L’idea di spingere la diffusione e lo studio del tedesco anche all’estero è stata un’idea del cancelliere socialdemocratico Willy Brandt: era un’occasione di riconciliazione postbellica e una colonna fondamentale della politica estera di Berlino. Oggi si è creata un’importante rete di centri di studio in tutto il mondo
- La strategia del Goethe Institut è soprattutto in linea con la volontà di rendere gli istituti un terreno culturale neutro e quindi eccellente per la propagazione di valori fondativi dello stato tedesco: pluralismo, inclusività e una discreta seduzione della società civile ed economica.
- Se il Goethe Institut fornisce uno spazio culturale, le scuole tedesche sono gli strumenti per cementare i legami politici, economici e cognitivi che la Germania ha con i propri partner internazionali.
- Le scuole tedesche, analogamente, sono a lungo state centri di riconciliazione postbellica, soprattutto in Francia e Italia. Ma è evidente che questi compiti non siano più sufficienti per giustificare le dimensioni dell’operazione.
Ogni stato ha un rapporto diverso con la propria lingua. La Francia vede il francese come l’ultima, potente eredità del proprio impero civilizzatore; gli Stati Uniti considerano la conoscenza l’inglese come unica precondizione culturale per la cittadinanza, mentre per il Regno Unito è una fonte di reddito non male (il British Council, l’organismo che si occupa della diffusione della lingua inglese all’estero, sostiene di aver generato un provento di ben 1,25 miliardi di sterline nel biennio 2018-19).
La Bundesrepublik, come in molti altri ambiti, approccia il tedesco con imbarazzata fierezza. Beninteso, anche qui la diffusione della lingua è considerata uno strumento strategico per avanzare gli interessi tedeschi nel mondo. Il manto ideologico di questi interessi, cioè l’immagine di un “potere civile” che propaganda commercio e tolleranza, le impedisce però di rappresentare i centri di studio del tedesco come avamposti germanici all’estero, come i francesi, o ancora come corsia preferenziale per l’immigrazione qualificata, come gli inglesi. Utilizzo qui l’aggettivo “germanico” perché, in fin dei conti, la debolezza politica del tedesco ne è anche la sua forza culturale: la lingua di Goethe è infatti anche la lingua di Brecht, di Handke, di Dürrenmatt, di Celan, di Kracht, di autori e intellettuali che scrivono e pensano in tedesco ma non sono figli della Germania.
Il ruolo della lingua
Carola Lentz è consapevole di questo problema. La nuova direttrice del Goethe Institut, in carica dal novembre 2020, sa bene di essere a capo di un’istituzione ibrida, a metà fra strumento diplomatico e centro di aggregazione per il dialogo civico locale. Lentz, da esperta di Africa occidentale, tende infatti a sottolineare il ruolo che le 157 sedi dell’istituto hanno in contesti socioculturali profondamente conflittuali. Un vanto dei Goethe Institut è infatti quello di offrire safe space per attivisti e artisti spesso soffocati da un pensiero dominante ostile, in particolare per questioni di genere, postcolonialismo e identità queer. Gli istituti, piuttosto autonomi nella gestione delle proprie risorse, sono incoraggiati ad innestarsi in progetti e dibattiti locali, rafforzando le prospettive locali e supportandole con risorse tedesche.
La strategia del Goethe Institut è soprattutto in linea con la volontà di rendere gli istituti un terreno culturale neutro e quindi eccellente per la propagazione di valori fondativi dello stato tedesco: pluralismo, inclusività e una discreta seduzione della società civile ed economica. Perché gli istituti, nonostante questi pudori politici, rappresentano comunque la più riuscita espressione della diplomazia tedesca. Come scrive Federica Missaglia, si deve al cancelliere Willy Brandt l’idea di includere diffusione del tedesco come terzo pilastro della politica estera tedesca, una Auswärtige Kulturpolitik (politica culturale esterna, ndr) da affiancare alla Sicherheitspolitik (politica di sicurezza, ndr) e la Außenwirtschaftspolitik (politica economica estera, ndr). Complice la mancanza di un ministero dell’Istruzione federale, le cui funzioni sono affidati ai singoli Land, la divulgazione della lingua tedesca è affidata a un dipartimento del ministero degli Esteri, già tutore della Società Archeologica Tedesca e altre organizzazioni di stampo culturale.
Le scuole
La sospensione del federalismo educativo è utile anche per la gestione di un altro grande strumento di questa Kulturpolitik: le 161 scuole tedesche all’estero. Se il Goethe Institut fornisce uno spazio culturale, le scuole tedesche sono gli strumenti per cementare i legami politici, economici e cognitivi che la Germania ha con i propri partner internazionali. I rapporti politici beneficiano dall’attrattività dell’ottima offerta educativa che le scuole tedesche hanno per studenti di estrazione medio-alta, coloro che, da grandi, potranno ragionevolmente avere ruoli cruciali nella vita pubblica del paese (la scuola di Città del Messico ne è un esempio).
Le affinità economiche, ugualmente, sono causa e conseguenza della presenza di una scuola tedesca: la presenza di molte imprese tedesche nell’hinterland lombardo garantisce un afflusso di finanziamenti alla scuola germanica di Milano, che a sua volta offre molte opportunità a ragazze e ragazzi italiani di diventare sostanzialmente bilingue e trasferirsi a lavorare in Germania. I legami cognitivi, poi, sono quelli portati dalla permanenza in un sistema scolastico spesso molto diverso da quello del paese ospitante, che pone l’enfasi sulla cautela di giudizio e la considerazione di più punti di vista. Avendo frequentato una di queste scuole, sospetto che ciò renda gli alunni, nel bene e nel male, più comprensivi di molti atteggiamenti sociali tedeschi.
Anche a Berlino regna abbastanza confusione sulla funzione che le scuole e i Goethe Institut dovrebbero avere in un mondo ormai molto diverso da quello di Brandt. Il primo istituto fu aperto nel 1957 ad Atene, nel quadro di un’iniziativa per riallacciare i rapporti fra ex occupatori e occupati. Le scuole tedesche, analogamente, sono a lungo state centri di riconciliazione postbellica, soprattutto in Francia e Italia. Ma è evidente che questi compiti non siano più sufficienti per giustificare le dimensioni dell’operazione: nel 2020, circa 300mila persone studiavano tedesco al Goethe Institut, a cui si aggiungono 85mila studenti delle scuole all’estero, di cui ben 65mila senza la cittadinanza tedesca.
I tagli al budget e le lotte fra scuole e Goethe per accaparrarsi i fondi rimasti indicano che ancora manca una vera strategia per portare queste istituzioni al passo col nuovo ruolo di potenza democratica, promotrice di dialogo interculturale e dell’apertura a cui la Germania ambisce. La vera sfida risiede nel fatto che, oggi più che mai, la Germania è diventata un paese di immigrazione duratura, che va ben oltre alle tournée di due-tre anni dei vecchi Gastarbeiter, i lavoratori stranieri degli anni Settanta. Alla luce di tutto ciò, a cosa serve la Auswärtige Kulturpolitik? A cambiare le società con cui la Bundesrepublik intrattiene un rapporto o permettere che queste società abbiano la possibilità di cambiare la Bundesrepublik?
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