Davvero non credo ci sia in tutta Italia un luogo dove il tempo sia così pietrificato come ad Ibla, e la bellezza del luogo così alta e immobile, e nello stesso tempo così mortuaria
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
La prima volta che entrai in questa piazza di Ragusa Ibla mi accadde una cosa magica: provai improvvisamente la sensazione che la mia età presente fosse scomparsa, gli anni volati via per un misterioso colpo di vento. Io ero fanciullo: i piccoli palazzi bianchi e grigi con i balconi deserti, gli alberi immobili di oleandro, quella chiesa gigantesca con la scalinata deserta, le colonne immense con i nidi dei passeri. E lungo quella facciata seicentesca un alto marciapiede, come una lunga terrazza, sulla quale stava seduta una fila di vecchi.
Tutti signori, tutti vestiti di nero, con la cravatta nera, il panciotto nero, la catena d’oro dell’orologio, i capelli bianchissimi. I vecchi signori, baroni o avvocati, avevano tutti questi capelli candidi con un alone quasi biondo, e i contadini invece, anche i più vecchi, avevano capelli grigi come fili di ferro. Ma forse era perché i contadini erano curvi e rattrappiti e mi sembravano vecchi senza esserlo.
Il sole bianco, il vento con l’odore dell’origano, lo zoccolio di un cavallo che sbucava lento e subito spariva da un vicolo della piazza. Ecco, in questa piazza di Ragusa è tutto esattamente così. Le facciate bianche e deserte dei palazzi che si protendono quietamente verso l’alto, quasi a congiungersi con l’immensa scalinata della chiesa. E la chiesa trionfale, con le colonne sempre più agili ed alte fino alla cupola azzurra. Otto palme gigantesche scandiscono questo spazio immobile.
L’unica cosa che si muova è quel vecchio contadino, esattamente come un contadino di allora, rattrappito, un po’ curvo, con la coppola, lo sguardo inerte, una grande falce sulla spalla. C’è anche qualcos’altro di vivo, ma immobile, nel tepore del pomeriggio: su quell’alto marciapiede, come una terrazza bianca, una fila di signori immobili. Sono certamente signori.
C’è tutta una maniera elegante e affabile di esserlo, essere vestiti senza tracotanza, parlare senza grandi gesti, stare in silenzio con un sorriso malinconico ed ogni tanto sospirare. Lungo questo terrazzo si aprono tre porte e, su in cima al cornicione, si eleva un grande stemma di pietra con una scritta scolpita sull’intaglio: Circolo di conversazione.
E c’è tutto un mondo in quella antica definizione: non circolo di cultura dove si dibattano problemi o si ascoltino conferenze, e nemmeno circolo di gioco dove si venga a puntare ogni sera il denaro ad una zecchinetta o un furioso tressette, ma semplicemente luogo dove si viene quietamente ogni sera, sempre alla stessa ora, ad incontrare sempre le stesse facce, e gradevolmente parlare.
Anzi, stare soltanto insieme, poiché anno dopo anno, sera dopo sera, tutto quello che c’era da dire ognuno lo ha detto, e basta solo un sorriso o un sospiro, o addirittura un cenno d’intesa per capire che tutto è identico al giorno avanti, e non ci saranno novità nemmeno domani e dunque non c’è proprio niente da dire. Sicché si sta in fila, l’uno accanto all’altro, in silenzio, lungo quella terrazzina bianca, a guardare la piazza deserta. Ogni tanto passa un contadino vecchissimo, con la falce e fa un inchino togliendosi la coppola «baciolemani», ed ognuno risponde con un impercettibile cenno del capo.
Non credo che esista luogo della Sicilia dove gli anni siano diventati polvere, continuamente portati via dal vento, e le cose siano rimaste com’erano venti, cinquanta anni or sono, le stesse facciate di colore sempre più tenue, le persiane delle finestre sempre chiuse, i nidi deserti delle rondini sù in cima alle colonne della chiesa, la piazza vuota con l’erbavento sui cornicioni, le tendine socchiuse dei balconi, ogni tanto, per un attimo soltanto trapela un volto. Un tempo quel volto era giovane, poi divenne sempre più vizzo, ora ha i capelli bianchi, poi non apparirà più, e la piazza resterà definitivamente deserta.
