratrice delegata di Bio Germany, Viola Bronsema.
Il passo avanti di università e aziende
La svolta è arrivata dagli istituti universitari. «I professori che hanno sviluppato le teorie che utilizziamo sono i primi a darci i consigli e a preparare gli studenti del loro master per il nostro campo di studi. Lo sforzo degli istituti di ricerca viene ricompensato con una parte del profitto», sottolinea Marcus Kostka, amministratore delegato di Abalos Therapeutics, un’azienda specializzata nella ricerca immuno-oncologica e che lavora a stretto contatto con gli istituti di Düsseldorf e di Duisburg-Essen.
Non è la sola impresa a lavorare in questo modo, visto che in molti già fanno come loro. Un esempio è il Lead Discovery Center (Ldc), creato dalla Max Planck Society a Dortmund nel 2008. Un successo testimoniato dai numeri: in questo centro 85 dipendenti hanno già testato circa 90 idee accademiche, 17 sono avanzate allo step della sperimentazione animale, tre sono arrivate addirittura alla sperimentazione clinica. «Molti dei nostri progetti hanno prodotto spin-off», dice il direttore scientifico del centro Bert Klebl. Un simile passaggio, unito a una gestione più professionale delle aziende, ha iniziato a destare l’interesse degli investitori.
In estate nasceranno a Heidelberg, nel Baden-Württemberg, i primi Biolab, incubatori di startup biotech senza scopo di lucro fondati da un medico tedesco, Johannes Frühauf, negli Stati Uniti, dove ha raccolto più di 300 startup in otto città assicurando loro regolarmente oltre il 20 per cento di tutti gli investimenti iniziali. Un passaggio obbligato per chi vuole provare a ottenere i soldi di Big Pharma e delle grandi multinazionali. In questo periodo infatti la Merck, azienda di Darmstadt impegnata nel ramo chimico e farmacologico, cerca startup in fase di espansione mentre l’azienda biotech berlinese T-Knife, che ricerca cure contro i tumori partendo dalle cellule T, ha ricevuto 66 milioni di euro in venture capital da parte di tre fondi di investimento statunitensi e uno tedesco. «Gli investitori stanno attualmente realizzando che con le scienze della vita puoi fare del bene e guadagnare bene allo stesso tempo», dice Rainer Strohmenger di Wellington Partners, società bavarese che gestisce capitali di rischio.
Come cambiano le startup
L’arrivo dei finanziamenti ha cambiato, in meglio, anche il volto di molte startup e società del settore, che spesso si affidano a capi dall’esperienza consolidata. Un esempio sono proprio i fratelli Strüngmann che, secondo la testata economica Handelsblatt, hanno investito quasi 1,3 miliardi di euro in diverse società biotecnologiche negli ultimi 25 anni. Non sono gli unici capitani di industria con un’esperienza consolidata.
Peer Schatz, a lungo a capo di Qiagen, sta attualmente cercando di ripetere il suo successo globale con Resolve Biosciences. Rainer Lichtenberger, dopo una lunga esperienza nel settore biotech, adesso da co-fondatore e amministratore delegato di Atriva Therapeutics ha deciso di sviluppare un ampio spettro terapeutico contro le malattie virali delle vie respiratorie. Capi affermati e finanziamenti internazionali hanno inevitabilmente aperto le porte ai lavoratori stranieri. In Biontech, ad esempio, lavorano persone provenienti da più di 60 paesi.
Evotec ha assunto circa 500 nuovi dipendenti negli ultimi dodici mesi. «C’erano persone di primo livello provenienti dalle migliori università americane che volevano lavorare per noi», dice Werner Lanthaler, amministratore delegato dell’azienda. Le cose stanno cambiando anche ai piani più alti. Lo dimostra il caso di T-Knife, che ormai è diventata più di una semplice startup, visto che grazie al finanziamento di 66 milioni ha raddoppiato il numero dei suoi ricercatori, ha fondato una filiale nell’hotspot biotech San Francisco e ha assunto due statunitensi, Tom Soloway e Camille Landis, rispettivamente come amministratore delegato e direttore finanziario. Buone idee, soldi e conoscenze affermate in campo nazionale e internazionale: il settore biotech tedesco ha tutto per restare sulla cresta dell’onda.
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