Via via che sull’altipiano si estendeva la Ragusa nuova, i palazzi di governo, le scuole, gli alberghi, i negozi e la città si arrampicava addirittura sull’altra parte della montagna, collegata da tre ponti di tre diverse altezze, la piccola Ibla cominciava tuttavia a sfiorire e morire. I bottegai, i professionisti, i commercianti, i giovani rincorsero la città sull’altra cima del ponte, abbandonando per sempre la vecchia isola di Ibla che, su una montagna, circondata dalle montagne, al centro perfetto di tutte le vallate, sembra davvero emersa dalla terra.
La stessa ansia con cui ognuno costruì il suo palazzo aggrappandolo o sovrapponendolo a quello degli altri è tipico degli isolani che non trovano spazio e si afferrano, ad ogni palmo della terraferma. Ad Ibla rimasero solo i più ricchi, poi anche loro cominciarono a fuggire, una famiglia dopo l’altra.
Infine rimasero i nobili che, a loro volta, dolcemente presero a invecchiare e morire: è incredibile come le famiglie dei nobili riescano a morire o disperdersi nel giro di una o due generazioni, quasi che privati d’un tratto della potenza, dell’orgoglio, della ricchezza, non ritengono di avere più alcuna ragione per vivere.
Ora ci sono solo gli epigoni: nel tepore dei lunghissimi pomeriggi primaverili, stanno in fila lungo quel terrazzo del circolo, in un’assorta contemplazione, dentro quella piazza d’impareggiabile bellezza e tristezza. E qualche famiglia di contadini, sepolta chissá dove, in quei cortili che non si vedono, sotto quei tetti grigi, lungo quell’evoluzione misteriosa di scalinate.
Davvero non credo ci sia in tutta Italia un luogo dove il tempo sia così pietrificato come ad Ibla, e la bellezza del luogo così alta e immobile, e nello stesso tempo così mortuaria. Più che a Venezia.
Risaliamo sull’altro versante della Valle. Le strade si fanno a mano a mano più larghe e più dritte, i palazzi più alti e squallidi, i bassi sono tutti negozi e insegne, la folla più fitta, auto dovunque sui marciapiedi e nelle piazze, ecco i tre ponti, l’uno antico di pietra in basso, l’altro più esile a metà collina, il terzo più alto e monumentale. Sull’una e sull’altra sponda la Ragusa moderna, i supermercati, i cinema, i palazzi lividi del nostro tempo, i tavoli dei bar sui marciapiedi, le file di auto che avanzano adagio e ordinatamente.
L’impressione immediata e, dapprincipio, quasi sorprendente, è che anche in questa nuova Ragusa, più vasta, più ricca, tutto però accada quietamente, senza clamori, senza fretta. La gente non corre, non grida, le auto non si ammucchiano per i sorpassi, la gente sta composta alle tavolate dei caffè. Cioè l’impressione che, abbandonando quell’antica città inerte di Ibla e dimenticandola in fondo alla valle, la gente non abbia modificato il suo umore vitale, la identica e assorta malinconia, il garbo civile di stare insieme senza obblighi e senza fastidio.
Questa è l’unica popolazione dell’isola che non abbia abbandonata la terra. Solo un abbaglio negli anni sessanta, subito dopo la scoperta del petrolio a Torre Pendente, il sogno di uno sviluppo industriale, una sorta di farneticazione collettiva che durò appunto il tempo di un sogno poiché quasi miracolosamente la gente intuì che tutto sarebbe stato un inganno.
Il petrolio poteva dare ricchezza solo a chi lo possedeva, o ai grandi imprenditori che lo avrebbero raffinato e qui non c’erano strade per le industrie, né ferrovie adeguate, né scali marittimi per le petroliere, né tecnici, né scuole specializzate, forse nemmeno lo spazio. Le industrie erano lontanissime, sul mare di Augusta.
Una delusione così, altrove avrebbe provocato uno stato d’animo di continua rivolta. Non qui! E, d’altro canto, l’illusione era stata così breve e confusa che i ragusani non avevano avuto nemmeno il tempo di sradicarsi dalla terra, vi tornarono dunque con accresciuta pazienza e con l’astuzia che è tipica appunto delle razze pazienti. Cominciarono a coltivare le serre.
Prima provarono con i pomodori, poi con le melanzane, poi con i carciofi, i cetrioli, le zucche, le cipolle, via via le serre si allargarono per tutte le vallate di Comiso e Vittoria fino al mare, una ricchezza che dilagava, si moltiplicava, penetrava in ogni strato della popolazione appagandola, appassionandola: i proprietari della terra, i contadini, i trasportatori, i commercianti, i sensali, gli appaltatori, i piccoli tecnici, le banche, i professionisti, un benessere lento, ma paziente e sicuro, che non lasciava nessuno da parte.
Al confronto il petrolio diventava una miserevole illusione. Una sola cifra per tutte: in un anno nel ragusano si producono oltre centomila tonnellate di pomodori, cioè cento milioni di chili che, tradotti in termini economici, significano un reddito di quasi venti miliardi, quasi equivalente a tutta la produzione annuale dei campi petroliferi. Sulla terra lavorano decine di migliaia di famiglie fra le quali il reddito va ripartito senza squilibri; il petrolio dà occupazione a poche centinaia di addetti ed il reddito si accumula tutto in pochissime mani e per altri affari che non hanno qui né residenza, né interessi.
Questo è l’unico territorio dell’isola dal quale la gente non cerchi di emigrare per disperazione o miseria; qualcuno va via per ansia del nuovo, ma non hanno l’avidità aggressiva che viene dalla fame, sono pazienti e garbati, e dopo pochi mesi fatalmente ritornano, le famiglie hanno quindi il loro posto antico e ci restano dentro, il contadino semmai per tentare di diventare massaro, il massaro per comperare un altro ettaro di terra, l’allevatore per costruire altre stalle più vaste, ognuno convinto che il posto migliore della terra sia proprio quello dove ora si trova, cioè quella terra, quel paese, quegli amici, quei figli, quell’intreccio di rapporti umani.
Una pazienza contadina che è comune a tutti, anche a chi è avvocato, o professore, negoziante, medico, artigiano, impiegato e che mantiene una società inalterata in tutti i suoi rapporti, ognuno con i suoi simili ed i suoi interessi, senza ribellione, senza violenze, con i rancori sempre assopiti ed oscuri, gli odi sociali senza urgenza, ingiustizie o diritti che si possono sopportare o rinviare.
Ecco allora che il piccolo mondo contadino e borghese di Ibla, abbandonando quella collina oramai morta, quei palazzi tristi e affascinanti, quelle scalinate senza fine, quel minuscolo universo assorto e pietrificato di venti, cinquanta, cento anni fa, ed inseguendo sulle altre montagne e giù per le valli e pianure un’altra città e un altro modo di vivere, è rimasto praticamente lo stesso nell’anima.
Gli uomini che stanno nei bar della città nuova, seduti l’uno accanto all’altro, hanno la stessa quieta malinconia di quegli ultimi nobili che siedono dinnanzi al circolo di conversazione nella splendida piazza deserta, e non hanno più niente da dirsi. Il mondo finisce laggiù dov’è la striscia del mare, e, dalla parte opposta, lungo quella catena grigia e dolce dei monti Iblei.
Ecco perché Ragusa è una città nella quale stanno bene i quieti sodalizi della cultura borghese, i Lions, Rotary, Fidapa, Soroptimist, cioè benestanti e amabili, che ogni tanto si riuniscono per discutere di cose che esistono sulla faccia della terra, cose magari lontanissime e che altri e sconosciuti stanno provvedendo a risolvere praticamente e intanto ci si saluta, si abbraccia, si sta bene e confortevolmente insieme, si mangia bene, al termine della cena qualcuno svolge una relazione di attualità, ognuno fa un bell’intervento che provoca un sommesso congratularsi dei vicini di tavola, c’è sempre anche il vescovo della città che alla fine ha il suo caloroso applauso.
E ci si dà appuntamento da lì a quindici giorni o un mese: ci sarà il piacere di avere a mensa e conferenza lo scrittore o giornalista del momento, un Montanelli o un Biagi, un cachet che si paga più volentieri di quello di una Mina o di un Pippo Franco, che sanno cantare o fanno tanto ridere, ma non fanno cultura, non pacificano la coscienza nei confronti degli obblighi con il mondo moderno.
Oh, tutto questo sia detto senza malanimo, accade così perché così è la società, ed è placida, ha risolto cortesemente o ritiene di avere risolto senza traumi i propri problemi presenti: la buona terra coltivata, gli allevamenti, il villino vicino al mare, lo studio professionale, il salario sicuro, salutandosi sempre gli uni con gli altri per strada, ritrovandosi puntualmente da qualche parte per il piacere di vedersi, vivere senza l’incubo dei ladri, gli assalti sanguinosi e quotidiani dei minorenni, la furia cupa dei disoccupati.
Non c’è molta allegria e nemmeno però tristezza, ma una sorta di malinconia gradevole dentro la quale puoi stare con la sicurezza che domani le cose saranno su per giù allo stesso modo e posto di oggi, e si può preparare un appuntamento, un affare, l’acquisto della macchina nuova, la corte ad una bella donna, la compravendita di una casa. Forse per questo Ragusa è anche la città dentro la quale stanno benissimo tutte le associazioni, cioè i raggruppamenti di uomini che fanno lo stesso lavoro ed hanno gli stessi interessi (la difesa del fisco, l’irrigazione, la pioggia al tempo giusto, i contributi regionali) e tuttavia, finito questo interesse, ognuno può continuare ad essere come vuole, farsi gli affari suoi, coltivare il suo campo, vendere a chi paga meglio, senza dover dare conto a nessuno.
E appare anche giusto che ognuno se ne stia con i suoi pari, non per razzismo sociale, ma per comodità di argomenti e uniformità di linguaggio, i contadini con i contadini, i massari con i massari, i professionisti con i professionisti, gli ultimi nobili fra di loro. Del resto, cosa manca a Ragusa che gli altri abbiano?
Ci sono belle sale cinematografiche, qualche galleria d’arte, la biblioteca, la ferrovia che un deputato fascista, per tornanti incredibili, traforando su e giù un’intera montagna, riuscì a condurre fino alla cima dell’altipiano; c’è la superstrada per la marina, la riviera a venti chilometri, con l’acqua ancora quasi pulita, un piano di fabbricazione che ha consentito a tutti di costruire la propria villetta di pietra bianca, bruttina, l’una sull’altra, la riviera è stata devastata per sempre ma ogni famiglia oramai ha la sua brava casetta a mare, tutti insieme e vicini in modo che, anche d’estate, niente si modifichi troppo e ci si possa continuare a vedere, salutare, parlare.
Sul mondo corrono tempeste, guerre apparentemente senza scopo, rivoluzioni che sembrano solo demoniache, attentati di ferocia senza pari, stragi improvvise, fiamme immense che corrono qua e là, talvolta sono soltanto idee nuove che distruggono e devastano, ma tutto per ora accade oltre quelle montagne e non intacca l’equilibrio di questo piccolo mondo.
Qua c’è Vittoria con la splendida distesa delle sue serre, migliaia di contadini che coltivano oro; là c’è Comiso con i suoi campanili, le sue cupole illuminate anche la notte; là Chiaramonte, così piccolo e gentile, dove si mangia la migliore salsiccia del mondo.
Dentro quest’alveo, circondato e protetto dalla sua stessa appagata malinconia sta Ragusa, con tutti i suoi paesi a corona, le sue dolci colline, le sue vallate che scendono sempre più dolcemente verso il mare, popolate di greggi, con torme di cavalli che galoppano liberi, d’una bella razza forte e veloce, e gli armenti di bovi modicani, alti e solenni, e laggiù il mare con le spiagge di rena rossa, questa specie di Far West siciliano dove il contadino va ancora a cavallo e il cavallo è una presenza costante quasi dentro la famiglia contadina, e i dirupi sono di pietra bianca come i canyon, ma non ci sono indiani, né desperados, né saloon con gli ubriachi e nessuno che spari sul pianista, o impicchi i ladri di cavalli.
Anche perché non ci sono pianisti né ladri di cavalli. E l’unica frontiera è quella linea gracile di colline iblee, al di là della quale c’è la tragedia siciliana, con i suoi dolori e disperazioni, e ancora più lontano la tragedia europea con le sue violenze e nuove verità. E se un giorno quella linea esile di colline si incrinerà…
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